Sommario
PROLOGO
MODERNO – Grandi e nobili orfani e altri testi di Alejandro de la Sota
MATERIA – Dalla materia all’astrazione di Orsina Simona Pierini
EQUILIBRIO – Lezioni d’equilibrio di Juan Antonio Cortés
STRUTTURA – Percorrendo Sota. Riflessioni sulla Gimnasio Maravillas di José Manuel López-Peláez
VUOTO – Costruire, abitare di Juan Navarro Baldeweg
CASA – Paura di toccare la terra di Moisés Puente, La Casa Varela – Estratto dal testo di Manuel Gallego
MATERIALI – Testi di Alejandro de la Sota
DETTAGLI – Arquitectura sin trabajo Josep Llinás
APPARATI – Biografia, Bibliografia, Origine dei testi e fonti delle immagini
Dalla materia all’astrazione
Con l’analisi dell’edificio del Gobierno Civil di Tarragona di Alejandro de la Sota, mi interessa, attraverso l’espediente della lettura critica di un progetto costruito, approfondire in particolare una questione: il rapporto che l’architettura può stabilire con l’arte.
La tesi che qui si vuole sostenere è infatti quella secondo cui è possibile leggere il progetto di questo edificio attraverso l’individuazione di una serie di problemi usuali del progetto d’architettura come il rapporto con la città o la destinazione funzionale e il loro successivo confronto con operazioni tipiche delle arti figurative come l’astrazione o la materia, per arrivare al riconoscimento delle nuove soluzioni cui il progettista è pervenuto proprio dal proficuo confronto tra arte e architettura.
A questo scopo la lettura analitica dell’opera procederà secondo due ordini di questioni: da un lato la lettura formale dell’opera mediante l’individuazione di alcuni dei concetti che la ordinano; dall’altro la comprensione concreta delle modalità di trasferimento di un concetto artistico nel progetto d’architettura.
Critica
Ci sono almeno tre critici d’arte che mi sono serviti per impostare il modo di guardare a quest’opera. E il legame tra loro è dato dal fatto che ognuno di essi introduce con forza il ruolo dell’osservatore nell’atto critico, impone cioè come prioritario il problema del punto di vista di chi osserva – che per noi significa anche di chi osserva per poi fare. Sono tutti autori che mettono in evidenza la “crepa che si apre tra opera e osservatore”[1].
Mi riferisco in primo luogo ai lavori di Michael Baxandall, quando descrive in modo così schietto e preciso il suo lavoro di critico:
“Della critica, quindi, il libro affronta un solo aspetto: la tendenza del nostro pensiero, applicato ai quadri come ad altre cose, a inferire delle cause. […] nella possibilità di verificare posizioni molto semplici rispetto a casi complessi.”[2]
“Se vogliamo spiegare un quadro, lo spiegheremo come considerato dal punto di vista di una sua descrizione parzialmente interpretativa. La descrizione non è tanto la rappresentazione del quadro, e neppure la rappresentazione dell’esperienza della visione del quadro, quanto piuttosto una rappresentazione di quanto si è pensato dall’osservare il quadro. In altre parole, noi descriviamo una relazione tra quadro e concetti, andiamo e veniamo tra immagini e parole.”[3]
“Se l’osservatore appartiene ad una cultura diversa […] è probabile che interpreti nei termini di ‘soluzione di un problema’ quello che per l’autore è stato un modo di procedere nella norma della cultura di appartenenza. […] L’osservatore insomma impone un modello formale all’interpretazione dell’oggetto che stimola il suo interesse critico.”[4]
“Non parliamo dell’intenzione sotto forma di narrazione di ciò che realmente accadde nell’animo del pittore, ma creiamo un complesso analitico relativo ai suoi scopi e ai suoi mezzi, limitatamente a come li deduciamo dalla relazione che l’oggetto [il quadro] ebbe con circostanze identificabili; il tutto in una relazione ostensiva con il quadro.”[5]
Ancor più strumentali al nostro lavoro sono le pagine in cui Baxandall descrive e approfondisce l’analogia tra scrittura e pittura nell’opera di Leon Battista Alberti, confrontata con la retorica di Cicerone.[6]
Un’altra grande apertura è data dagli scritti di John Berger. La lettura di testi come Sul guardare o di Sacche di resistenza ci offre gli strumenti per lavorare sul soggetto tramite associazioni. Un simile dispositivo mentale ci permette di andare oltre, di lasciar affiorare comunque la condizione umana in cui si è operato, di valorizzare “la consapevolezza che l’esperienza soggettiva è un fattore storico importante.”[7] Si indaga sul guardare attraverso il tempo e lo spazio di chi opera e di chi osserva:
“Queste fotografie entrano a tal punto nel particolare da rilevarci l’intero corso di una cultura o di una storia che, come sangue, fluisce attraverso quel dettaglio. [Paul Strand] trasforma i suoi soggetti in narratori […] tale contesto ricolloca la foto nel tempo – non nel suo tempo originario, perché è impossibile – ma nel tempo narrato. Il tempo narrato diventa tempo storico quando è assunto dalla memoria sociale e dall’azione sociale. È necessario che il tempo costruito e narrato rispetti il processo della memoria che spera di stimolare.”[8]
“L’assenza di alternativa, nella sua visione della condizione umana si riflette nell’assenza di qualsiasi sviluppo tematico nell’insieme della sua opera […] non esiste niente altro.”[9]
“Una volta ho sognato di essere uno strano tipo di commerciante: un commerciante che trafficava in apparenze o sembianze. Le collezionavo e le distribuivo. Nel sogno avevo scoperto un segreto. Il segreto consisteva nell’entrare dentro alle cose che avevo davanti agli occhi (un secchio d’acqua, una mucca, una città come Toledo vista dall’alto, una quercia) e una volta all’interno aggiustare le loro apparenze esterne nel modo migliore. Nel modo migliore non voleva dire renderle più belle o più armoniose: non voleva neanche dire renderle più tipiche, in modo che una quercia potesse rappresentare tutte le querce possibili; voleva dire renderle più se stesse, in modo che la vacca o la città o il secchio diventassero oggetti unici in modo più evidente. Il segreto per entrare in un oggetto e risistemare il suo modo di apparire era semplice quanto aprire la porta di un armadio. Forse era solo questione di trovarsi al posto giusto quando la porta dell’armadio si spalancava da sola.”[10]
Il lavoro di Rosalind Krauss è ancora più sofisticato: cerca di assoggettare un’opera a un concetto altro, anche se non immediatamente collegato. Sceglie in un periodo storico, o in un altro ambito di interesse, i criteri che si rivelano poi utili alla decifrazione dell’opera.
“L’informe, dicevamo più sopra, designa qui un insieme di operazioni con cui il modernismo è preso in contropelo. […] Si può considerare l’informe come puro oggetto di una ricerca storica, ma questo approccio comporta il rischio di trasformare l’informe in una figura, di stabilizzarlo.”[11]
Con queste citazioni si vuole mettere in evidenza come, in questi casi, la critica proceda innanzitutto attraverso l’individuazione di alcuni concetti, e, successivamente, sulla riflessione circa il modo più adeguato di usarli, non come oggetti, ma come operazioni.
In architettura potremmo citare la ricerca di Bruno Reichlin sulla tettonica, dove gli esempi sono forzati alla dimostrazione della sua teoria o lo studio di Gillermo Zuaznabar su Donald Judd[12], dove il limite, cassa o frontiera, contenitore o come dir si voglia, diventa concetto per analizzare opere, più che autori, lontanissimi tra loro.
Per leggere l’edificio del Gobierno Civil di Tarragona di Alejandro de la Sota abbiamo a disposizione anche altri strumenti critici, a cominciare dalle numerose testimonianze che lo stesso Alejandro de la Sota ci ha lasciato sulla propria consapevolezza progettuale. Abbiamo infatti a disposizione i suoi scritti e le sue conferenze, ma anche gli articoli di quelli che con lui hanno lavorato: Juan Navarro Baldeweg, José Manuel López-Peláez, Pepe Llinás. De la Sota era solito accompagnare le sue lezioni con una serie di immagini di oggetti di diversa natura a cui lui associava concetti d’architettura[13].
“Fare architettura è un processo mentale, trovare una soluzione chiara per risolvere un problema posto. Ho spesso comparato il costruire una planimetria architettonica con il gioco degli scacchi ad occhi chiusi: non c’è possibilità. Se tocchi il pezzo, lo hai mosso. Noi siamo bendati, e tutti i dati che riceviamo devono essere elaborati dalla mente (che aggiunge sempre qualche cosa) mentre passiamo in rassegna tutte le possibili combinazioni che possono essere usate per trovare una soluzione corretta.”[14]
Lo stesso de la Sota parla della scelta di tutti gli elementi che possono trovarsi all’interno della mente nella fase del progetto; parla dei materiali e della loro unità: “tutti i dati rendono un’opera come inevitabile” spiega, ma poi aggiunge anche, con la metafora degli occhi bendati, come il percorso su cui si procede non possa essere razionale, logico e descrivibile nella sua interezza, come ci ricorda José Manuel López-Peláez nel suo articolo sulle caricature.[15]
In questo percorso si è cercato poi di seguire anche Pepe Llinás, che con Alejandro de la Sota ha lavorato al progetto di restauro dell’edificio del Gobierno Civil negli anni ottanta, quando dice, nell’introduzione ai testi di de la Sota, che “quello che mostrano questi scritti potrebbe esser stato l’origine dell’opera e, al contrario, che il pensiero che accompagna il progetto e l’opera può avere dato origine al testo.”[16] In altre parole, è lo stesso de la Sota a suggerire ai critici di procedere alla lettura del suo lavoro confrontando i problemi concreti del progetto con le riflessioni artistiche introdotte dagli scritti.
Se si pensa al carattere concettuale dell’arte moderna, al fatto che ogni opera richieda al suo pubblico non uno sguardo passivo, ma un’interpretazione attiva tanto del processo di elaborazione quanto del significato finale dell’opera, diventa allora possibile seguire i percorsi di ricerca che l’analisi ci suggerisce attraverso l’individuazione di alcuni concetti chiave, e in particolare quelli di astrazione o di materia.
I problemi del progetto
Il Palazzo del Gobierno Civil è un progetto di concorso vinto da de la Sota nel 1957 e successivamente realizzato nella parte nuova di Tarragona, antica città di origini romane. L’edificio si attesta su una piazza circolare di recente realizzazione, il cui disegno viene subito criticato dall’architetto. Successivamente, parlando della scelta della pietra di rivestimento, de la Sota introduce il forte legame con la città antica. Il confronto con la città si sdoppia quindi in un rifiuto del contesto reale a favore dell’antica città romana.
Anche la destinazione funzionale viene esplicitamente espressa dall’architetto come uno dei problemi del progetto. L’edificio è infatti la sede del Gobierno Civil, definiamolo pure il palazzo del Governatore, istituzione di massimo controllo sulla città, a maggior ragione nella Spagna franchista del 1957.
La sua funzione era duplice: da un lato ospitare gli uffici veri e propri del Gobierno Civil, dall’altro accogliere le residenze del governatore, del segretario e di eventuali ospiti. Per questo motivo il volume è stato spaccato in due fin dai primi studi, prima verticalmente e poi orizzontalmente. De la Sota esprime già nella relazione di progetto la lotta con l’ambiguità della destinazione d’uso.[17]
Tra gli schizzi di studio volumetrico dell’edificio si può notare il ridisegno della torre per uffici Johnson di Wright, dove la sezione si sviluppa inotrno al vuoto creato dall’arretramento dei pilastri: de la Sota studia i maestri del moderno, ma li astrae attraverso un problema tecnico, fino a fargli perdere riconoscibilità. Il tema dell’arretramento dei solai infatti si trasforma da sezione in facciata principale.
La facciata è il luogo dove si concentrano e prendono forma i problemi che la città e la funzione pongono al progetto.
Questa ci appare spesso in una fotografia in bianco e nero, quasi un’astrazione dei suoi pieni e dei suoi vuoti, della loro semplificazione in quadrati neri e della loro composizione sul piano bianco. È una facciata dove il volume cubico in pietra si appoggia sul vuoto del piano terra, scandito da quattro pilastri in ferro disposti lungo l’impercettibile arco del cerchio della piazza, una facciata dove balconi e logge sono ridotti a tagli e scavi nella pietra. La linea nera orizzontale, corrispondente alla loggia del secondo piano, sembra appoggiarsi solo sul vuoto del balcone centrale. Nella parte superiore, le logge quadrate, sfalsate, si equilibrano nel disegno del fronte, senza esprimere nulla di ciò che trova posto al suo interno.
All’ultimo piano, una casa a patio centrale, appoggiata sul tetto, si rende quasi invisibile; si tratta di una piccola villa arretrata rispetto al volume cubico che riassume l’intero edificio.
Astrazione e materia in architettura
Possiamo ipotizzare che Alejandro de la Sota sperimenti e trovi in alcuni concetti dell’arte moderna la soluzione ai problemi del progetto?
Tra i suoi scritti e le sue conferenze è facile rintracciare una linea che si muove all’interno dell’arte astratta, da Paul Klee a Josef Albers, ai lavori della Bauhaus.
“Ispirazioni. Lo dico con tutta umiltà: cerco sempre ispirazioni architettoniche molto lontano da me, molto lontano dall’architetto. Non mi piacciono i libri d’architettura. Non mi piace mai pensare che è uscito qualcosa d’importante, per me, di architettura, che non sia stato motivato da molto lontano. […] cose che mi hanno mosso ad una comprensione, ad una vibrazione che è stata usata.”[18]
Può risultare utile ricordare un aneddoto che de la Sota citava spesso:
“Ho avuto una crisi dopo la laurea. Ho avuto la fortuna di avere la forza sufficiente di non lavorare. […] la novità arrivò nel modo più semplice. Fu un libro di Marcel Breuer che si chiama Sun and Shadow. Quel libro parlava di come proteggere le finestre […] gli uscivano sculture senza essere scultore.”[19]
De la Sota riconosce a Breuer il merito di aver espresso chiaramente nel testo, che accompagna le sue opere, quell’idea dell’unità dei contrasti che già il titolo annunciava. Ma c’è anche un filo diretto che lega Breuer, e il suo Sun and Shadow al fronte del palazzo di Tarragona e questo filo passa attraverso Semper e la sua idea della facciata come rivestimento, opera di arte tessile[20].
De la Sota era anche solito citare Josef Albers. Ci sono diversi temi del lavoro di Albers che rintracciamo nella sperimentazione progettuale di de la Sota: l’arte tessile appunto, ma anche il lavoro sui materiali e il tema del quadrato, sottoposto in diversi modi al concetto di forma positiva e di forma negativa.
Uno dei massimi insegnamenti di Albers era proprio il riconoscimento e il conseguente uso corretto dei materiali: “La forma dipende dal materiale con cui lavoriamo.”[21]
Il corrimano della scala principale del palazzo del Governatore, piegato per conferire maggior resistenza del materiale, sembra realizzato in un’aula dei laboratori della Bauhaus, dove Albers teneva il corso propedeutico.
“Ho visto con chiarezza come loro [Gropius e Breuer] usavano i nuovi materiali e come arrivarono ad un’architettura che io nominai FISICA, fisica intesa nel senso dell’unione di elementi differenti allo scopo di ottenere un terzo elemento che, senza perdere nessuna delle proprietà dei suoi elementi costituenti, contenga anche qualcosa di più, qualcosa di nuovo.”[22]
Molti critici hanno sottolineato l’importanza dell’uso dei materiali nell’architettura di de la Sota, peraltro chiaro nelle sue stesse parole: “Mi immagino quanto ci farebbe bene stare seduti otto, dieci giorni sopra un blocco di granito che stiamo per usare per quell’opera; starcene quindici giorni contemplando il cemento dentro la betoniera, a vedere i chilometri di laminati di profili […], piccoli esercizi spirituali.”[23]
Non a caso parla del blocco di granito: de la Sota è originario della Gallizia, dove tutto è costruito in granito. Il suo modo di lavorare non procede per questioni squisitamente compositive, ma per materiali.
Nella scelta dei materiali per il palazzo del Governatore emerge la volontà di rapportarsi all’antica città romana di Tarragona proprio usando la materialità della pietra. “La pietra è, con il legno, l’unico materiale che la natura ci fornisce prefabbricato, tutto il resto è ‘chimico’…”[24]
La città romana con cui de la Sota sceglie di confrontarsi è quella che permane nell’immagine della città. I riferimenti non sono tanto i bei monumenti, come ad esempio l’arena, quanto piuttosto le grandi costruzioni in pietra, l’acquedotto, la muraglia e il pretorio. Il suo rapporto con la città romana è sovrastorico, del tutto materiale. La pietra, la materia dell’antica città romana, viene utilizzata per rafforzare le bucature astratte della facciata del palazzo. Una facciata tridimensionale che si contrappone ai fronti laterali, dove invece vetri e lastre di marmo hanno entrambi uno spessore esiguo che rende esplicita la loro funzione di rivestimento: materia scavata e tridimensionale, a discapito della rappresentatività del piano/facciata tipica del palazzo.
Se nella facciata principale Alejandro de la Sota mette in dubbio il disegno bidimensionale della facciata classica, sui fronti laterali invece inizia un altro tipo di processo di astrazione che avrà grande sviluppo nella sua opera successiva. Possiamo quasi pensare che il rivestimento in marmo, così leggero, riesca solo in parte a coprire un tema tanto caro all’architetto: la scatola di vetro, qua ancora nascosta, si esprimerà poi in alcuni progetti importanti, come ad esempio quello per l’Aviaco.
Juan Navarro Baldeweg, pittore e architetto che ha disegnato lo scudo in bronzo[25] usato da de la Sota per riequilibrare la composizione del fronte, ha scritto un articolo puntuale, come solo un artista che opera sa fare, sull’astrazione in Alejandro de la Sota[26]; in esso spiega la differenza tra l’astrattismo geometrico di un Terragni e quello immediato, materiale, riscontrabile invece nel Gobierno Civil, che Baldeweg riconduce a Malevic[27].
Il progetto per il palazzo del Governatore viene presentato nel 1957, anno in cui lo scultore basco Jorge Oteiza decide di sospendere la sua opera di scultore e di interrompere il suo proposito sperimentale.
Alejandro de la Sota si era già interessato a Oteiza in un articolo sul progetto di Saenz de Oiza per una cappella sul cammino di Santiago:
“La pietra in forma infantile, e per questo chiamano Oteiza, quasi infantile nella sua persona, per la sua perfezione.
[…] è necessario pensare con i metalli, anche quando usiamo le pietre; le useremo in modo molto più puro, più nobile; contrasto tra massiccio, pesantezza e fragilità, leggerezza.
La riuscita impressionante di questo progetto, per me, è il modo profondo in cui sono trattati idea e materiali […]. La pietra, usata come bambini, il metallo, come ingegneri puri; il tutto unito, lo ripeto, da degli artisti.”[28]
Il proposito sperimentale dello scultore Oteiza era tutto incentrato sullo svuotamento della materia. Dis-occupazione del cubo, del cilindro, della sfera.
Il suo continuo riferimento all’arte astratta delle Avanguardie avviene tramite Malevic, con la creazione di una figura spaziale vuota, infinita, dentro una cornice. Tutte le sculture di Oteiza sullo svuotamento del cubo rappresentano la definizione dei confini di un possibile spazio, di un vuoto predisposto ad accogliere[29], così come gli infiniti pezzi del Laboratorio de Tizas esprimono il tentativo di rappresentare volumetricamente questa spazialità.
Oteiza è anche scrittore, di poesie, di arte e di saggistica in lingua basca. Nel suo libro teorico forse più famoso, Quousque Tandem…!, ci racconta della sua infanzia:
“Molto piccolo, a Orio, mio nonno mi portava a passeggiare sulla spiaggia. Io ero attratto da dei grandi buchi che si trovavano nella parte interna. Mi nascondevo lì dentro, sdraiato, guardando il grande spazio del cielo. […] Permettetemi un altro ricordo personale dell’infanzia, della cava dove giocavo con mio cugino. L’indimenticabile soddisfazione, che apparve nella cava, di perforare la pietra: scoprire l’altro estremo libero del foro. La mia attività consisteva nel fare buchi in tutte le pietre che potevo.
Solo ora posso associare e spiegarmi tutti questi ricordi. Mettere insieme la mia contemplazione del cielo lontano, dal fondo del mio buco nella sabbia della spiaggia, con il fabbricare il piccolo vuoto, spiritualmente respirabile e liberatore, del foro, a portata di mano, della pietra. Se come scultore non avessi concluso la mia attività sperimentale in un solo e semplice spazio vuoto, avrei dimenticato questi ricordi.”[30]
De la Sota guarda i grandi scavi nella materia della città romana dallo stesso punto di vista. De la Sota sembra interporre tra lui e la città lo svuotare di Oteiza. Prende a prestito da entrambi la capacità di astrarre le questioni, di lavorare per sottrazioni, come la proposta per un’estetica negativa che Oteiza aveva teorizzato: “una serie progressiva di eliminazioni fenomenologiche, riducendo tra parentesi tutto quello che dobbiamo eliminare per isolare l’oggetto vero.”[31] Ma l’analisi dell’opera scultorea di Oteiza ci fornisce altre indicazioni preziose: in occasione di una esposizione a San Paolo, Oteiza produce dei modelli in vetro dove sperimenta la luce filtrata attraverso la sovrapposizione di più piani trasparenti, le pareti-luce. Anche nel caso della realizzazione del palazzo, la facciata diventa tridimensionale e le logge si trasformano in scatole di luce realizzate in vetro, scavate all’interno dell’appartamento.[32]
Lo stesso de la Sota, ricordava José Manuel López-Peláez, discutendo del suo modo di progettare era solito parlare del togliere il peso.
De la Sota era solito citare Klee a dimostrazione dei suoi principi compositivi. In particolare, l’immagine più usata era il quadro Case di vetro[33], così commentato: “Un’ispirazione favolosa, la cosa che non pesa, che non si sa come si allaccia, ma ha un suo ordine; è così. La vibrazione è permanente quando uno è impegnato nel fare qualcosa.”[34]
Ripartiamo quindi dal confronto tra un quadro di Klee e la facciata del Palazzo[35]. L’analogia formale è immediata, ma possiamo individuare i principi che si ritrovano nel disegno del fronte del palazzo del Governatore anche tra le pagine scritte della Teoria della Forma e della Figurazione di Klee.
Nel secondo capitolo degli Schizzi Pedagogici, dopo aver definito il senso delle dimensioni, Klee affronta il tema dell’equilibrio, arrivando a esemplificarlo con una teoria di pietre sovrapposte a costituire una torre.
Analogamente, mettendo in equilibrio i due balconi, è come se de la Sota esprimesse il suo dubbio sul progetto e sulla sua destinazione funzionale, mettendo in mostra la loro crisi: introduce, sul fronte principale, prima l’equilibrio e il peso delle forme, ma poi il loro disassamento.
De la Sota nasconde le due diverse funzioni, ma anche l’impegnativa rappresentatività del palazzo, e nello stesso tempo dichiara la sua adesione all’architettura moderna, attraverso l’astrazione delle forme. I principi dell’arte moderna sono portati in facciata: linea e chiaroscuro sono infatti i mezzi plastici primordiali.[36]
Ma un ulteriore concetto attraversa l’esperienza dell’arte moderna e le pagine del trattato di Klee: il movimento, che nella facciata del palazzo si realizza nel disequilibrio delle logge.
“Qualsiasi cosa in divenire riposa sul movimento. Nel Laoconte, Lessing dà grande rilievo alla differenza tra arte del tempo e arte dello spazio. Ma anche lo spazio è una nozione temporale. Il fattore tempo interviene nel momento in cui un punto entra in movimento e diventa linea. Allo stesso modo, una linea muovendosi genererà una superficie; e così ancora per il movimento che conduce da superfici a spazi.”[37]
Il vuoto come unità di contrasti
Luce, equilibrio, gravità sono i temi fondamentali della composizione scultorea, pittorica e architettonica di Juan Navarro Baldeweg. Lasciamoci quindi guidare ancora dalle sue parole per sviluppare un ultimo aspetto del progetto del palazzo del Governatore. Navarro Baldeweg, nella descrizione di un altro progetto di de la Sota per Alcudia, riesce a individuare una questione fondamentale, quella che lega il vuoto all’unità dei contrasti.
“I disegni mostrano una capacità artistica invidiabile di assemblare cose distanti in un unico impulso. Tutto sembra restar definito tra estremi, coprendo distanze in un’oscillazione di osservazioni […].
Questi disegni mostrano la schiva magia artistica dell’opera di Alejandro de la Sota. Tutto è trasparente e esplicito e, nonostante tutto, qui l’architettura si ritira, si occulta, si fa quasi opaca… Questa enigmatica espropriazione, questa paradossale trasparente opacità (…) si rinuncia alla ossessione della materialità per quasi non essere.
[…] Questa manifestazione della vita concreta è ben lungi dall’esser banale. I disegni emozionano per la capacità di fondere il necessario ed il contingente, il vicino e il lontano, quello che è immobile e quello che si muove a differenti scale, situazioni e ritmi.”[38]
Quell’unità di contrasti, che abbiamo visto affiorare qua e là come tema nel corso di questa analisi, è un riferimento esplicito a Breuer e una costante nella costruzione dell’edificio, dove la luce interna si contrappone ai buchi neri, dove le masse buie dell’esterno si trasformano in scatole di luce.
Possiamo individuare con precisione almeno tre soluzioni architettoniche di realizzazione di questo vuoto, oltre ai balconi già descritti. Intanto la villa a patio centrale che de la Sota realizza sulla copertura dell’edificio, con la sua planimetria introversa; il vuoto rappresentativo del secondo piano dove il soffitto si trasforma in una macchina di luce e tutti gli elementi che lo definiscono sembrano fluttuarvi, predisposti alla realizzazione di questo spazio.[39] Infine il vuoto dello spazio pubblico al piano terra, la vera piazza coperta che de la Sota contrappone alla banalità della piazza disegnata dalla speculazione, dove vengono collocati solo i pesanti elementi in marmo, il bancone del portiere e le panchine del nuovo spazio pubblico, che appaiono adagiati a terra con una modalità molto vicina ai lavori contemporanei dell’arte minimalista.
Non è più il momento di aprire altri confronti, ma di chiudere ricordando la consuetudine dell’architettura spagnola a guardare all’architettura nordica, E che cosa non è tutta l’opera successiva di de la Sota se non la verifica strutturale, tecnica e spaziale di questo vuoto?
[1] Josep Quetglas, Note di lettura al corso di Dottorato, dattiloscritto, Barcellona 2002, p. 3. Trad.d.A.
[2] Micheal Baxandall, Forme dell’intenzione, Torino 2000, p. 7.
[3] Ibidem, p. 24.
[4] Ibidem, p. 103.
[5] Ibidem, p. 160.
[6] Micheal Baxandall, Giotto e gli umanisti, Milano 1994, pp. 172-174.
[7] John Berger, Un articolo di fede, in Sul guardare, Milano 2003, p. 140.
[8] John Berger, Paul Strand, in Sul… cit, pp. 48-68.
[9] John Berger, Francis Bacon e Walt Disney, in Sul… cit, p. 131.
[10] John Berger, Passi verso una piccola teoria del visibile, in Sacche di resistenza, Milano 2003, p. 15.
[11] Yve-Alain Bois, Rosalind Krauss, L’informe. Istruzioni per l’uso, Milano 2002, p. 13.
[12] Gillermo Zuaznabar, S/T. Donald Judd; pabellones de artilleria, Marfa, Tx. 1979-94, Tesi di dottorato svolta presso la Escuela de Arquitectura de Barcelona, direttore Josep Quetglas, Barcellona 2003.
[13] “1. La lampadina. Il massimo rendimento con il minor materiale, con il meno possibile. Il vuoto realizzato con una pellicola finissima di vetro rivoluzionò il nostro mondo. 2. Paul Klee. Le trasparenze. Suggerire l’immateriale. Definire i limiti di un territorio. Delimitare. 3. Balenciaga. Il mondo della moda, eleganza, stravaganza. Si dice: “Il dettato della moda” e “la volontà di stile”. 4. Mirò. Il colore, il vuoto, senza trucchi. La vibrazione interiore. 5. Gli aerei. La tecnologia più perfetta. Il più leggero è anche il più forte e resistente. Cos’è l’architettura di fronte a questo? 6. Il fascio di rotaie. Come molte cose nella vita per un istante tutto appare confuso, come una ragnatela di rotaie senza senso apparente. Ciononostante, i binari seguono le loro leggi: a coppie, con un raggio di curvatura preciso, combinato dall’incrocio di dimensioni e tangenze conosciute, con una precisa geometria, che alla fine manifesta il suo ordine nel mare di rotaie di una grande estensione. L’ordine essenziale. 7. Il canale. Bisogna osservare come l’ingegneria risolve i problemi. Se bisogna realizzare un’opera, si progetta la macchina che produce l’opera. Questo è il senso ultimo della prefabbricazione. 8. Cooperativa. Anche la luce nella Cooperativa de Haag, Buijs, e Lürsen. 9. Albers. L’ordine figurativo, l’essenza che sorge dal piano (pianta).” Tratto da Ismael Guarner, Intorno ad alcune diapositive delle conferenze di Alejandro de la Sota, in «Bau», n. 013. Trad.d.A.
[14] Alejandro de la Sota, Memorie e esperienze, in Alejandro de la Sota, Madrid 1989, p. 17. Trad.d.A.
[15] “Nell’archivio di don Alejandro sono conservate centinaia di queste caricature, alcune sono state pubblicate ed hanno raggiunto una certa popolarità. Non c’è dubbio che manifestino la facilità d’uso dei tratti grafici, non solo per mostrare le idee, quanto piuttosto come un vero strumento di dialogo tra attività mentale e la sua concretezza fisica. […] non si tratta tanto di deformare la realtà, quanto di interrogarla con intelligenza e guardarla da un altro punto di vista, che possa risultare sorprendente.” José Manuel Lopez-Pelaez, Caricaturas, in «Circo», n. 26, 1995. Trad.d.A.
[16] Josep Llinás, Introduzione, in Alejandro de la Sota. Escritos, conversaciones, conferencias, a cura di Moisés Puente, Barcelona 2002, p. 11. Trad.d.A.
[17] “Si è lottato con la grande difficoltà di comporre un blocco armonico, gerarchico e nobile, poiché entravano nella composizione, obbligatoriamente, uffici e sale di rappresentanza, insieme a case d’abitazione, tutto nelle stesse facciate. Si pensa di aver conseguito un insieme armonico grazie al modo di trattare le bucature, le luci, le terrazze delle abitazioni che, senza nulla togliere dell’efficacia in quanto a luce e aria, risolve plasticamente il problema, facendo perdere alle residenze quell’aria da condominio che hanno di solito. Le logge della facciata principale, che corrispondono agli appartamenti, si sono mosse in modo tale da rompere quell’asse definito, che altrimenti avrebbero segnato con forza; questa rottura è giocata in modo tale che, introducendo altri elementi come scudo, bandiera, panca, etc. nella composizione, questa non si perda e che quest’equilibrio della facciata possa essere tale, ma che si possa anche dire dinamico o potenziale, non statico, con minore intenzione e emozione; si pensa che questo abbia un certo valore nella composizione.
Anche nelle facciate laterali si è giocato con una certa novità nelle bucature, trattandoli con libertà in quanto a assi e altezze, rompendo un’ulteriore lancia contro la schiavitù o tirannia delle finestre nella composizione degli edifici. Non si pensa di aver rovinato o perso la nobiltà dell’edificio, anzi di averla aumentata, ovviamente in quanto a sobrietà.” in «R.N.A.», n. 185, maggio 1957.
[18] Alejandro de la Sota, Conferenza a Barcellona, gennaio 1980, in Alejandro de la Sota… cit, p. 178. Trad.d.A.
[19] Alejandro de la Sota, Conferenza a Barcellona, gennaio 1980, in Alejandro de la Sota… cit, p. 171. Trad.d.A.
[20] “Breuer usa i materiali come la pietra o il cipresso, ma li lavora con principi senza stile, che comprende e approfondisce. Senza di questo i materiali sarebbero privi di significato, apparterrebbero alla natura e non alla cultura. […] Nelle case di Breuer, la muratura in pietra solo in poche occasioni è caricata di peso, molte volte riveste un muro di cemento, altre semplicemente chiude; in ogni caso, questa tecnica è scelta in primo luogo per i suoi valori astratti, per la sua capacità di contrasto e relazione, come equivalente visivo dell’ombra. Un artigiano come Breuer sa alla perfezione che i termini duttilità e malleabilità non descrivono qualità materiali delle cose, bensì qualità formali delle materie: duttile è un materiale che può essere ridotto a linee, malleabile quello che può essere convertito in lamine; questo potrebbe essere il punto di contatto tra artigiani e artisti nella Bauhaus. Linee e piani sono elementi della costruzione assiomatica del mondo, comuni all’arte tessile, alla definizione semperiana della tettonica e alla ricerca delle ragioni formali della natura nell’opera di Klee e Kandinsky.” Tratto da Antonio Armesto, Quince casas americanas de Marcel Breuer (1938-1965). La refundación del universo doméstico como propósito experimental, in «2G. Marcel Breuer», n. 17, giugno 2001, Trad.d.A.
[21] “Josef Albers”, in Magdalena Droste, Bauhaus 1919-1933, Colonia 1998, p. 141.
[22] Alejandro de la Sota, Memorie e esperienze, in Alejandro de la Sota… cit, p. 16. Trad.d.A. Paul Klee l’aveva espresso con queste parole: “Gli elementi devono produrre le forme, ma senza sacrificarvi la loro integrità. Mantenendo la loro identità.” tratto da Paul Klee, Teorie … cit, p. 36.
[23] Alejandro de la Sota, Alumnos de Arquitectura, in «Arquitectura», n. 9, settembre1959, p. 3. Trad.d.A.
[24] Ibidem, p. 80. Trad.d.A.
[25] Ho avuto occasione di intervistare Juan Navarro Baldeweg sul periodo di apprendistato presso lo studio di de la Sota, avvenuto nel periodo di costruzione del Palazzo; Navarro Baldeweg ricordava che per de la Sota era molto importante che quel bronzo fosse come una vecchia moneta, dove i tratti non sono quasi più percepibili, se non al tatto.
[26] “Una norma interna caratterizza fuor di misura ogni progetto. Vi è un procedere di ragionamento secondo un’esigente progressione riflessiva che si da quasi come manifesto già nel progetto per il Governo Civil di Tarragona. La volontà di astrazione porta le cose fino ad un punto in cui cessano di esserlo, trasformate in principio, convertite, attraverso un processo alchemico in scoglio puro. Ed è, certamente, un residuo già ripulito di ogni scoria, quello che possiamo mettere in parallelo all’anima dell’alzato del Gobierno Civil con la piazza nella quale è collocato. L’edificio potrebbe rimandarci a Terragni, però subito ci allontaniamo da questo grande ricordo.
Notare la differenza nell’uso dell’astrazione è, a volte, avvicinarsi alla comprensione della sua singolarità. Qua siamo lontani da una complessità astratta nata da una laboriosa genesi plastica. La semplicità dell’astrazione che presenta il Gobierno Civil è diretta, corrisponde ad un’immagine formulata in un sol colpo, è un’apparizione veloce più vicina a Malevič che a Mondrian. Incontreremo difficilmente nell’architettura contemporanea un oggetto tanto iconicamente precisato, tanto ipnotico. E’ una figura di presenza come tre note di timpano suscitate dall’incontro spontaneo con il nostro guardare.” tratto da Juan Navarro Baldeweg, Una laboriosa abstracción, in «Arquitectura Viva», n. 3, novembre 1988, p. 29-31.
[27] “Il sentimento intuitivo ha trovato una nuova bellezza negli oggetti – l’energia delle dissonanze che risulta dall’incontro di due forme.” Kazimir Malevic, De Cezanne au suprematisme, Losanna 1974, p. 41.
[28] Alejandro de la Sota, Una capilla en el camino de Santiago, in «R.N.A.», n. 161, maggio 1955. Trad.d.A.
[29] Carlos Martí Arís, Silenzi eloquenti, a cura di Simona Pierini, Milano 2002, p. 105.
[30] Jorge Oteiza, Quousque tandem…! Ensayo de interpretacion estetica del alma vasca, Pamplona 1963, n. 75 (Oteiza non accetta la numerazione delle pagine). Trad.d.A.
[31] Ibidem, n. 63
[32] “Anche la luce, l’idea di illuminare in profondità, in sezione, è materia trattata da Jacobsen in modo molto affascinante.” tratto da Intervista sull’opera di Arne Jacobsen, in Alejandro de la Sota… cit, p. 121. Trad.d.A.
[33] De la Sota ha usato questa stessa pittura anche per spiegare il suo progetto per il nuovo palazzo in vetro dell’Aviaco.
[34] Alejandro de la Sota, Conferenza a Barcellona, gennaio 1980, in Alejandro de la Sota… cit, p. 178. Trad.d.A.
[35] Juan Antonio Cortés, Lecciones de equilibrio, in «Anales de Arquitectura», n. 6, 1998, p. 180-183.
Recentemente, successivamente alla stesura di questo mio testo, Cortés ha pubblicato un approfondito volume monografico sull’edificio; vedi Juan Antonio Cortés, Gobierno Civil de Tarragona, 1957-1964, Almeria 2006.
[36] “ Il primo di questi mezzi è la linea, questione di misura solamente. […] Di altra natura sono le tonalità o valori del chiaro scuro: le numerose gradazioni tra bianco e nero. Questo secondo elemento concerne questioni di peso. […] il disegno è l’arte d’eliminare.” tratto da Paul Klee, Teorie de l’art moderne, Berna 1956, pp. 19-21. Trad.d.A.
[37] Paul Klee, Teorie … cit, p. 37. Trad.d.A.
[38] Juan Navarro Baldeweg, Construir y habitar, in «AV monografías», n° 68, novembre-dicembre 1997, p. 30. Trad.d.A.
[39] Pepe Llinás, parlando degli interni del Palazzo, ci fa notare che i tavolati non appoggiano a terra: “Le divisioni non sono soggette a nessun sistema formale. Ballano sulla superficie della pianta: non c’è zoccolo e, quindi, la base della parete non è stretta dalle rotaie che si sollevano dal pavimento. Le porte sono come pareti. Le porte, un volume (non un piano) dello stesso spessore delle pareti.” in Josep Llinás, El Gobierno Civil de Tarragona, in Saques de esquina, Valencia 2002, p. 86. Trad.d.A.
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