IMMAGINI PER PAROLE
Intervento al seminario su Ernesto Nathan Rogers e BBPR del 03.12.2009
Arcaico o moderno?
La prima è una fotografia della corte del Camposanto di Pisa, che accompagna il frontespizio. Delle altre cinquantuno immagini che vengono pubblicate a pagina intera in Esperienza dell’architettura, altre tre rappresentano lo stesso soggetto, il Campo dei Miracoli di Pisa; con i quattro scatti dell’Acropoli[1] compongono il nucleo centrale di un gruppo più ampio, composto dalle sedici immagini dedicate alla tradizione colta, i monumenti dell’arcaico, oltre a Torcello o alla Certosa di Pavia. Possiamo infatti suddividere le numerose immagini del libro in pochi temi: tradizione colta, tradizione spontanea, altre culture, vita personale e Moderno, per constatare subito che sono sedici anche le raffigurazioni della tradizione spontanea[2], dettagli di fragili costruzioni di legno, decori artigianali, intonaci graffiti in modo infantile, piccole case immerse nei prati scozzesi, una scaletta e un polpaccio scolpiti dal lavoro in campagna. Ad intervallare gli scritti vi sono poi nove immagini dedicate all’Oriente e alle terre lontane, cinque riferimenti personali, ivi compresa la linea volitiva dell’amico Steinberg, e solo quattro figure sono dedicate al moderno, due foto dall’alto di New York e due opere, di Frank Lloyd Wright e di Ludwig Mies van der Rohe[3]. Un’ultima immagine chiude il racconto fotografico di una vita: la Torre Velasca nell’atmosfera di Milano[4]. Tra queste immagini molte inquadrature di dettaglio, particolari scelti e qualche viso: l’autoritratto di Giuseppe Pagano, un bimbo giapponese, gli occhi e la bocca di un Buddha cambogiano che affiora tra liane scolpite nella pietra. Per molti anni il titolo ipotizzato da Rogers per questo libro era stato La conquista della misura umana[5].
Arcaico o Moderno? Il più importante divulgatore del dopoguerra del Movimento Moderno in Italia, l’amico dei maestri del CIAM, l’intellettuale che ci ha insegnato ad apprezzare la Nuova Architettura, sceglie di illustrare il volume che raccoglie il corpus dei suoi scritti più importanti con queste immagini così particolari, scatti di luoghi senza autore e senza tempo[6], inquadrature amate e usate, che lo hanno accompagnato attraverso le esperienze di «Stile», «Domus», e «Casabella Continuità»[7]. L’osservatorio astronomico più bello realizzato da Jai Singh si mostra nella scala universale della sua chiarezza geometrico formale, senza bisogno di altri commenti. L’iconologia del moderno si completa invece nel secondo livello, quello più esplicito, delle pagine verso, composte da più immagini, didascalie e testi esplicativi, dove ritroviamo le scelte precise compiute da Rogers sul Moderno: i grandi, ma anche, soprattutto, i precursori, i primordiali.
Torniamo ancora tra le immagini a tutta pagina dell’Esperienza e riscontriamo che le illustrazioni sopra descritte non sono affiancate da didascalie e le legende compaiono nella pagina successiva, si direbbero nascoste; è come se Rogers volesse darci il tempo di stabilire con l’oggetto rappresentato una relazione immediata, pura, non filtrata da condizionamenti culturali[8].
Immagini per le parole
Muovendosi tra la vasta produzione editoriale di Rogers, si osserva come in ogni testo l’uso delle illustrazioni è costruito a favore di un discorso più ampio, una sorta di repertorio subliminale che offre diversi gradi di lettura, a partire da un primo significato esplicito, attraverso l’allusivo, fino a svelare la trama delle relazioni che si stabiliscono tra più immagini.
La libertà interpretativa di una presentazione forte solo della regola del buon vicinato[9] allude al processo creativo progettuale che non può essere detto. Immagini per parole[10], appunto, per svelare il discorso segreto, il lavoro parallelo condotto attraverso l’iconologia.
Le opere scritte o dirette, come le riviste, da Rogers sono composte da materiali eterogenei, nati soprattutto da occasioni specifiche. Anche il testo più importante, Esperienza dell’architettura, è una raccolta di saggi; come ha ben sottolineato Francesco Tentori[11], non è nelle corde di Rogers l’idea di scrivere un testo teorico a tutto tondo, un trattato. È piuttosto più consona al suo carattere l’aspirazione di trasmettere documenti per la formazione di un pensiero: fotografie, architetture, disegni, materiali scelti dal raffinato gusto dell’autore, che nel loro insieme tracciano una precisa idea d’architettura, pronti per essere offerti e reinterpretati, ad uso del lettore[12].
Nella rilettura comparata dell’apparato iconografico di appunti, libri e riviste, si rendono evidenti i molteplici modi di Rogers di usare le immagini: possono essere le carte stampate in bicromia dei sommari di «Casabella Continuità», textures grafiche che si trasformano in gentili educatori del gusto, ma possono anche essere immagini simbolo, usate negli anni ad accompagnare testi diversi, come accade per la scultura di Costantin Brancusi, Le commencement du monde.
Il loro montaggio vuole suggerire e non imporre: relazioni e significati[13] che il soggetto saprà cogliere, come ha ben descritto Salvatore Veca, allievo di Paci, quando conferma questa doppia marcia rogersiana tra personale, soggettivo e razionale, oggettivo[14]. Se la parola scritta, nella sua univocità, obbliga a dirigersi verso il pensiero oggettivo, la libertà delle immagini compensa l’aspetto soggettivo[15].
E così eleganti fotografie in bianco e nero possono urlare la loro sofferenza e la loro appartenenza a un mondo che cambia, con l’obbligo di viverlo che l’intelligenza impone, ma con una esplicita voglia di altri tempi. L’intima consapevolezza di essere un uomo del suo tempo lo obbliga a parlare del movimento moderno, ma il suo gusto per la rivoluzione delle forme lo riporta alle sue vere passioni[16].
Occhi che vedono
Gli occhi del giovane Ernesto nel 1927, anno in cui si iscrive al Politecnico di Milano, sono costretti a confrontarsi ogni giorno, sotto casa, nella via Serbelloni in cui allora viveva, con il cantiere di una delle più incredibili case di Milano, quella finita di costruire proprio in quell’anno da Aldo Andreani nel complesso di via Mozart: un edificio anomalo, in cui la forza della materia dell’architettura, qui espressa dal massiccio bugnato del rivestimento in marmo, diventa, nel suo lacerarsi e smontarsi, una sorta di testimonianza ad alta voce della sofferenza del corpo edilizio, una decostruzione ante-litteram della forma classica, che nella parte alta dell’edificio si presenta ormai nuda, quasi a dimostrare la liberazione dal codice del linguaggio compiuta dal moderno; questa è l’immagine che il giovane Rogers ha negli occhi nel momento in cui si trova sui banchi di scuola a studiare il nuovo razionalismo[17] e decide di iscriversi alla facoltà di architettura. Ed è proprio questa una delle prime immagini che rappresenta un tema che vedremo essere tanto caro a Rogers: questa architettura descrive infatti, nella sua fisicità concreta, il tema delle forme non finite, delle forme in transizione, delle nuove forme del moderno che lottano con forza contro la bellezza antica per trovare la loro espressività. Il giovane triestino, maestro nel dopoguerra del manierismo del moderno, è maturato confrontandosi con uno dei migliori esempi in cui l’ambiguità del fascino del linguaggio antico si scontra con l’obbligo del suo superamento.
Ancora studente Rogers si trova a stendere una propria tesina sull’architettura: è interessante notare che sceglie di accompagnare la parte scritta con un racconto fotografico, dove raccoglie pochi e scarni commenti a penna su pagine in cui due o più fotografie venivano associate tra loro. Il valore simbolico che viene attribuito alle illustrazioni si dichiara in uno dei primi fogli, laddove troviamo un riquadro bianco, in cui l’immagine deve ancora essere reperita, e la cui didascalia recita: questa locomotiva ci fa sorridere; così commenta il giovane studente, mostrandoci come l’immagine – una qualsiasi locomotiva, può anche non esserci, in fondo – serve a spiegare la felice intuizione, quasi inconsapevole, della fondamentale importanza dello stretto rapporto della tecnica con il suo tempo, del suo destino fugace, in contrapposizione alla continuità della costruzione nella storia.
Nei primi articoli di Rogers su «Quadrante» fanno capolino alcune illustrazioni che formeranno negli anni a venire una costellazione di riferimenti, come il frammento di un antico soffitto ligneo, ma forse è nel fascicolo Stile che il controllo delle immagini, e delle loro relazioni, è ormai maturo. La figura umana, inizialmente arcaica, diviene moltitudine che abita lo spazio dell’architettura pubblica, mostrandosi come tema dominante. Tra l’eleganza della sovrapposizione delle immagini stampate su carta da lucido, la cui sommatoria ottiene una nuova sintesi iconografica, compare lo spaccato assonometrico del Colosseo, una delle figure che lo accompagnerà fino al volume Gli elementi del fenomeno architettonico del 1961. L’uomo, misura e proporzione, la materia costruttiva dell’architettura e il rapporto con la natura trovano la loro rappresentazione in Stile[18], un fascicolo praticamente senza testo, dove le immagini sono protagoniste.
Dopo l’Anonimo
Nel momento in cui Rogers, alla fine della guerra, assume la direzione della rivista «Domus» fondata da Gio Ponti, l’entusiasmo e la verve del giovane architetto sono stati spazzati via dalla vita vissuta. Di nuovo la scelta delle immagini ci racconta la personalità del nuovo direttore, il suo impegno, la consapevolezza e nello stesso tempo la concretezza di imbastire un discorso fatto di questioni, di temi raccontati tramite un’immagine: la “scalcagnata” mongolfiera che mostra la fragilità del progresso della tecnica, ma anche il vaso arcaico e le due righe, per introdurre il tema del decoro. Rogers scrive: «cosa sono quelle due righe? Diventeranno intrichi incomplessi, volute, rigonfi, foglie, draghi, mostri […] sì da trasformare l’accidentale in sostanziale». Questo ridicolo piccolo vaso persiano di cinquemila anni fa, usato per citare ornamento e delitto di Adolf Loos, fa coppia con l’uovo di Costantin Brancusi, con il prima della forma.
Cesare Macchi Cassia[19] ha definito la passione di Rogers per le forme del primo Novecento, per il movimento della linea del Liberty e dell’Art Nouveau o per le incertezze del protorazionalismo, come l’attenzione a un momento preciso, a quando c’è la rivoluzione delle forme, mettendo in evidenza la libertà e le potenzialità di apprendere da figure ancora indecise, in formazione, non ancora ghiacciate in splendide icone inutilizzabili per pensare il nuovo, l’altro. Possiamo parlare di forme e formazione perché lo stesso Rogers è interessato alla didattica dell’atto creativo, nel suo aspetto metodologico trasmesso dalle grandi scuole europee: sui suoi pochi numeri di «Domus. La casa dell’uomo», troviamo Gropius e Max Bill, come rappresentanti del Bauhaus e della Scuola di Ulm e di una pedagogia delle arti plastiche, dove si parla di metodo in opposizione alla forma[20], ma senza rinunciare alla bellezza della continuità formale delle sculture di Bill, le cui illustrazioni accompagnano il testo.
I primi anni di «Casabella Continuità»
Rogers dirige «Casabella» dal 1953 al 1964. Undici anni e una importante sperimentazione sulla composizione del materiale illustrativo: si passa da una copertina bianca a una copertina di denuncia. Mentre si leggevano i contenuti della rivista, che spaziavano dagli argomenti teorici della disciplina fino alle sezioni di dettaglio degli ultimi edifici realizzati in città, un commento decorativo ci accompagnava silenziosamente.
I primi ventiquattro numeri non hanno nessuna immagine in copertina, unica variazione il colore della nuova coppia di parole, nelle possibili variazioni dell’incastro di Casabella con Continuità[21]. La carica anticipatrice di contenuti era dunque assunta dal frontespizio così che la carta su cui veniva stampato il sommario portava impressa un’immagine, spesso astratta e ridotta a forte segno grafico, frammento irriconoscibile di un riferimento amato, un dettaglio di Sullivan o un decoro tradizionale norvegese, poco importa. Altri tipi di carta componevano il fascicolo: la carta patinata degli articoli in bianco e nero, la povertà della carta colorata di recensioni e rubriche, il prezioso cartoncino a colori, omaggio asportabile, staccabile, per portare personaggi amati, quali Perret o Antonelli, ad animare gli studi degli architetti.
Sarebbe troppo lungo riportare i tanti racconti che le immagini di «Casabella» ci sussurrano, e forse lo stesso Rogers non accetterebbe la riduzione della loro messa in mostra, mi permetto quindi di soffermarmi solo sugli aspetti più evidenti.
È noto che «Casabella» era il luogo dove venivano pubblicati i maestri del moderno, la loro declinazione nella cultura nobile della professione italiana, così come l’accorata documentazione di tradizioni e culture in estinzione: Rogers, soprattutto nei primi anni, sceglie il suo moderno, e sceglie di raccontarcelo con un particolare punto di vista.
Le immagini mostrano edifici inseriti nello scorcio del contesto così come zoomate sulle partiture di facciata dove l’intero dell’architettura non è più leggibile. Ancora il dettaglio costruttivo, il particolare e nello stesso tempo l’universale, il contesto: per comprendere i raffinati spessori di Perret o di Sullivan, per farci intuire il fascino dell’informe di Gaudì, ma anche per comunicare la realtà costruttiva della consuetudine architettonica di un muro antico, lo strumento è il particolare. E il pensiero corre alle magnifiche fotografie di Werner Bischof[22], a quella quantità di cloruro d’argento utilizzata per esaltare l’uso del dettaglio a spiegare il generale, per non cadere nella mancanza di prospettiva, nell’assenza di futuro dell’unicità dell’intero. Sarà il carattere astratto di questi frammenti di architettura a lasciare figurare il loro possibile montaggio in una nuova architettura.
Ma la fotografia non è disegno grafico, e ci si rende conto vieppiù che Rogers usa i particolari fotografici soprattutto per il loro aspetto materico. «Ogni momento è inserito nel dramma dell’esistenza e non può essere considerato entità astratta» e la materia è lo strumento per la rappresentazione di un momento storico. Così quando dice che «nel caso del moderno, possiamo parlare di processo di stilizzazione» vuole sottolineare la fase in cui il carattere, attraverso la materia, trova espressione formale in una precisa cultura, in un tempo e nella personalità che li interpreta. Sarà proprio la concretezza della specificità della costruzione nella materia a liberare la forma dall’assurda banalità della sua ripetizione e a obbligare ogni nuovo artista a scoprire relazioni inedite tra forma, materia e significato.
Rogers architetto attento, preciso studioso di forme e scale del progetto e delle loro possibilità materico-costruttive, ma soprattutto un pensatore che offre i materiali della storia alle poetiche dei futuri architetti: non è un caso che sia spesso protagonista dei suoi saggi una immagine molto amata da Rogers[23], una foto di un muro dell’Acropoli di Atene, presente sia in «Casabella» che in Esperienza dell’architettura, a cui sembra naturale associare ancora le parole di Rogers: «gli oggetti diventano antichi quando hanno superato di essere vecchi, ma questa è qualità di pochi esempi selezionati. Quando diventano antichi ridiventano patrimonio attuale e possiamo farne uso pratico e quotidiana consumazione culturale»[24].
Chiusura dell’Esperienza
Sembra ormai delineato il percorso che ha portato alla scelta dei temi delle immagini di Esperienza dell’architettura. Alcune di queste ci sono familiari, Rogers ci ha già anticipato qualche scatto qua e là, come l’amata architettura urbana degli Uffizi nel famoso articolo sulla decorazione nel numero 7 di «Quadrante», o il vaso arcaico persiano o la scultura di Brancusi in «Domus», ma qui li ritroviamo finalmente montati in un discorso completo: in analogia alla sua teoria fatta di pezzi, scritti già pronti, così anche per l’apparato iconografico usa immagini già cariche di significato. Se è possibile intuire che l’arcaico è usato per raccontare la materialità dell’architettura, l’Oriente per sottolineare la lentezza dei processi evolutivi e i particolari ci insegnano la tecnica della costruzione, si può ora intravedere l’orditura del trattato costruito con le immagini[25].
Così il cerchio si chiude. Nel 1958 esce in libreria Esperienza dell’architettura, nello stesso anno termina la costruzione della Torre Velasca e la rivista «Casabella Continuità» cambia decisamente direzione, con le uscite mensili, l’introduzione delle immagini in copertina e dei numeri monografici, ma soprattutto con il nuovo ruolo dei giovani, Aldo Rossi e Francesco Tentori come caporedattori[26]. La nuova rivista sarà altrettanto affascinante, alcuni numeri segneranno la cultura architettonica italiana, Tentori porterà avanti il discorso sulle immagini con un taglio del tutto personale, basti pensare alle tre attrici che compaiono nel numero 251: il morso di Anna Magnani in Rossellini, la fuga di Alida Valli in Visconti e la crisi di Monica Vitti in Antonioni, per affiancare Burri a Viganò e Capogrossi a Gio Ponti. Ma gli interessi saranno altri: le domande della nuova società e la riscoperta della complessità dell’idea di città in Rossi o Canella. Rileggiamo oggi la lucida interpretazione che ci ha fornito Ezio Bonfanti[27] di quel momento e intuiamo che l’intera, imprendibile, sorprendente apertura di Rogers[28] è finita: si chiude con la scelta di una forma per la città, la Torre Velasca, con la mitizzazione del suo pensiero in un libro, con l’accettazione della violenza formale degli allievi, con l’occupazione della sua «Casabella» da parte del centro studi: Rogers si ritira affinché altri crescano.
Chi lo conoscerà dopo questo momento non avrà l’onore di essere in contatto e dunque di imparare, da questa mente aperta. Alcuni rientreranno nella terra veneta, altri riusciranno a ricavare da quest’insegnamento la propria poetica personale, ma non certo quel metodo didattico privo di forme da imporre che Rogers aveva tanto apprezzato in Gropius.
Nessuno può dire come Rogers abbia vissuto questi ultimi anni, possiamo ancora, per un’ultima volta, guardare insieme un’altra immagine che ci ha lasciato, la fotografia[29] della sua casa: un piccolo appartamento, nel cuore di Milano, dove un’infilata di stanze allontanava l’ospite dallo studiolo privato. Sulla scrivania di lavoro materiali diversi, una Parker per scrivere, libri e raccolte di pensiero europeo, ma anche, soprattutto, utensili senza tempo venuti da lontano, dalla Cina o dal Giappone[30]. Abbiamo già detto del numero importante di immagini dedicate all’Oriente che ci accompagnano nel suo libro, ora qui ritroviamo tutto il carattere di continuità e utilità di pennelli, quaderni, forbici e ciotole laccate che formano la casa dell’uomo.
[1] Pisa e l’Acropoli non sono forse un omaggio agli occhi dei viaggi giovanili di Le Corbusier, alla loro capacità di vedere nell’arcaico, tramite schizzi e fotografie, la più grande lezione d’architettura?
[2] «Si debbono stabilire, inoltre, le relazioni tra la tradizione spontanea (popolare) e la tradizione colta per saldarle in un’unica tradizione». E.N. Rogers, La responsabilità verso la tradizione, in Id., Esperienza dell’architettura, Einaudi, Torino 1958, p. 297.
[3] Ha così completato la presentazione dei suoi quattro maestri “ufficiali”, Wright, Mies, Le Corbusier e Gropius, presente per assenza di immagine, come il ruolo di educatore, che Rogers gli riserva, impone. Scrive Rogers: «Da Walter Gropius ho tratto i lineamenti dell’impostazione pedagogica, che è di carattere metodologico». E cita Gropius: «Non esiste un punto terminale in architettura; c’è solo mutamento ininterrotto». E.N. Rogers, Elogio dell’architettura, in Nel centenario del Politecnico di Milano. Conferimento delle lauree honoris causa a Aalto, Kahn e Tange, Milano, 4 aprile 1964.
[4] Come recita la lunga didascalia, in questo caso addirittura anticipata nella pagina antecedente; sotto il titolo Testimonianza concreta, Rogers parla di sintesi culturale, di carattere ed espressione decorativa della sua architettura, di «linguaggio attuale, inserito come immagine nella continuità della tradizione: cioè interamente creato». Come immagine ci dice, come disegno fissato in un tempo e per questo appositamente creato. E.N. Rogers, Esperienza dell’architettura, cit., tav. 151.
[5] La prima proposta a Einaudi del 1951 porta infatti questo titolo, coincidente con il titolo del padiglione da lui curato alla IX Triennale nello stesso anno, piccola esposizione composta da sole fotografie. Unica traccia rimasta del titolo originale è il disegno della copertina.
[6] «Nel 1903, in un viaggio in Grecia e nel Mediterraneo, la bellezza dei templi gli rende chiara l’importanza del mondo delle forme delle epoche passate quando queste non sono riprese come elementi già risolti ma come elementi vitali capaci di essere sviluppati. Questo concetto della vitalità della tradizione in opposizione all’accademismo lo svilupperà più tardi nei due libri Vom
Neuen Stil, del 1907 e Essays del 1910». E.N. Rogers, Henry van de Velde o dell’evoluzione, in «Casabella Continuità», 237, marzo 1960.
[7]Stile è un interessante fascicolo illustrato curato dai giovani neolaureati Belgioioso, Banfi, Peressutti e Rogers nel 1936 per «Domus». Rogers sarà direttore di «Domus» dal 1946 al 1947 e di «Casabella-Continuità» dal 1953 al 1965.
[8] Stiamo ovviamente parlando della prima edizione del volume per Einaudi del 1958.
[9] Difficile resistere alla tentazione di un confronto con il Bilderatlas Mnemosyne di Aby Warburg e della libertà di associazione proposta nelle sue famose tavole-percorso attraverso i temi dell’antico e la loro continuità nel mondo occidentale.
[10] Parafrasando il titolo di Michael Baxandall, Parole per le immagini. L’arte rinascimentale e la critica, Bollati Boringhieri, Torino 2009, dove l’autore indaga le «Parole rivolte alle opere d’arte, parole che le rappresentano, parole che parlano a nome loro, che ne costituiscono il fondamento o che in taluni casi ne prendono il posto».
[11] F. Tentori, Il concetto di continuità, in Ernesto Nathan Rogers: testimonianze e studi, «Quaderni del Dipartimento di Progettazione dell’Architettura del Politecnico di Milano», 15, 1993, pp. 86-87.
[12] «Si pensi che la nostra formazione, essendo postromantica, pone il creatore come uno dei fattori dell’opera, di cui l’altro è chi ne usufruisce. S’apre in ogni nostro gesto un’attività dialettica non conchiusa, ma necessariamente indefinita, e da compiere da ognuno, che se ne serva o la ammiri». E.N. Rogers, Elogio dell’architettura, cit.
[13] «Un processo di forme possibili che si aprono a nuove relazioni», in E. Paci, Relazioni e Significati, Lampugnani Nigri Editore, Milano 1965.
[14] S. Veca, In ricordo di Enzo Paci, il filosofo e l’architetto, in Ernesto Nathan Rogers: testimonianze e studi, cit., pp. 48-50.
[15] «Questa è una palestra di opinioni: le manifestazioni del fenomeno architettonico vengono descritte come proposte, non come conclusioni da accettare o rifiutare». E.N. Rogers, Necessità dell’immagine, in «Casabella Continuità», 282, dicembre 1963.
[16] «L’architettura per l’architettura non ha senso, come non ha senso nessuna azione umana che si chiude in una tautologia». E.N. Rogers, Elogio dell’architettura, cit.
[17] Com’è noto, Ernesto Nathan Rogers in questi anni coltiva i suoi primi pensieri frequentando le lezioni di filosofia di Antonio Banfi al liceo classico Parini.
[18] «Lo stile è il modo essere del carattere». E.N. Rogers, Carattere e stile, in Id., Esperienza dell’architettura, cit., p. 218.
[19] Matilde Baffa le ha chiamate forme allusive. Per la stesura dell’intervento mi è sembrato naturale sentire le voci di Cesare Macchi Cassia e di Matilde Baffa, che erano vicini a Rogers proprio in quegli anni. O ancora forme in processo, come le definisce Giovanni Marras in La città come testo. Autonomia del linguaggio architettonico e figurazione della città, Dottorato in Composizione Architettonica, IUAV, Venezia 1992. SI TRATTA DI UNA PUBBLICAZIONE A STAMPA DEL DOTTORATO? NO, è solo la tesi dattilografata…
[20] «Il problema di imprimere formalità all’architettura, progettando contro il formalismo». G. Canella, Per Ernesto Rogers, in L’insegnamento di Ernesto N. Rogers, Dottorato in Composizione Architettonica, IUAV, Venezia 1984. SI TRATTA DI UNA PUBBLICAZIONE A STAMPA DEL DOTTORATO? SI!
[21] Se le prime due copertine parlanti rappresentano il Seagram building e uno schizzo di Le Corbusier, la terza annuncia, nella scelta di Ridolfi, il confronto con il farsi della nuova architettura italiana.
[22] «Ciò che distingue l’opera di Werner Bischof è questa qualità di rivelare, attraverso i particolari, il significato universale delle cose nella più densa accezione umana: la continua partecipazione all’atto estetico con la simpatia di tutti sentimenti, sicché essa non è soltanto un album di belle immagini ma un documento della storia degli uomini». E.N. Rogers, Architettura e Fotografia, in «Casabella Continuità», 205, aprile-maggio 1955.
[23] Come confermato da Matilde Baffa quando mi ha descritto con la precisione di un segno scolpito nella memoria, il periodo in cui ha aiutato Rogers a mettere insieme l’apparato iconografico del libro per Einaudi nel 1958. La giovane collaboratrice era in ansia nell’incontrare ogni mattina l’autore, che l’accoglieva sorridente tranquillizzandola sul fatto di non aver cambiato nulla; lei trovava invece ribaltato l’ordine ottenuto il giorno prima: ogni sera, l’autore tornava infatti a cambiare, integrare e correggere le immagini per le sue parole.
[24] Questo l’incipit di E.N. Rogers dell’articolo del 1964 su Le Corbusier, in E.N. Rogers, Editoriali di Architettura, Einaudi, Torino 1968. La raccolta degli editoriali esce quando Rogers è già molto malato: non ha illustrazioni.
[25] Dal risvolto della quarta di copertina: «la scelta delle illustrazioni, che vogliono essere esse stesse discorso, dialogo con il lettore, cultura diventata immagine».
[26] Gregotti, che aveva affiancato Rogers per molti anni a «Casabella», diventa direttore di «Edilizia moderna».
[27] [E. Bonfanti], Una rivista, in E. Bonfanti, M. Porta, Città, museo e architettura. Il gruppo BBPR nella cultura architettonica italiana 1932-1970, Vallecchi, Firenze 1973, pp. 218-223.
[28] «Da lui abbiamo imparato a sottrarci alla pretesa di dire univocamente l’essere […] a cercare e ad amare». S. Tintori, Rogers ovvero l’elogio dell’incertezza, in Ernesto Nathan Rogers: testimonianze e studi, cit.
[29] L. Spinelli, Milanese Singles. L’appartamento privato di Ernesto Nathan Rogers, in «Domus», 925, maggio 2009.
[30] Nel mondo classico «la figuratività si perfeziona come la forma di una pietra che l’acqua levighi […] Lo stesso si può dire per le architetture cinesi o giapponesi, che evolvono per raffinamento secolare dei segni più che per un marcato mutamento dell’immagine». E.N. Rogers, Mutazioni collettive e individuali, in Id., Elementi del fenomeno architettonico, Guida, Napoli 1981, p. 83. Nel volume, pubblicato per la prima volta nel 1961, le immagini sono sterilmente radunate sotto il titolo di Tavole.