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Le riviste d’architettura di Luigi Moretti ed Ernesto Nathan Rogers nella Milano degli anni cinquanta

Esiste un ruolo teorico che le riviste di architettura possono assumere? E quali sono gli strumenti messi in atto?
Il confronto tra due riviste italiane, pubblicate a Milano negli anni cinquanta, Spazio e Casabella, ci rivela l’importanza di due casi esemplari e, nello stesso tempo, l’attualità di una riflessione sugli strumenti di comunicazione dell’architettura, in particolare sulla relazione che si stabilisce tra testo e immagine, sul confronto con le altre discipline artistiche o sul rapporto con la storia.
In questo ambito, la cultura architettonica italiana vede in due maestri riconosciuti, Luigi Moretti e Ernesto Nathan Rogers, la possibilità di riformulare ed articolare un nuovo modo di educare all’architettura.
Certo è, infatti, che entrambi gli autori analizzati non hanno cercato di rifondare un discorso teorico sull’architettura in maniera sistematica, non hanno mai scelto di condensare il proprio pensiero in un summa teorica, bensì hanno trovato nello strumento rivista, nell’occasione di una pubblicazione periodica e collettiva, una loro coerente modalità di trasmissione critica e aperta del sapere.
Attraverso il confronto delle caratteristiche iconografiche e critiche di queste due riviste milanesi, possiamo sottolineare alcune evidenti analogie rispetto alla capacità comunicativa dei loro direttori, soprattutto quando questi riescono a trasmettere una posizione fortemente propositiva, potremmo dire teorica, senza volerla costringere nelle pagine ingessate dell’accademia e della sistematizzazione saggistica; in questo aiutati da una comune passione per la libertà esplicita delle immagini fotografiche, spesso attraverso l’uso del ritaglio.
Gli esiti sono conseguentemente molto diversi: nel caso di Luigi Moretti la mente corre al fascino delle sue architetture, quasi mai pubblicate sulla rivista, ma così presenti nelle nostre menti per la loro forza iconica, mentre nel caso di Rogers educatore il lascito sembra essere affidato alla matita, così diversa, degli allievi.

CONTINUITY and DISCONTINUITY in CASABELLA E SPAZIO
The architecture magazines by Luigi Moretti and Ernesto Nathan Rogers in Milan of the fifties

There is a theoretical role that architecture magazines can take? And what are the tools put in place? The comparison between two Italian magazines, published in Milan in the fifties, Spazio and Casabella, reveals the importance of two exemplary cases and, at the same time, the relevance of a reflection on the communication tools of architecture, in particular on relationship established between text and image, and on comparison with other artistic disciplines or the relationship with history. In this context, the Italian architecture sees in two acknowledged masters, Luigi Moretti and Ernesto Nathan Rogers, the ability to reformulate and articulate a new way of educating to architecture. Sure it is, in fact, that both authors analyzed have not tried to re-establish a theoretical discourse on architecture in a systematic way, they never chose to condense their thoughts in a theoretical summa, but found in the tool magazine a rigorously transmission mode and open criticism of knowledge. Through the comparison of iconographic characteristics and criticism of these two magazines in Milan, we can point out some obvious similarities with respect to the communication skills of their authors, especially when they are able to convey a strongly proactive, we could say theoretical message; helped in this by a shared passion for the freedom of photographic images, often through the use of the crop. The results are therefore very different: in the case of Luigi Moretti the mind turns to the charm of its architecture, almost never published in the journal, but so present in our minds for their iconic power, while in the case of Rogers educator’s legacy seems to be entrusted in the pencil, so different, of his young contributors.

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Teorie dell’architettura e riviste

Esiste un ruolo teorico che le riviste di architettura possono assumere? E quali sono gli strumenti messi in atto?
Il confronto tra due riviste italiane, pubblicate a Milano negli anni cinquanta, Spazio e Casabella, ci rivela l’importanza di due casi esemplari e, nello stesso tempo, l’attualità di una riflessione sugli strumenti di comunicazione dell’architettura, in particolare sulla relazione che si stabilisce tra testo e immagine, sul confronto con le altre discipline artistiche o sul rapporto con la storia.
Le prime riviste di architettura del novecento sono state strettamente legate ad un’idea di attualità e di modernità che i manifesti e le figurazioni delle avanguardie artistiche avevano ben interpretato, ma dopo la guerra il senso delle riviste ha cambiato direzione. La perentorietà delle affermazioni e il carattere entusiastico degli scritti degli anni venti hanno lasciato posto alle criticità, ai dubbi e alla messa in discussione dei dogmi del Movimento Moderno che, nei diversi paesi europei, si esprimono con nuovi temi di dibattito, realtà editoriali e luoghi di incontro.

In questo ambito, la cultura architettonica italiana vede in due maestri riconosciuti, Luigi Moretti e Ernesto Nathan Rogers, la possibilità di riformulare ed articolare un nuovo modo di educare all’architettura. O almeno intuisce la necessità di una pluralità di modi di farlo.
Certo è, infatti, che entrambi gli autori analizzati non hanno cercato di rifondare un discorso teorico sull’architettura in maniera sistematica, non hanno mai scelto di condensare il proprio pensiero in un summa teorica, bensì hanno trovato nello strumento rivista, nell’occasione di una pubblicazione periodica e collettiva, una loro coerente modalità di trasmissione critica e aperta del sapere.
Se volessimo tentare una similitudine, confrontare il contesto scelto con un altro periodo storico, potremmo rifarci al manierismo, per quella stessa capacità di conoscere in profondità un linguaggio, poterlo criticare da dentro, anche con ironia, e nello stesso tempo cercarne con passione la continuità, nel progresso dei temi della modernità. L’analogia con altri periodi storici è una consuetudine appresa nello sfogliare le due riviste in questione, basti pensare alle fotografie dell’architettura antica che si snocciolano in Casabella-Continuità o al Barocco che deborda dalle pagine di Spazio.

Possiamo quindi dire che queste due pubblicazioni periodiche assumono un ruolo fondativo di un nuovo modo di comunicare l’architettura, meno diretto, meno impositivo, più teso alla formazione di un pensiero critico e in cui il ruolo del lettore diventa finalmente attivo. Il loro messaggio assume quindi quel carattere di generalità ed attualità che ci restituisce il senso di rileggerle oggi, in un momento in cui ogni teoria forte è stata messa in discussione, ma in cui l’architettura ha ancora la necessità operativa di ragionare sui suoi valori formali.

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Le riviste e i loro autori

Luigi Moretti dirige la rivista Spazio dal 1950 al 1953, Ernesto Nathan Rogers pubblica a Milano la rivista Casabella-Continuità dal 1953 al 1964. Le differenze tra le due testate è evidente ad un primo sguardo.
Se Spazio è pubblicato per soli sette, folgoranti, numeri, Casabella-Continuità assume per molti anni il ruolo di riferimento per la formazione della nuova cultura architettonica italiana e per il dibattito internazionale.
Se Spazio è pensata, diretta e impaginata da un’unica persona, dalla forte personalità dell’architetto collezionista d’arte Luigi Moretti, Casabella-Continuità vede nel professor Ernesto Nathan Rogers il catalizzatore di un gruppo di intellettuali di diverse provenienze ed età.
Se il direttore di Spazio inizia le sue pubblicazioni appena uscito da un periodo in carcere, dovuto alla sua pesante compromissione con il fascismo, il direttore di Casabella-Continuità era invece rientrato in Italia dopo l’anonimato e l’esilio forzato in Svizzera durante la guerra, a causa delle leggi razziali italiane.
Se Spazio sintetizza nel suo titolo l’esito del pensiero teorico di un grande architetto – costruttore maturo, Casabella riprende la pubblicazione di una già nota rivista nata nel 1928, che aveva portato in Italia la voce del Movimento Moderno sotto la direzione di Giuseppe Pagano, e gli aggiunge il termine Continuità, ad alludere in primis alla necessità di riannodare i fili interrotti dalla guerra, ma anche a ricercare un legame con una tradizione più in generale.
Due contesti culturali, due personalità, e due modi di fare architettura molto diversi per le due testate.

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Luigi Moretti, nato a Roma nel 1906, aveva già avuto occasione di costruire, prima della guerra, una serie di edifici rappresentativi a Roma; ci basti ad introdurre il suo lavoro una immagine precisa, una sola enigmatica fotografia, che ritrae con un singolare punto di vista la Sala della Scherma, realizzata nel 1933 all’interno della Casa del Balilla a Trastevere. Il taglio dello scatto fotografico accentua, deforma, lo spazio longitudinale della sala, introducendo una linea diagonale, obliqua, che scorcia e nello stesso tempo imprime movimento allo spazio interno. Si racconta che Moretti fosse molto attento alle riprese delle sue opere e che accompagnasse personalmente il fotografo nelle campagne fotografiche[1]. L’attenzione posta sulla luce zenitale ci obbliga infatti a riflettere sulla sezione costruttiva, lasciandoci intuire che la struttura non vuole essere mostrata, non deve entrare nella figura della spazialità interna e della luce che la definisce, poiché tutta estradossata. Spazio, Luce, Forma, Struttura: vedremo come queste parole si articoleranno negli anni successivi sulle pagine della rivista.

Ernesto Nathan Rogers, che nasce a Trieste nel 1909, ha sempre lavorato in gruppo, primo fra tutti nel gruppo che fonderà lo studio BBPR, fin dai tempi della laurea, ottenuta nel 1932 insieme ai compagni Banfi, Belgioioso e Peressutt. Lo studio perde in campo di concentramento il compagno Banfi e successivamente, nel 1946, realizza nel Cimitero Monumentale di Milano, in ricordo delle vittime dei campi, una semplice struttura di tubolare metallico, che delimita un cubo suddiviso da una croce e da alcune parti tamponate bianche e nere, che scompongono la figura in tensioni astratte; con un precoce understatement minimalista pochi elementi calibrati realizzano un suggestivo monumento[2] alla memoria e al sentimento collettivo[3].

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Dopo la guerra Moretti realizza a Milano il complesso di Corso Italia ed alcune case-albergo, sperimentando sequenze spaziali urbane e tagliando la compatta cortina stradale milanese con scorci inaspettati: l’immagine più nota è una fotografia di Giorgio Casali, che ci restituisce la violenza di un grande volume espressionista che, nell’appoggiarsi sulla bassa cortina stradale, si colloca trasversalmente alla strada ed apre lo sguardo verso l’imponente edificio residenziale del fondo dell’isolato.

Pochi anni dopo, nel 1957, lo studio BBPR nell’ergere nel tessuto antico della città di Milano la Torre Velasca, ne modifica il panorama e declina la nuova scala della città moderna con una figura antica. Il numero 232 di Casabella dedicherà la copertina alla fotografia di quest’architettura, immagine divenuta simbolo delle ancor più note parole espresse da Rogers sulle «Preesistenze ambientali», nell’articolo pubblicato in uno dei primi numeri della sua direzione, quasi una sorta di manifesto tematico[4].

Le linee editoriali

Da queste poche linee introduttive, è facile intuire le differenze tra le due figure e l’obbligo di un ulteriore confronto sulle linee editoriali.
Nella redazione della rivista Spazio Luigi Moretti fa pressoché tutto: dalla linea culturale sull’architettura all’impostazione critica di confronto con l’arte, antica e contemporanea, dalla scelta delle architetture alla scrittura di molti testi, dalla selezione delle immagini, con le loro inquadrature e tagli, fino alla loro impaginazione e montaggio, come ha ben descritto Federico Bucci nel primo libro della recente riscoperta critica di Moretti[5]. Nella stesura dei testi è accompagnato principalmente da Agnoldomenico Pica e solo occasionalmente possiamo riscontrare la firma di noti storici dell’arte, quali ad esempio Toesca o Argan o artisti come Gino Severini e Ardengo Soffici[6]. Sulle sue pagine non compare nessun grande nome del panorama internazionale moderno e le architetture presentate assumono maggiormente il ruolo di un lavoro collettivo, piuttosto che cercare di evidenziare poetiche personali. Ogni numero affianca alla presentazione di opere di architettura una rilettura di arte antica, maestri scelti, pittori classici qui presentati attraverso un particolare punto di vista, l’ingrandimento dei loro dettagli.
La ricerca svolta nei testi a firma di Moretti è quella di una rilettura materico-descrittiva di alcuni grandi momenti artistici del passato, come il romanico o il seicento, per coglierne i caratteri formali e percettivi astratti e sottolinearne il carattere di attualità e di operatività nella progetto d’architettura.
Questa linea è rafforzata dal controllo di una grafica che si va affinando ad ogni numero.
In Spazio le copertine hanno un ruolo autonomo e, malgrado la rivista non preveda mai numeri monografici, non riprende neanche i temi, così ben definiti, svolti negli editoriali; solo il terzo numero presenta una delle foto astratte che accompagnano il testo sul Barocco. Le altre copertine sono firmate da artisti e solo quella del quinto numero verrà personalmente composta da Moretti, lasciando trasparire una ricerca altra, la provocazione volumetrica che in parallelo stava svolgendo nella casa La Saracena, come ha rintracciato Annalisa Viati Navone nel suo testo[7]. Luigi Moretti inizia ad impaginare la rivista personalmente a partire dal quarto numero, come è facile intuire sfogliando i numeri nel loro insieme.
Se l’architettura che viene pubblicata nei sette numeri di Spazio è prevalentemente italiana, con una speciale predilezione alla scala dell’edificio e al tema della residenza, su Casabella-Continuità appare invece subito evidente il contesto internazionale e trasversale dei temi affrontati, con una varietà di scala che si muove dal territorio all’oggetto di design.
Nella redazione di Casabella-Continuità si costituisce un gruppo di lavoro permanente, che prenderà presto il nome di Centro Studi, con esplicito riferimento alla sua vocazione di luogo di dibattitto e di ricerca, dove confluiscono quei giovani studiosi che diventeranno presto le nuove personalità dell’architettura italiana, come Giancarlo De Carlo, Vittorio Gregotti, Francesco Tentori e Aldo Rossi, trovando modo in questo fertile contesto di coltivare le proprie, differenti e particolari, vocazioni e poetiche.

La scelta di pubblicare approfondimenti monografici accompagnerà sempre la rivista, anche se nei primi numeri l’orientamento di Rogers sarà quello di parlare di alcuni autori del primo del Movimento Moderno, non solo i grandi cioè, ma anche, soprattutto, i precursori, i primordiali; successivamente il confronto con le urgenze dell’attualità della ricostruzione del dopoguerra e la massificazione dei numeri del boom economico e la storicizzazione della riscoperta di alcuni autori spingeranno verso altre scelte editoriali.
Ovviamente anche le copertine raccontano questo percorso e la grafica che accompagna il lungo cammino di Casabella evolve di pari passo: per molti anni le copertine di Casabella-continuità resteranno bianche, cambiando periodicamente solo il colore del titolo, Casabella, e del suo intrecciarsi con la Continuità. Quando i giovani redattori prenderanno il ruolo di vicedirettori, inizieranno le colorate copertine tematiche, che anticipano i contenuti espressi all’interno. Si passa così da una copertina muta, coerente con una trasmissione del sapere non impositiva, ad una copertina di denuncia.
Malgrado le evidenti ed esplicite differenze tra le due testate, è necessario confrontare ed indagare l’uso delle immagini all’interno di queste due pubblicazioni periodiche, perché in entrambi i casi assumono un ruolo tutt’altro che secondario nella strategia editoriale. Si è provato dunque a rintracciare gli esiti formali, figurativi ed educativi di queste esperienze.

Discontinuità in Spazio

Come abbiamo già ricordato, Moretti interveniva personalmente sulla grafica dell’intero impaginato, lavorando sulle immagini e i loro tagli. È testimoniato il ricco patrimonio di immagini che il collezionista d’arte, il futuro organizzatore della galleria d’arte che erediterà il nome della rivista, Spazio, aveva tra le mani, ed appare subito evidente il ruolo che queste hanno nelle pagine dei singoli numeri, in particolare negli editoriali: l’esiguità del loro numero rende possibile una disanima dell’intera serie, per scoprire la coerenza grafica di allineamenti e disequilibri, tensioni e densità, concentrazioni di realtà e sospensioni della materia.
I sette articoli che aprono la rivista di fatto non sono editoriali canonici, nel senso di testi di introduzione ai contenuti del numero, sono bensì capitoli di un piccolo trattato di progettazione architettonica che troverà il suo esito nell’ultimo numero, con l’articolo Strutture e sequenze di spazi.
Si cita spesso il fatto che la rivista cessi la sua pubblicazione in maniera brusca, in corsa potremmo dire, e si ricorda il fatto che negli anni a venire Luigi Moretti pubblicherà i suoi fondamentali saggi su Michelangelo o su Borromini, così come Forma come struttura, come «estratti di Spazio», ma una lettura d’insieme dei sette saggi ne mette in evidenza il forte carattere unitario, nella potente capacità evocativa del montaggio di testi e immagini.
Le soppesate parole che compongono i titoli dei saggi, le fotografie delle architetture e della materia, i frammenti dei quadri, gli schemi grafici e i disegni dei progetti si compongono in un insieme indissolubile, che infatti ne ha reso difficile una loro successiva riedizione. Moretti parla, descrive l’architettura come pochi autori sanno fare, facendoci dimenticare il particolare momento storico che ha assunto ad oggetto. Colpisce l’uso del taglio, dell’inquadratura, dell’ingrandimento e del frammento, e nello stesso tempo del controllo dell’unità. Il processo di astrazione delle forme, così bene spiegato da Moretti nei suoi testi, è reso visibile nelle immagini, lavorando alla ricerca di una tale distanza dalla figura d’insieme da alludere a significati altri. Ognuno di questi dettagli viene poi rimontato nella pagina, cercando corrispondenze e relazioni tra le forme.
Nel primo numero, il saggio Eclettismo e Unità di Linguaggio Moretti ci introduce al metodo di lavoro, che vede da un lato la dichiarazione di una ricerca di un linguaggio comune, attuale e moderno, ma nello stesso tempo come questo sarà arricchito dall’individuazione, nei materiali più eterogenei, delle tensioni e della potenzialità delle densità materiche attraverso la lettura percettiva di forme e frammenti.
Anche nel secondo numero, dove presenta il testo Genesi di forme dalla figura umana, affronta il tema della figura e della sua formazione nell’atto creativo, rileggendo la scultura greca classica in questa linea.
Se questi due testi hanno carattere più generale, possiamo dire che a partire dal terzo numero, con il testo Forme astratte nella scultura barocca, si consolida questa capacità descrittiva che unisce testo ed immagine, che riconosce temi del moderno, quali l’astrazione, nell’architettura del passato, nello specifico nel Barocco. Grazie alla sua lettura impariamo a riconoscere il rapporto tra densità diverse nelle sculture barocche e a leggere il rapporto tra centri diversi e unitarietà dell’opera. Le fotografie delle fontane di Bernini o delle opere di Michelangelo o Borromini occupano quasi per intero la pagina e non sono quasi riconoscibili tanto sono scorciate e frammentate. Nello sfogliare queste pagine vi si associa subito l’immagine di una delle più belle architetture di Moretti, la casa Girasole a Roma, dove il basamento addensa materia sbozzata e la contrappone a campiture lisciate, lasciandoci intuire la contemporanea passione per l’arte informale dell’autore.
Il quarto numero presenta il saggio Trasfigurazioni di strutture murarie, dove testo e immagini giocano sulla forte contrapposizione cromatica di bianco e nero. Le trasfigurazioni sono lette come “operazioni sulla struttura tettonica e utilitaria[8]”, tra regola e variazione. Nella forte accezione cromatica, nella trasfigurazione e libertà dalla verità costruttiva e nello stesso tempo nell’affrancamento dal muro perimetrale, la parete perde dunque il suo significato evocativo della costruzione per guadagnare un ruolo astratto, di puri rapporti formali, fino al suo evidente confronto, nella stessa pagina, con le pitture di Mondrian.

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La quinta uscita della rivista presenta un testo ancora più complesso, Discontinuità dello spazio in Caravaggio, in cui si contrappone la coincidenza temporale e spaziale del Rinascimento, la sua omogeneità, con i successivi sviluppi in Michelangelo e in Caravaggio, di cui si descrive con passione lo spazio come accentuazione di ombre e di luci. Le illustrazioni che contrappuntano il testo sulle pagine offrono un controllato ed equilibrato montaggio di contrastate fotografie in bianco e nero, dove colonne bianche fanno capolino da uno spazio nero di non materia[9], di dettagli, quasi senza forma, dai quadri di Caravaggio, e dell’inserto in minore di una sua architettura di taglio: la casa albergo di via Corridoni a Milano; anche il bianco della pagina, su cui sono montate le foto, assume un peso nella composizione.
Le parole di Moretti sono estremamente esplicite e poetiche e non si può fare a meno di riportarle:
“il passaggio dall’accentramento di interessi su un’intera forma del Rinascimento, all’accentramento acuto su una sezione di forma[10], assunta come unica addensatissima realtà rappresentativa della forma stessa.[…] La realtà distesa e, con le ripetizioni delle accademie e dei manierismi, diluita per l’intera superficie del quadro, tende ad aggrumarsi in potenza di vita sufficiente […] Veri noccioli di inerzia. […] Atto terribile di esistenza. […] Deriva conseguenzialmente dall’addensamento allucinante della realtà in alcuni punti e dallo svuotamento assoluto di altri. Direi questa stereoscopicità[11] la prova da laboratorio dell’avvenuta fratturazione dello spazio. […] Ed ecco in Caravaggio allora le figure di taglio, sulle quali la potenza evocativa trova appoggio e densità più veementemente che nelle strutture frontali: in una spalla di taglio si nomina un’intera struttura umana, in breve spazio si concentra un mondo. Caravaggio […] precorre la riassunzione e l’addensamento proiettivo di un volume sul suo fianco, perforando lo spazio nel senso dello sguardo e non più fermandolo con apposizioni frontali. Così come noi moderni abbiamo, nei fabbricati a lama, per matura eredità e con esigenza precisa sentito.[12]
Allo stesso tempo è impossibile non associare a queste parole l’immagine delle opere milanesi che nello stesso periodo stava realizzando, come il volume di taglio di Corso Italia e la già citata casa albergo di via Corridoni.
La posizione teorica di questi scritti trova sempre una concreta realtà costruttiva con cui esprimersi.

In un ragionamento sulla realtà della costruzione, occorre inoltre tenere presente il senso che assumono le parole tempo e spazio nei suoi testi e il ruolo attribuito a Michelangelo quale magnifico pensatore di opere in cui le diverse strutture alludono a diversi tempi della costruzione, quasi nascesse in quel momento nell’autore la sua consapevolezza storica: ancora parole di Moretti: “Il Longhi evoca la drastica dizione di «fotogrammi» sulla quale, con esattezza, convergono significati diretti e metafisici del correre e sparire del tempo in uno con gli spazi. Quel famoso «tempo», che nasce con Michelangelo e costituisce l’antitesi secentesca alla fissità del Rinascimento, è espresso in Caravaggio su due modulazioni sovrapposte: l’una della fratturazione e discontinuità dello spazio e quindi di temporalità immanente, l’altra della palpitazione stellare dei bagliori delle forme.”[13]

Struttura, Forme, Figure, Spazio. Il dizionario architettonico di Luigi Moretti si va completando di parole e immagini e nel sesto numero della rivista si integra con una riflessione sui rapporti e sulle distanze, le pause, tra le parti. Preme sottolineare l’acuta osservazione iniziale di Moretti sullo sfalsamento tra l’arrivo delle forme astratte nell’arte del primo novecento e la sua coincidenza temporale con il rifiuto delle uniche forme astratte architettoniche, le modanature appunto. In Valori della Modanatura queste vengono lette da Moretti dapprima come strumenti per la percezione dell’oggetto architettonico, utili ad accentuarne la visione, lo scorcio e le linee figurative dell’insieme. Successivamente ne esalta il senso di forme astratte uniche, tutte giocate sull’importanza del valore, della misura, di luce ed ombra: “Le cornici sono gli spazi di una architettura ove la massima realtà si addensa, e ciò non solo per virtù della loro propria figura, ma in quanto contrapposte a spazi liberi privi di modanature. Spazi quieti per «diminuzione di densità».[14]

È abbastanza ovvio che dopo le descrizioni delle discontinuità in Caravaggio e sulle differenti densità appena descritte, si arrivi dunque all’ultimo testo Strutture e Sequenze di spazi. Il testo ripercorre in maniera più sistematica la storia dell’architettura attraverso il tema della concatenazione degli spazi, delle compressioni e dilatazioni di questo e delle sue sequenze[15]. In questo caso però le immagini vincono sul testo ed è giusto lasciar parlare la loro eloquenza: sono in gran parte le fotografie di quei particolarissimi modelli in gesso realizzati dallo stesso Moretti, in cui aveva tentato di rappresentare le densità dello spazio interno, con l’estrusione di materia all’interno dei vuoti delle architetture. La loro sequenza storica li rende una serie complessa, in cui frammenti di disegni o schemi grafici, campiture di rosso o nero, si contrappongono alle ombre delle compressioni dello spazio.
Con questo saggio si chiude l’esperienza di Spazio e la sperimentazione di una descrizione analitica dei valori percettivi del progetto che formano in Moretti il senso dell’architettura: alle parole figurazione, forma, struttura o spazio fa infatti sempre corrispondere operazioni sul corpo architettonico che lavorano sulla densità, sulle dilatazioni e sulle tensioni, nel trasformare l’immaterialità dello spazio nel diluirsi della materia.

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Struttura e Forma sono parole che Moretti riprenderà spesso successivamente, perché nella sua concezione dell’architettura materia, struttura e non materia, lo spazio cioè, si integrano e si completano[16].
Negli anni recenti si è molto teorizzato sul rapporto con le arti figurative in maniera astratta e teorica, mentre in questi testi nessun confronto teorico è chiamato in causa, a favore di una descrizione precisa di fatti in un continuo passare dall’arte all’architettura e viceversa[17].
Possiamo dunque dire che i sette saggi che compongono il corpus degli editoriali della rivista esprimono con tale forza una posizione teorica, dove ogni capitolo affronta un tema formale del progetto d’architettura, da poter dire che il loro insieme si presenta come un trattato sulla composizione architettonica.

Continuità in Casabella

Ernesto Nathan Rogers ha sempre usato in modo attento le immagini nei suoi testi, stabilendo di volta in volta predilezioni e consuetudini. Possiamo azzardare l’ipotesi che nel caso di Rogers vi sia una sorta di autonomia delle illustrazioni, che il loro uso sia determinato da una volontà di esprimere alcuni temi precisi, di cui l’immagine è espressione strumentale di un pensiero concettuale, piuttosto che materiale visivo puro come abbiamo visto in Moretti.

La passione di Rogers per le forme del primo Novecento, per il movimento della linea del Liberty e dell’art nouveau o per le incertezze del protorazionalismo, è stata vista come l’attenzione ad un momento preciso del processo progettuale, a quando c’è la rivoluzione delle forme[20], mettendo in evidenza la libertà e le potenzialità di apprendere da figure ancora indecise, in formazione, non ancora ghiacciate in splendide icone inutilizzabili per pensare il nuovo, l’altro.

Rogers è architetto attento, preciso studioso di forme e scale del progetto e delle loro possibilità materico-costruttive, ma soprattutto pensatore che offre i materiali della storia alle poetiche dei futuri architetti: non è un caso che sia spesso protagonista dei suoi saggi una immagine molto amata da Rogers, una foto di un muro dell’Acropoli di Atene, presente sia in Casabella che in Esperienza dell’Architettura, a cui sembra naturale associare ancora le parole di ENR: gli oggetti diventano antichi quando hanno superato di essere vecchi, ma questa è qualità di pochi esempi selezionati. Quando diventano antichi ridiventano patrimonio attuale e possiamo farne uso pratico e quotidiana consumazione culturale.[21]
È noto che Casabella era il luogo dove venivano pubblicati i Maestri del Moderno, la loro declinazione nella cultura alta della professione italiana, ma sulle sue pagine troviamo anche l’accorata documentazione di tradizioni e culture in estinzione: Rogers, soprattutto nei primi anni, sceglie il suo Moderno, e sceglie di raccontarcelo con un particolare punto di vista.
Le immagini mostrano edifici inseriti nello scorcio del contesto così come zoomate sulle partiture di facciata dove l’intero dell’architettura non è più leggibile. Due estremi, la veduta d’insieme e il dettaglio costruttivo.
Il particolare e nello stesso tempo l’universale. Tra le affascinanti fotografie di Werner Bischof[23], sceglie quelle migliori per esaltare l’uso del dettaglio, ma anche per spiegare il generale, due poli in tensione, per non cadere nella mancanza di prospettiva, nell’assenza di futuro dell’unicità dell’intero. È il carattere astratto di questi frammenti di architettura a lasciare figurare il loro possibile montaggio in una nuova architettura.
Ma la fotografia non è disegno grafico, e Rogers usa i particolari fotografici soprattutto per il loro aspetto materico, solitamente assente nella descrizione grafica.

Per Rogers l’accezione particolare di ogni moderno è compresa proprio nel confronto con un tempo e un luogo. Ogni momento è inserito nel dramma dell’esistenza e non può essere considerato entità astratta, e la materia è lo strumento per la rappresentazione di un momento storico. Così quando dice che “nel caso del moderno, possiamo parlare di processo di stilizzazione”, vuole sottolineare la fase in cui il carattere, attraverso la materia, trova espressione formale in una precisa cultura, in un tempo e nella personalità che li interpreta. Sarà proprio la concretezza della specificità della costruzione nella materia a liberare la forma dall’assurda banalità della sua ripetizione e a obbligare ogni nuovo artista a scoprire relazioni inedite tra forma, materia e significato.

Confronti, analogie ed esiti

Attraverso il confronto delle caratteristiche iconografiche e critiche di queste due riviste milanesi, possiamo sottolineare alcune evidenti analogie rispetto alla capacità comunicativa dei loro direttori, soprattutto quando questi riescono a trasmettere una posizione fortemente propositiva, potremmo dire teorica, senza volerla costringere nelle pagine ingessate dell’accademia e della sistematizzazione saggistica; in questo aiutati da una comune passione per la libertà esplicita delle immagini fotografiche, spesso attraverso l’uso del ritaglio, con cui intervenivano fino al loro rimontaggio in altre unità compositive, figurative o di senso.
Anche il confronto con una lettura operativa della storia accomuna i due autori: il romanico ed il barocco di Moretti, l’arcaico e la tradizione in Rogers. Anche in questo caso il tema del frammento, della vista ravvicinata e della sua astrazione dal tempo e dal luogo, accomuna i due autori; per Moretti questo è strettamente legato al testo che lo accompagna, mentre nel caso di Rogers assume quasi carattere simbolico autonomo.
Gli esiti sono conseguentemente molto diversi: nel caso di Luigi Moretti la mente corre al fascino delle sue architetture, quasi mai pubblicate sulla rivista, ma così presenti nelle nostre menti per la loro forza iconica, mentre nel caso di Rogers educatore il lascito sembra essere affidato alla matita, così diversa, degli allievi.

[1] Cfr. Angelo Maggi, Moretti, i fotografi e la visione dell’architettura, in Luigi Moretti. Razionalismo e trasgressività tra barocco e informale, a cura di Bruno Reichlin e Letizia Tedeschi, Electa, Milano, 2010.

[2] Ernesto Nathan Rogers ha ripreso più volte nei suoi scritti l’etimologia della parola Monumento: Moneo e memento, ammonire e ricordare.

[3] Bruno Reichlin, Ulrike Jehle-Schulte Strathaus, Parole di pietra, Architettura di parole, in Il segno della Memoria, 1945-1995, a cura di Marko Pogacnik, Triennale di Milano, Electa, Milano 1995.

[4] Ernesto Nathan Rogers, Le preesistenze ambientali e i temi pratici contemporanei, in Casabella, n° 202, 1954.

[5] Federico Bucci, Le parole dipinte, in Federico Bucci, Marco Mulazzani, Luigi Moretti, opere e scritti, Electa, Milano 2000, p. 136.

[6] Cecilia Rostagni, Matematica e la rivista «Spazio», in Luigi Moretti.1907-1973, Electa, Milano 2008, p.74.

[7] Annalisa Viati Navone, La Saracena di Luigi Moretti, tra suggestioni mediteranee, barocche e informali, Silvana Editoriale, Mendrisio 2012, p. 57-61.

[8] Luigi Moretti, Trasfigurazioni di strutture murarie, in Spazio, n° 4, gennaio – febbraio 1951, p. 7.

[9] “non riesco ad allontanare l’immagine dell’atmosfera di Roma con il sole a piombo, nei solstizi estivi; e Caravaggio, giovine, alla sua prima o seconda estate sulle strade di Roma a pieno meriggio, tra le ombre profondissime distese su palazzi e chiese, e, contro l’ombre, gli scatti improvvisi di luce, apparizioni, di un gonfio di colonna, di una lama di cornice. Roma col sole a picco ha uno sparire di forme nelle ombre e uno splendore di luci che non si conosce in altro luogo. […] L’accentuarsi di luci su alcuni elementi plastici che così esaltati assumono il ruolo di indicatori della sintassi della forma, scattando per prime le colonne alla luce. […] Il barocco romano frattura così lo spazio architettonico strutturalmente e coincidentemente per luce e ombra.” Luigi Moretti, Discontinuità dello spazio in Caravaggio, in Spazio, n° 5, luglio – agosto 1951, p. 8.

[10] Nota dedicata ai lettori spagnoli: cfr. il noto saggio Un objecto es una sección, in Juan Navarro Baldeweg, La habitación vacante, Editorial Pre-textos, Valencia, 1999, p. 43.

[11] Dal vocabolario Treccani: stereoscopìa s. f. [comp. di stereo- e -scopia]. – In biologia, la percezione del rilievo di un oggetto, e quindi della distanza tra gli oggetti, che si ha in conseguenza della visione binoculare, e che dipende dalla distanza dell’oggetto che si osserva (diminuendo al crescere di questa) e dal grado di illuminazione che l’oggetto riceve, diminuendo fortemente, e praticamente annullandosi, se dalla visione diurna si passa a quella crepuscolare.

[12] Luigi Moretti, Discontinuità dello spazio in Caravaggio, in Spazio n° 5, 1952, p. 1-8.

[13] ibidem.

[14] Luigi Moretti, Valori della modanatura, in Spazio, n° 6, dicembre 1951 – aprile 1952, p. 8.

[15]Non si tratta di suggerire a scala ridotta l’effetto che produce lo spazio interno dell’edificio rappresentato, come l’abituale modello cavo, ma di spostare l’attenzione su fatti, aspetti e configurazioni solitamente ignorati o trascurati, mettendo in evidenza, analiticamente, le sequenze spaziali, le giunture fra spazi, la loro addizione e/o compenetrazione, l’interfaccia fra spazio e struttura. Sono modelli cognitivi che selezionano (“parametricamente”?) determinate qualità dell’architettura e che permettono a Moretti di elevare la spazialità a categoria critica, e di auscultare le relazioni di rispecchiamento che lo spazio intrattiene con gli altri modi d’esistenza dell’architettura: la funzione, la struttura (e, quindi, la distinzione fra ‘schema ideale’ e costruzione reale), la plasticità, la luce ecc.” Bruno Reichlin, Figure della Spazialità. Strutture e Sequenze di spazi versus “lettura integrale dell’opera”, in Luigi Moretti. Razionalismo e trasgressività tra barocco e informale, a cura di Bruno Reichlin e Letizia Tedeschi, Electa, Milano, 2010, p. 32.

[16] “Il mondo delle forme si rivela a noi mediante le differenze che scattano tra forma e forma. Il che equivale a dire che ciascuna forma non è da noi appresa per qualcosa in sé, ma per quel complesso di avvertimenti, di differenze che la tagliano rispetto alle altre forme contigue; contigue si intende nello spazio o nella memoria. […] Una forma non elementare è costituita da un gruppo di differenze tra loro legate da relazioni che ne esprimono e ne obbligano l’ordinamento e la conseguenzialità. Il complesso di queste relazioni è la struttura della forma, la quale pertanto è appunto esprimibile in astratto come un insieme di pure relazioni. […]Più preciso è dire che vi sono rilevabili le diverse strutture, delle quali ciascuna definisce una serie omogenea di differenze, e cioè la struttura del chiaroscuro, la struttura dei rapporti statici, la struttura degli spazii, la struttura dei rapporti plastici, la struttura delle superfici come entità geometriche, la struttura della densità di luce, ecc. […] raggrumando energie , dilatando con estremo coraggio spazii, concentrando luci e addensando ombre” Luigi Moretti, Forma come struttura, da Spazio, estratti, giugno – luglio 1957, ora in Federico Bucci, Marco Mulazzani, Luigi Moretti, opere e scritti, Electa, Milano 2000, p. 182-184.

[17] “Scandire l’individualità. Le modanature acquietano o esaltano l’elemento singolo sempre in funzione di quella struttura ideale che governa l’intera rappresentazione architettonica e che lèvita, corruga e addensa le superfici per mezzo delle quali si rivela.” Luigi Moretti, Valori della modanatura, in Spazio, n° 6, dicembre 1951 – aprile 1952, p. 12.

[18] ‘Un processo di forme possibili che si aprono a nuove relazioni’, in Enzo Paci, Relazioni e Significati, Lampugnani Nigri Editore, Milano 1965. È nota l’influenza su Rogers del pensiero fenomenologico dell’amico Enzo Paci.

[19] Salvatore Veca, In ricordo di Enzo Paci, il filosofo e l’architetto, in QA15, Clup CittàStudi, Milano1993.

[20] Da un’intervista a Cesare Macchi Cassia, allievo di Rogers. Matilde Baffa, giovane redattrice di Casabella di quegli anni, le ha chiamate Forme allusive. Giovanni Marras le definisce invece Forme in processo, in La città come testo, Autonomia del linguaggio architettonico e figurazione della città, Dottorato in Composizione Architettonica, IUAV, Venezia 1992.

[21] Questo l’incipit di ENR dell’articolo del 1964 su Le Corbusier, in Editoriali di Architettura, Einaudi, Torino 1968.

[22] Se le prime due copertine parlanti rappresentano il Seagram Building e uno schizzo di Le Corbusier, la terza annuncia, nella scelta di Ridolfi, il confronto con il farsi della nuova architettura italiana.

[23] ‘Ciò che distingue l’opera di Werner Bischof è questa qualità di rivelare, attraverso i particolari, il significato universale delle cose nella più densa accezione umana: la continua partecipazione all’atto estetico con la simpatia di tutti sentimenti, sicché essa non è soltanto un album di belle immagini ma un documento della storia degli uomini.’ in ENR, Architettura e Fotografia, in Casabella-Continuità, n° 205, aprile-maggio 1955.

Bibliografia / Bibliography
Ernesto Nathan Rogers, Esperienza dell’architettura, Einaudi, Torino 1958.
Federico Bucci, Marco Mulazzani, Luigi Moretti, opere e scritti, Electa, Milano 2000.
Cecilia Rostagni, Luigi Moretti.1907-1973, Electa, Milano 2008.
Luigi Moretti. Razionalismo e trasgressività tra barocco e informale, a cura di Bruno Reichlin e Letizia Tedeschi, Electa, Milano, 2010.
Annalisa Viati Navone, La Saracena di Luigi Moretti, tra suggestioni mediteranee, barocche e informali, Silvana, Mendrisio 2012.
Ernesto Nathan Rogers 1909-1969, a cura di Chiara Baglione, Franco Angeli, Milano 2012.

 

UNA BELLA IDEA DI SPAZIO

un’altra storia operante

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Padiglione Italia, Innesti.

Nella sala buia, ottanta tasselli compongono il mosaico del nuovo Paesaggio Contemporaneo italiano: uno di questi proietta la fotografia di un palazzo in vetro opalino, i cui compatti fronti scultorei si aprono ad accogliere un vestibolo a cielo aperto.

L’immagine speranzosa del paesaggio inventato da Cino Zucchi, quasi a voler riportare di colpo l’Italia all’interno di un dibattito sul linguaggio internazionale dopo anni di latitanza, è composta da progetti diversi, accomunati da un certo gusto contemporaneo, quasi tutti edifici singoli, se non addirittura frammenti. Se l’immagine di architettura che li tiene insieme è chiara, è invece meno evidente se esista un’idea di città che sottostà a questi progetti.

È però possibile intuire una possibile linea di ricerca urbana nell’edificio opalino, il palazzo per uffici che lo studio giussaniarch (Roberto Giussani e Andrea Balestrero) ha recentemente terminato a Milano, zona Lambrate, in un contesto privo di ogni adeguamento a coordinate morfologiche comuni, scomposto nei fili di gronda, negli allineamenti stradali e nella varietà dei fronti. L’immagine di queste periferie recenti è nota, un’affannosa sommatoria di personaggi che si risolve in confusione e disordine, dove persino gli spazi aperti, nel rispondere a questa logica frammentata, non diventano mai veri spazi pubblici.

Il progetto ricompone l’intero isolato con astrazione e silenzio: la continuità dei fronti si adatta alla linea spezzata del lotto, per poi ripiegarsi in una internità, nel punto di incrocio delle tre strade su cui prospetta.

Un unico materiale, la cui omogeneità accentua il tema del vuoto, chiude la strada e apre la corte; un unico dettaglio costruttivo, la cui semplicità apparente si contrappone alla complessità degli strumenti progettuali messi in atto per ottenere un percorso che gradualmente ci porta dalla strada pubblica all’interno dell’isolato, risolvendosi in un continuum spaziale segnato da un’alternanza di soglie e di aperture.

La spaccatura verticale nell’intero del corpo edilizio si completa con il taglio orizzontale del piano terra, ottenendo una rotazione e uno sbalzo nella manica che apre l’atrio urbano verso l’esterno; pochi altri elementi vengono messi in gioco: la figura poligonale lasciata intuire dai segmenti interpretati dalle panchine e la forza del disegno della pavimentazione, che si arrampica sino al primo orizzontamento.

La contrapposizione tra l’uniformità e materialità di corpi e piani e la complessità del sistema spaziale si chiarisce ulteriormente nel successivo salone d’ingresso dove i due volumi autonomi dei corpi scala accompagnano verso l’apertura della corte interna a giardino.

Il difficile equilibrio tra la delimitazione del vuoto e la necessaria volontà di forma sembra essere raggiunto dal controllo scultoreo dei volumi e dall’inserimento delle sole forme, decise, dei corpi scala, ottenendo compressioni e dilatazioni che ci fanno percepire un primo abbraccio dei fronti che si apre nel respiro dello spazio centrale e una seconda compressione verso il verde interno. Un mantice, potremmo dire.

Lo spazio della corte è come quello di un mantice, si annulla nel moto e nel pathos delle pareti.
Roberto Giussani cita spesso con ammirazione il progetto di Pellegrini per il concorso di San Lorenzo a Milano che non a caso troviamo nella stanza attigua. Il curatore del padiglione Italia sceglie di incuneare la piccola nicchia che contiene i delicati disegni a matita dura su cartoncino di Cesare Pellegrini nella sala Milano, Laboratorio del Moderno, tra le più ampie cappelle dedicate alle belle fotografie dei nobili e noti esempi realizzati della modernità “anomala” degli anni cinquanta (Asnago&Vender, Caccia Dominioni, Gardella, ma anche Portaluppi) e la dura realtà della Città che Sale del contemporaneo.

Il progetto per lo spazio antistante la chiesa tardoantica di San Lorenzo, del 1986, assume così il ruolo di unico rappresentante, nella sequenza delle dodici tappe storiche milanesi, dell’intero periodo che ci separa dal sessantotto, cui siamo soliti associare la tradizione degli studi sulla tipologia edilizia e la morfologia urbana.

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Le quattro tavole, attraverso l’ausilio di una sola pianta e della verifica tridimensionale delle molte assonometrie, mostrano una serie di frammenti urbani molto particolari: un muro attiguo alle colonne romane, un basamento di cortina stradale che si scompone all’interno in gradonate leonardesche, basamenti e percorsi museali segnati dalle quattro torri con copertura a crociera, prese in prestito dall’antico impianto della chiesa, la lama di un fondale teatrale ed infine, nascosta nel suolo, una sala di loosiana memoria che riconduce alla quota della città romana; emergono alcune controllate concessioni, tutte dedicate alla preziosità dei dettagli e della materia, tra cui risaltano gli inserti in bronzo e i piani di marmo nero.

Questi elementi, queste forme così riconoscibili e allusive, non ritrovano unità in un solo oggetto architettonico, bensì trovano senso nel loro stare insieme a costruire uno spazio, un respiro che si comprime e si dilata come gli interni della spazialità antica, spesso compressi nel tessuto minore residenziale. Nel manoscritto possiamo leggere: lo spazio della corte è come quello di un mantice, si annulla nel moto e nel pathos delle pareti.

La proposta di museo archeologico, ipotizzato nel frammentato spazio antistante le colonne e la chiesa di San Lorenzo, incastonato tra il tessuto bombardato della città antica e la nuova edilizia residuale, riscatta il luogo dall’assurda “liberazione”, avvenuta negli anni trenta, dei volumi della chiesa dalla stretta delle case circostanti e, nello stesso tempo, interpreta il rifiuto della mimesi tipologica[2] della trama residenziale mercantile, lavorando sulla spazialità complessa del monumento tardoantico e svolgendolo nell’intero sostrato morfologico del quartiere.

Il risultato è una pianta provocatoriamente sgraziata, avversa all’estetica dell’oggetto isolato, plasmata a ricomporre i differenti brandelli urbani per disegnare il solo vuoto interno, svincolando la scelta delle forme che lo compongono, liberamente prese da Leonardo a Brancusi, o da Bramantino ad Adolf Loos, dall’obbligo della storia bum bum.[3]

 

Se è pur vero che si tratta di due progetti diversi, le analogie tra i due progetti sono evidenti; non ci interessa qui indagare ulteriormente i molti riferimenti simbolici utilizzati da Cesare Pellegrini per interpretare in chiave moderna un contesto antico[4], né la evidente attualità compositiva di giussaniarch. Non ci interessa sottolineare ancora le differenze tra l’esito tragico della lama nera che sprofonda lo spazio nel cuore della città antica o l’esito vivace dei nuovi spazi per una periferia altrimenti senza luoghi.

 

Questioni locali, si potrebbe dire, circoscritte ad un vecchio dibattito, ma in realtà si è voluto rintracciare questa microstoria milanese all’interno delle risposte dell’attuale Biennale d’Architettura, dove le domande poste toccavano il tema del confronto con la storia moderna.

Ci interessa capirne il valore all’interno di una Biennale diretta da Rem Koolhaas e di un padiglione curato da Cino Zucchi. Fundamentals avrebbe dovuto leggere gli Elementi nella loro declinazione dei tanti moderni nazionali. Innesti è il confronto con gli stati precedenti, da interpretare e incorporare; vuole essere cioè una ricerca sul senso delle forme nella storia che ha permesso al curatore di ricondurre la modernità milanese fino ai tempi della costruzione del Duomo e della Cà Granda.

 

I progetti di cui ho scelto di parlare raccontano la sapienza antica conosciuta attraverso la storia urbana, una lettura dell’ambiente[5] attenta maggiormente alla relazione tra le parti piuttosto che all’autonomia dell’oggetto architettonico, una riflessione sulle forme urbane liberate dalla coincidenza con la scelta tipologica, che permette oggi una interpretazione della morfologia del luogo attraverso i materiali del nostro tempo.

Ma il loro carattere d’attualità e di interesse rispetto ai temi posti dalla Biennale riguarda anche una idea di città che pone al centro l’architettura e la sua ricerca sugli utensili necessari a costruire spazialità, così strettamente legati al senso delle forme, alla lezione sulla modellazione, articolazione e compressione del vuoto, all’importanza dell’orizzontalità, verticalità, continuità e fluidità dei corpi urbani.

Sono progetti utili a capire, una volta di più, come il montaggio degli Elementi sia più importante degli elementi stessi, soprattutto quando si cerca, per la città, una bella idea di spazio[6].

 

 

 

 

 

 

 

 

[2] “La rispondenza tipologica, o un’unità solo schematica, sono ossature che non bastano a fare del nuovo forza civile di continuare la città; se per tal via ci si garantisce stabilità, si rinuncia a dare alvei in cui inseguire e riunire l’imprevedibile della vita. […] E’ insomma necessario, in questa età troppo ben disposta alle separatezze ed abituata alla riproduzione del visibile, tentare di aprire varchi nel bagaglio consolidato delle forme tipiche, poco adatte a rispondere alle domande del presente.” Cesare Pellegrini, Riconoscere e somigliare: quasi una spiegazione a tentativi di far fabbrica, in QA14, ottobre 1992, p.33.

[3] cfr. la verità bum bum di Heinrich Tessenow, in Osservazioni Elementari sul Costruire, Milano, 1976.

[4] “Ci ha da essere una conoscenza della storia specifica delle forme di organizzazione spaziale della città, capace di riconoscere individualità e contraddizioni aperte entro ogni insediamento attraverso lo studio della vicenda della sua costruzione; su questa base si può far sintesi, ordinando in priorità morfologiche rispetto all’insediamento le decisioni da prendere.” Cesare Pellegrini, in La formazione di una scuola di architettura, Milano, 2000.

[5] cfr. Maurice Cerasi, La lettura dell’ambiente, CLUP, Milano, 1973.

[6] Da una commento di Roberto Giussani sul progetto per San Lorenzo di Cesare Pellegrini.

Divorzio all’italiana: sui concetti di luogo e storia in un progetto di ignazio gardella

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La parola luogo sembra giustamente essere oggi una delle più urgenti. La globalizzazione si è contrapposta in maniera imponente alla cultura del locale, obbligandoci ad una riflessione che sappia invece riconoscere nel luogo i tratti significativi e le specificità delle culture. Di pari passo una ulteriore considerazione che merita un nostro approfondimento è l’abitudine di far coincidere le tematiche del luogo con quelle poste dalla storia, attitudine che ha portato ad alcune semplificazioni e schematizzazioni che ci hanno solo allontanato dalla nostra condizione attuale, dove il confronto con le altre culture è necessario.

In questo testo si cercherà dunque di tracciare alcune linee per un uso della storia in cui l’architetto, il suo tempo e la sua capacità di confrontarsi con l’attualità, intervengano fortemente nelle scelte progettuali, pur mantenendo quella continuità con i grandi temi dell’architettura, senza la quale il rischio è di incappare nell’arbitrarietà delle poetiche soggettive e arbitrarie. E come sempre l’analisi dei grandi architetti del passato ci offre gli strumenti per affrontare il presente.

 

Occorre innanzitutto chiarire cosa si intende usando questi due termini, luogo e storia.

Il termine Luogo, usato spesso nella sua accezione latina locus è una parola a cui è sempre associato un esito concreto e positivo in architettura.

La parola Storia è invece più complessa, soprattutto perché nel corso del Novecento ha subìto destini alterni, dall’equivoco della tabula rasa, fino ai peggio storicismi del linguaggio postmodern.

Questi due termini inoltre sono stati spesso visti, nelle teorie della progettazione architettonica a partire dagli anni sessanta, come una consolidata coppia, da cui ottenere con sicurezza ottimi risultati. In realtà i due termini sono spesso in contraddizione: nella prima parte del testo esploreremo i caratteri dell’uno e dell’altra e le loro differenze, per arrivare nella seconda parte a individuare anche alcune contrapposizioni evidenti nella chiarezza di alcuni esempi concreti.

Luogo

Ci piace iniziare ricordando la stretta coincidenza del luogo con lo spazio architettonico rileggendo l’affascinante excursus etimologico che ci offre Giancarlo Consonni[1], quando allinea la sequenza Loci, Luci, dei fuochi che bruciano la terra e formano la Radura, fino ad arrivare al vuoto, allo spazio che diventa appunto Luogo colmo di significato.

Il luogo è parte integrante della materia architettonica: è innazitutto misura, rilevabile nella sua fisicità, tanto che il primo gesto di un architetto per appropriarsi del luogo è visitarlo e cominciare a tracciarne degli schizzi, in planimetria scoprirne allineamenti e tracciati, attraverso le dimensioni intuirne la scala, fino alle sezioni con cui coglierne i rapporti tridimensionali tra le parti. Materiali e sistemi costruttivi diventano per l’architetto veri e propri strumenti progettuali, così come orientamento e affacci, strettamenti legati all’orografia. Il luogo è una sommatoria di esperienze, di caratteri urbani e architetture che nel tempo ne hanno formato la consistenza. Il luogo e la sua molteplicità di elementi sono sempre oggettivi e descrivibili in termini disciplinari e questo ne permette una lettura diretta, anche se non sempre ci fornisce la capacità di operare le scelte necessarie al progetto.

A partire dagli interventi di E. N. Rogers sulle preesistenze ambientali su Casabella-continuità[2] e dagli studi sul rapporto tra la morfologia urbana e la tipologia edilizia della scuola veneziana di Saverio Muratori[3], il concetto di luogo è stato recuperato, in compagnia della storia, nelle teorie italiane degli anni sessanta sulla progettazione architettonica, andando a colmare un’assenza che la città moderna aveva praticato e le grandi urbanizzazioni avevano messo in evidenza. Malgrado la cultura più alta dei grandi maestri non abbia mai dimenticato, come vedremo, questa importante componente del progetto, è pur vero che la massiccia edificazione delle grandi città aveva portato in Europa ad una perdita dei caratteri locali e ad una sorta di omologazione dell’architettura. Qualcosa di molto simile a quanto sta avvenendo oggi a scala mondiale.

Il tema è stato successivamente ripreso dal libro di Aldo Rossi, L’architetura della città, in cui il concetto di luogo si consolidava nella lettura formale e planimetrica delle aree urbane nel riconoscimento e riproposizione dei caratteri tipologici che su queste si insediavano.

Ma la città contemporanea ci pone davanti a problemi di natura sostanzialmente diversa da quelli ricavati dalla rilettura dei contesti privilegiati delle dense e articolate planimetrie dei centri storici, dove storia e luogo si intrecciano in maniera feconda. La realtà delle periferie senza identità ci obbliga infatti ad un uso della storia più efficace, più operativo, anche se più personale e soggettivo.

Locus versus storia

In questo senso ci interessa rileggere oggi questa coppia di termini, decretando per ognuno un suo differente ambito operativo nel progetto contemporaneo.

La cultura architettonica italiana degli anni settanta, infatti, ha lavorato a lungo sull’associazione dei due termini, cioè sulla storia del luogo, chiudendosi presto negli eccessi dell’analisi urbana, in cui si pretendeva di ottenere un progetto semplicemente dallo studio morfologico dell’area in cui si andava a progettare. In questa semplificazione si perdeva l’importante complessità del progetto architettonico e urbano, e soprattutto non si rispettava il valore di relazione del singolo manufatto architettonico, dell’importanza della sua unità, specificità e coerenza tra interno ed esterno. Questo procedimento portava il progetto a ridursi ad una serie di scelte su alcuni tipi architettonici predefiniti che venivano calati in maniera astratta nel luogo, in cui difficilmente l’edificio veniva lavorato, smontato e compromesso fino a divenire parte di un complesso architettonico più ampio che ne formasse l’ambiente, lo spazio urbano. Per contro, il concetto di tipo in sé conteneva tutte queste potenzialità, se visto nell’accezione di una struttura formale che ne permetta le infinite variazioni, trasformazioni, sovrapposizioni e giustapposizioni, così come Carlos Martí Arís ha ben espresso nel suo libro Le variazioni dell’identità.[4]

Ma la sola scelta delle tipologie adeguate al contesto, nella schematica coincidenza di storia e luogo, non lasciavano aprire quelle prospettive di attualità che un’altra idea di storia avrebbe permesso.

È interessante osservare come questo estremismo teorico, certamente permeato di un giudizio politico che ne determinava fortemente le posizioni, ha criticato e negato, fatto salvo un tardivo e inevitabile recupero, l’altra realtà dell’architettura italiana del tempo, che era invece un solido professionismo colto, che aveva affrontato con estrema consapevolezza, modernità e senso critico la ricostruzione del dopoguerra in Italia. Le architetture di Giovanni Muzio, di Luigi Caccia Dominioni, di Luigi Moretti o di Asnago e Vender erano una testimonianza concreta della sapienza costruttiva dei maestri di quel periodo, che costruivano il centro di Milano e Genova affiancati dai più noti, a livello internazionale, Gio Ponti, Ignazio Gardella, Franco Albini e lo studio BBPR.

Questi architetti avevano conosciuto la declinazione e le contraddizioni della relazione tra storia e luogo nella passione per la materialità del progetto costruito, fino al dettaglio, studiando i luoghi nella loro fisicità, nella loro tradizione costruttiva, nella loro oggettività e stratificazione.

L’uso che invece facevano della storia era più libero, attualizzandola nel loro momento storico. Ci ricorda Lucien Febvre che: “ogni epoca si costruisce mentalmente la sua rappresentazione del passato storico. La sua Roma e la sua Atene, il suo Medioevo e il suo Rinascimento […] La storia si scrive per il presente.”[5]

Quello che apprendiamo da questi maestri milanesi è come rendere attuale il passato, la storia. Rendere attuale, attualità… il rapporto che l’architetto stabilisce con il tempo è proprio uno dei nodi teorici fondamentali su cui basare un discorso sul progetto contemporaneo in contrapposizione alla permanenza del Luogo. Contemporaneo dunque, nella doppia accezione di poter riconoscere i temi dell’attualità, ma anche l’intuizione di quanto al contemporaneo sarà necessario.

Così come quando si parla di Luogo, occorre anche precisare, nel confronto con il contesto, se si è interessati a conoscere il luogo o a costruire un luogo.

Se conoscere il luogo non implica il suo cambiamento tramite la progettazione, significa non vederne quelle potenzialità future di cambiamento, che invece sono tutte espresse nell’idea di costruire il luogo. Guardare al passato o al futuro?

“La storia, dai tempi della rivoluzione francese, ha cambiato ruolo. Una volta era guardiana del passato: ora è diventata levatrice del futuro. Non parla più di immutabilità, bensì di leggi del cambiamento alle quali nulla sfugge.”[6]

Questa bella riflessione di John Berger sulla storia, sulla permanenza e sull’ansia del cambiamento è particolarmente utile ad innestare il fertile scambio tra Luogo e Storia, nel momento in cui il luogo non è solo quanto posso riconoscere, ma quanto posso ottenere tramite il progetto, cioè il suo futuro e non la difesa del passato.

In un piccolo recente volume La Città, di Massimo Cacciari[7], troviamo una spiegazione della differenza tra Polis e urbs, l’una tesa a mantenere la tradizione di una nazione, l’altra rivolta alla fondazione di una legge comune, utile a costruire un futuro che possa tenere insieme genti diverse. In questo fragile equilibrio tra permanenza dei caratteri del locale e innesto della storia come attualità ritroviamo oggi le indicazioni per muoversi in un mondo la cui globalizzazione cancella il valore del Luogo, apparentemente così chiaro, ma in realtà così spesso poco riconosciuto.

Storia

L’urgenza del contemporaneo, della nuova tradizione[8], è stato il tratto caratteristico della avanguardie del moderno. La storiografia recente ha indagato da tempo nelle opere dei grandi maestri del moderno, pensiamo solo a Le Corbusier o Mies van der Rohe, la continuità con l’esperienza storica e da loro possiamo ora ricavare con chiarezza alcune interpretazioni personali di temi che attraversano la storia.

Quando entriamo al Museo degli Uffizi e riconosciamo nei tratti significativi delle Venere di Tiziano le caratteristiche salienti dell’architettura di Le Corbusier sappiamo che l’occhio dell’architetto ha pescato nella storia e riportato all’attualità la continuità dei modi di controllare luci e ombre, profondità e chiusure. Nel dipinto la figura della donna nuda, in particolare la precisa curva del suo corpo, si stagliano su uno sfondo diviso verticalmente in due parti, di cui una metà è completamente nera; possiamo ipotizzare che sia una tenda, ma la sua realtà è solo quella di un astratto e scuro impedimento alla vista, privo di profondità. Nella parte attigua, nell’altra metà del campo visivo, succede esattamente l’opposto: allo scuro si sostituisce la luce, alla vicinanza ridotta la profondità di campo, all’astrazione un mondo figurato, al bianco e nero il colore, fino al piccolo cane che diventa punto di fuga della prospettiva. La descrizione del dipinto sembra coincidere con la descrizione dell’unione degli opposti della Villa Savoye: non a caso, sfogliando i carnet del viaggio in Italia del giovane architetto svizzero nel 1911, si trova il resoconto della visita agli Uffizi, completa di uno schizzo di quel dipinto, legittimandoci a pensare che ciò che rese degno il quadro di essere annotato nei famosi carnet sia proprio la rappresentazione di quell’unione dei contrasti che caratterizzerà l’intero suo lavoro.

È ormai da tempo che il sistema delle relazioni tra le parti, e non più la loro definizione formale, è diventata il vero e proprio momento significativo del progetto, potremmo dire la sua attualità: il contemporaneo può dunque diventare una occasione particolare di definizione di nuovi rapporti tra elementi antichi.

L’aneddoto della Venere di LC ci racconta infine degli occhi degli architetti che cercano e che trovano nel passato il loro futuro, in continuità, come nel bellissimo concetto espresso da Eliotsecondo cui ogni nuova opera modifica il passato[9].

La riflessione sul ruolo della Storia nella filosofia del Novecento è amplia ed articolata e non è certo questo il contesto adatto a ripercorrerla: ci soffermeremo, in maniera strumentale, su alcune passaggi che aiutino a sviluppare questo concetto dell’attualità della storia per il progetto contemporaneo. Tra i maggiori pensatori del secolo passato, come è noto, sicuramente Walter Benjamin è quello che più volte è tornato sulle potenzialità dell’uso della storia liberato dall’idea del progresso: “L’origine è la meta”, il famoso aforisma di Kark Kraus, citato da Benjamin nelle Tesi di filosofia della storia, presuppone che in ogni istante sia compresa la totalità del tempo, e sono quindi comprese in ogni istante, l’origine e la fine. Un suo studioso, Giorgio Agamben, scrive inoltre: “La contemporaneità si iscrive, infatti, nel presente segnandolo innanzitutto come arcaico e solo chi percepisce nel più moderno e recente gli indici e le segnature dell’arcaico può essere contemporaneo. Arcaico significa: prossimo all’arké, cioè all’origine. Ma l’origine non è situata soltanto in un passato cronologico: essa è contemporanea al divenire storico e non cessa di operare in questo […] Lo scarto, e insieme la vicinanza, che definiscono la contemporaneità hanno il loro fondamento in questa prossimità con l’origine, che in nessun punto pulsa con più forza che nel presente.”[10]

Attualità dei temi

Permanenza dei caratteri, continuità, conoscenza dei fatti architettonici che la storia della città ha articolato nel tempo per ipotizzarne un nuovo montaggio e una sua attualità nelle relazioni tra le parti. Un tempo pieno di attualità. Nel fare esplicito riferimento ad una idea di storia senza tempo, ci si avvicina al lavoro strutturato nel suo Atlante da Aby Warburg: scardinare la linearità storica a favore dei temi. Riconoscere l’essenzialità del lavoro su alcuni ceppi tematici, che si astraggano dal tempo e dal luogo e che possano divenire “inventario di forme e di archetipi in evidente presenza, in cerca di un contenuto”[11].

Questa una possibile strada che il complesso rapporto tra Luogo e Storia può ancora tracciare per il progetto contemporaneo e questo, ancora una volta, è il percorso che riconosciamo nei grandi maestri del Moderno, la cui esperienza ed interpretazione non possiamo non considerare ancora fondative della nostra cultura attuale.

Se nell’esempio citato Le Corbusier aveva infatti lavorato nel costruire la spazialità interna della sua architettura della casa, Mies van der Rohe ci offre un ottimo esempio del riconoscimento nella storia di una idea compositiva alla scala urbana e del suo uso nel progetto moderno.

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Negli studi per l’assetto planivolumetrico della Weissenhof Siedlung di Stoccarda, ha trasportato nel suo sintetico carboncino l’antica idea del Santuario di Delfi: un grande volume lineare che si staglia sullo sfondo è quello che, tenendo l’unità della composizione, permette la frammentazione delle tante edicole ( o case?) che accompagnano il tortuoso percorso che si snocciola in salita; Mies usa questo sistema di relazioni tra elemento primario dominante (che sarà poi il suo edificio residenziale) e le singole unità per risolvere un tema urbano e paesaggistico: facendo riferimento ad una storia altra, lontana dal luogo reale, ma vicina alla sua storia poetica, configura e progetta un luogo nuovo.

Mies infatti, ovviamente, non trova nella storia del sito della città tedesca la risposta, ma ha bisogno di ottenere dal luogo la domanda precisa, l’esigenza paesaggistica a cui successivamente solo la sua passione per l’architettura greca può dare risposta. In questo senso riconosciamo di nuovo al concetto di Luogo tutta l’oggettività dell’architettura e la formulazione della domanda, ed alla Storia, alle tante storie possibili, riconosciamo invece il concetto di soggettività e l’obbligo dell’unicità della risposta nel progetto. Potremmo arrivare a dire che il Luogo è presenza, mentre la Storia si scrive per il presente.

Un caso esemplare

Il progetto di Gardella per la Scuola di Architettura di Genova è un caso esemplare, che ci offre, declinate sul campo, un ventaglio di questioni adeguato ad approfondire il dialogo conflittuale tra Luogo e Storia.

Alla fine degli anni ottanta il cuore antico della città di Genova, ancora sofferente per i danni della guerra, assume un nuovo profilo nella collina di Castello, con la realizzazione del progetto di Ignazio Gardella per la nuova Facoltà di Architettura. È il risultato di un progetto lungo, iniziato negli anni settanta con un piano particolareggiato dell’intera zona dallo stesso autore, che sintetizza ora in questo nuovo, imponente, volume la sua riflessione sul rapporto tra Luogo e Storia, disegnando appunto una nuova silhouette urbana.

Gardella era già stato, tra le due guerre, il giovane architetto del linguaggio moderno del Dispensario di Alessandria e nel dopoguerra il raffinato architetto della borghesia milanese; nel momento del progetto di Genova poteva tranquillamente essere l’architetto ormai maestro che ascolta con intelligenza e curiosità le nuove generazioni e le loro riflessioni sulla morfologia urbana. In quest’opera è espressa la semplicità della scelte e nello stesso tempo la complessità dei temi urbani che un unico e semplice gesto risolve. Tutto il progetto si spiega nel rapporto con il luogo, con la città, a partire dagli allineamenti, fino al dettaglio della finestra fessura. Il progetto coincide con il luogo stesso, ma perché vi interviene con una scelta decisa sulla sua Storia.

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Il luogo, la collina di Castello dove si insediò il primo castrum romano, è caratterizzato da un forte sbalzo che una serie di fortificazioni e terrazze hanno disegnato nel tempo: su questo dislivello di quasi 20 metri, Gardella appoggia un volume unico, lungo 70 metri e largo 12, senza pilastri interni, fondato su altri due volumi sottostanti, che si contrappongono al primo per il carattere più articolato, determinati nel loro disegno dalle misure e dimensioni del luogo. Il volume maggiore ha una copertura in ardesia imponente per inclinazione, che rafforza la massa architettonica e dunque ancor più l’immagine urbana, alludendo alla chiesa scomparsa di cui in parte occupa il sedime e nello stesso tempo evidenziando l’assoluta perentorietà della linea di gronda che diviene strumento metrico, misuratore delle variazioni al suolo.

La direzione stessa della copertura sembra accentuare una possibile facciata principale, che è invece negata dall’importanza del suo disegno laterale.

La scala monumentale dell’edificio si articola con terrazze, basamenti, rampe e scalinate che dialogano con i tanti modi in cui la città di Genova è solita affrontare il tema più evidente che la sua geografia offre, quello cioè del dislivello e delle sue soluzioni architettoniche.

Malgrado il diverso carattere dei due corpi, il primo caratterizzato dalla verticalità e dalla figura del tetto, l’altro realizzato con i piani orizzontali delle nuove terrazze, l’immagine uniforme del complesso è realizzata con la ripetizione di uno stesso elemento, una sorta di finestra fessura che attraversa i piani e si chiude nella parte alta con una idea di merlatura.

Gardella sceglie di parlare con il linguaggio delle fortificazioni, dei basamenti e dei contrafforti, togliendosi dall’impaccio di un riferimento troppo evocativo alla chiesa. Una scelta personale che incrocia un riferimento storico ad un contesto ampio ed inserendolo laddove la storia specifica del luogo avrebbe richiesto altre citazioni.

Da un lato quindi la realtà e concretezza del luogo, dall’altra le diverse, autonome scelte del progettista, fino a ripercorrere un processo lento, una sorta di ricostruzione del luogo arcaica, che contiene addirittura la crescita organica del sito, della sua condizione ritrovata di suolo, di dosso roccioso, esprimendola in una nuova matrice espressivo-costruttiva.

La scelta di Gardella è quella di un’immagine fortemente evocativa a dispetto di una scelta tipologico-funzionale ridotta all’osso: alla frammentazione delle rovine contrappone la chiarezza volumetrica del corpo unico, per controllare la nuova spazialità del luogo.

Il tipo, nella sua forma più elementare, diviene così astratto da perdere spazialità interna, si incastona nel luogo e nella sua complessità, declinandosi da entrambe le parti con le differenti quote delle sistemazioni esterne e scegliendo per ognuno dei tre nuovi corpi di fabbrica, l’orientamento urbano più coerente; si svuota completamente al suo interno, distribuendo gli spazi di servizio con sagome autonome addossate verso l’esterno, ottenendo un’articolazione volumetrica efficace su un corpo altrimenti monotono nella ripetizione del taglio verticale: la definizione architettonica di questo volume è, come si diceva, tutta risolta nella ripetizione di un solo elemento, quelle fessure verticali sprofondate nel muro che contengono le aperture.

Uno dei massimi esponenti del razionalismo italiano sceglie una storia della città e si permette di utilizzare il linguaggio adeguato, anche se in contraddizione con il consueto bagaglio del Moderno, fatto di finestre orizzontali e tetti piani. Gardella arriverà inoltre, pur nell’uniformità della ripetizione, a differenziare i due corpi esprimendo un raffinato ragionamento classico, una declinazione particolare del tema murario e trilitico, del muro che diventa pilastro e viceversa. Lo stesso Gardella ci racconta della differenza nell’uso dei pilastri, del mostrare con lucida consapevolezza albertiana le due possibili soluzioni d’angolo, pieno nel volume superiore e vuoto in quello inferiore, utili a parlarci di un muro che si chiude a baluardo in contrapposizione al carattere infinito di una sequenza di pilastri.[12]

Ed è ancora un’altra delle tante storie possibili che Gardella sceglie per dare l’immagine al suo volume: la storia dei grandi muri difensivi, quell’immagine di rocca difensiva che appartiene alla collina di Castello; Gardella non riprende, non vuole evocare un passato, ma realizzare un progetto contemporaneo, così da mostrarci un raffinato gioco di luci e ombre, di volumi e tagli verticali, che gli permette di dominare il movimento ascensionale con un segno astratto, solo apparentemente ripetuto in modo ossessivo.

La misura infinita del taglio esterno, arretrato nella strombatura del muro profondo, arriva a risolvere con coerenza anche il rapporto tra trave e pilastro, tra leggerezza del marcapiano e posizione del serramento.

Il magnifico equilibrio che permette di tenere insieme la scelta della storia del luogo con la scelta costruttiva dell’elemento ripetuto, viene chiarito nel connotato materico-costruttivo: l’uniformità del cocciopesto, scandito solo dal marcapiano in ardesia, che diventa nello stesso tempo un’adesione al carattere schietto della città.

Una scrittura complessa concettualmente, fatta di materia e cromie della città sul mare, che al di là della sua apparente semplicità, lo avvicina in modo deciso ai temi della contemporaneità: la sua infatti non vuole essere ambientazione, ma la continuità di una tradizione senza tempo.

Lo stesso Gardella ci dice di Genova: “E infatti non esiste una sola tradizione, ma tante e diverse. Una città possiede sempre molte anime basate su qualche carattere comune. Un carattere comune è quello della plasticità dell’architettura, il suo articolarsi chiaro per volumi.”[13]

In questa frase si esplicita il carattere poetico dell’architetto, che deve operare una scelta tra le più tradizioni che la stessa città, luogo per eccellenza offre. Nella contrapposizione tra luogo e storia, Gardella sceglie nella complessità del luogo la scala urbana e l’unicità di una storia per le scelte di dettaglio; e scegliere la storia, come dicevamo, significa appunto lasciare affiorare le scelte personali dell’architetto, fino alla volontà di usare l’intonaco impastato con la polvere di mattone come da indicazioni del diario di lavoro del bisnonno architetto. In questo senso possiamo quasi dire che il progetto si risolve solo alla scala urbana e di dettaglio, omettendo quasi completamente la scala intermedia, quella scala architettonica che siamo soliti attribuire all’impianto tipologico.

CONCLUSIONI

In questa analisi si è messo in evidenza come il Luogo sia l’elemento oggettivo per eccellenza del progetto, quanto sia misurabile e controllabile nelle sue dimensioni propriamente architettoniche; il luogo si può insegnare a leggerlo, tramite appunto gli strumenti della disciplina, attraverso lo studio delle sue architetture, per delimitarne la complessità degli elementi che vi entrano in gioco, ma consapevoli dell’impossibilità della sua riduzione ad una sola delle sue componenti.

In questa lettura si accentua la differenza invece con la Storia, che si mostra nel caso di Gardella come esplicitamente unica e soggettiva, dettata dalla poetica o dalla storia personale dell’artista.

Se il Luogo è senza tempo, la Storia è invece tutta concentrata nell’attualità nel contemporaneo e dalla sua urgenza nasce anche l’obbligo dell’unicità della scelta soggettiva che si compie.

NOTE

 

[1] “Insomma lucus è appunto la radura, il luogo dove si è «fatto lustro» ritagliando e realizzando lo spazio sacro, un templum.” Giancarlo Consonni, La bellezza civile. Splendore e crisi della città. Maggioli, Sant’Arcangelo di Romagna, 2013, p. 14.

[2] ENR prese la direzione della rivista razionalista Casabella nel 1954 e aggiunse al titolo la parola Continuità.

Con Belgioioso e Peressuti realizzò nel 1957 come studio BBPR la Torre Velasca a Milano, noto esempio costruito delle teorie sul contesto pubblicate sulla sua rivista.

[3] Saverio Muratori, per una storia operante…

[4] È stato proprio Giorgio Grassi, non a caso direttore della tesi di Carlos Martí a introdurre l’idea della scelta di un solo tempo, di una sola tra le tante storie di un luogo, nei suoi progetti, come il caso esemplare del teatro di Sagunto ha così ben espresso.

[5] “Chaque époque se fabrique mentalement sa représentation du passé historique.” Lucien Febvre

[6] John Berger, E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto, Bruno Mondadori, Milano, 2008, p.14.

[7] Massimo Cacciari, La Città, Pazzini Editore, Rimini, 2004, p. 14-16.

[8] S. Giedion, Spazio, tempo e architettura, la costruzione di una nuova tradizione, Hoepli, Milano, 1941

[9] Thomas Stern Eliot, Tradizione e Talento individuale, 1919, in Il bosco sacro, Saggi su poesia e critica, ora in Opere 1904-1939, a cura di Roberto Sanesi, Bompiani, Milano, 1992, p.393.

[10] Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, Nottetempo, Roma, 2008.

[11] ci dice Juan Navarro Baldeweg sulle forme di Brancusi, in Juan Navarro Baldweg, La Habitacion Vacante, Pre-textos,Valencia, 2001, p.14.

[12] “lasciarlo aperto per far capire che l’edificio non era delimitato da un muro perimetrale. […] una serie di pilastri accostati e non un muro tagliato da fessure”, in Antonio Monestiroli, L’architettura secondo Gardella, Laterza, Bari, 1989, p.

[13] Intervista di Daniele Vitale su Zodiac n° 3,

 

CASA E CITTA’: MILANO VERSUS EUROPA, IERI E OGGI

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Oggetto di questo lavoro è una riflessione sulle recenti opere costruite a Milano, in particolare sui nuovi quartieri residenziali realizzati dalla metà degli anni novanta ad oggi. Si tratta di grandi comparti, spesso aree industriali dismesse, di rilevante consistenza, che sono state riconvertite alla città. La loro estensione ne fa oggetto di uno speciale interesse, per la ricchezza dei temi che avrebbe potuto suscitare, in contrasto con le soluzioni realizzate, spesso ripetitive e convenzionali. Quello che si vorrebbe mettere in evidenza, confrontando la nostra esperienza locale con altre realtà esterne all’Italia, è individuare una serie di temi su cui la città europea si sta interrogando, su cui sta lavorando con continuità, per valutarne l’impatto nelle recenti realizzazioni milanesi. Le variazioni sulla scala urbana, la conferma o la rottura della trama, il rapporto con la strada o il controllo dell’altezza non sono solo le strategie progettuali che le migliori esperienze europee attuali stanno mettendo in atto, ma in fondo sono sempre stati concetti su cui hanno lavorato anche i maestri milanesi della generazione del dopoguerra, il cui studio permette di scoprire ancora oggi molte interessanti soluzioni progettuali.

Gli elaborati grafici che accompagnano queste riflessioni sono stati redatti in occasione della pubblicazione, avvenuta nel 2009, del numero dedicato a Casa e città di QA24, la rivista del Dipartimento di Progettazione dell’Architettura, diretto allora da Massimo Fortis. Il tentativo intrapreso con il ridisegno dei nuovi quartieri, progettati e realizzati tra il 1997 e il 2007, non era solo quello di documentare in un’unica mappa tutti i recenti interventi, ma anche quello di rendere confrontabili, per realtà volumetrica, le planimetrie dei diversi comparti; una campagna fotografica, realizzata da Marco Introini, ne documentava inoltre la loro realtà fisica e costruttiva.

A una prima lettura era apparso subito evidente che vi erano numerosi tratti comuni tra i diversi interventi, quali ad esempio l’uso ripetuto del tipo della corte aperta o la serialità dell’edificio in altezza, piuttosto che un’indifferenza alle variazioni dei piani in altezza o all’altezza di gronda dell’edificio, che trasformavano ogni singolo intervento in un’occasione persa rispetto alla potenziale complessità che ogni contesto avrebbe potuto sollecitare. Ma una lettura più precisa oggi non può fare a meno di valutare questi interventi in un tempo più lungo, in una storia europea più complessa, dove la formalizzazione di alcune idee della modernità, la sperimentazione sul campo e la declinazione nei contesti, si è rivelata spesso molto feconda. Così come il razionalismo aveva trovato in terra lombarda un proprio carattere, così la città della contemporaneità europea è sicuramente stata un riferimento per le opere recenti.

Innanzitutto è utile chiarire l’attualità di quel felice momento della storia architettonica milanese che, a cavallo della seconda guerra mondiale, ha saputo interpretare i principi della città razionalista nord europea, con una adesione più immediata nei primi quartieri modello progettati tra il 1938 e il 1940 e successivamente interpretati nella maniera lenta con cui si costruirà la città del dopoguerra. Una maniera in cui la nuova architettura si integra e si coniuga con un particolare carattere “urbano” della città, solido e severo, già formato con la controriforma, e poi consolidato con il Piermarini e i progetti della Commissione d’Ornato nel periodo neoclassico.

La ricerca sull’urbanità, nel caso di architetti lombardi come Muzio, Gardella, Asnago e Vender, o Caccia Dominioni, era già una tradizione di lavoro quasi inconsapevole, con cui hanno ricostruito con naturalità la nuova città, dominando un ricco repertorio di strumenti compositivi, appresi in continuità con l’esperienza storica e rivisitati con gli occhi della modernità.

Un mondo, e soprattutto una professione, in gran parte scomparsa negli anni successivi, in cui le estremizzazioni della teoria e della politica ne hanno minato le basi. I discutibili esiti dei grandi interventi residenziali della Milano attuale non possono che essere riletti in questa prospettiva, ben consapevoli che il progetto della residenza in Europa è oggi il risultato di un’idea di città dove l’eredità del moderno ha trovato nella continuità del lavoro una sua lenta integrazione nella pratica professionale. Penso sicuramente alla Svizzera e alla Germania, ma anche ai paesi scandinavi e alla loro influenza sulla recente architettura iberica. Finiti i tempi delle sperimentazioni più ardite, la professione si è concentrata, nel caso della residenza in Europa, alla costruzione della reale architettura della città.

L’architettura della città[2] scritta da Aldo Rossi, si occupava in gran parte della definizione teorica e storica del valore della città, sapendo inserire il moderno nella continuità della storia urbana, ma proponeva poi solo architetture iconiche, oggetti ready made che difficilmente sapevano declinarsi, soprattutto sul tema dell’abitare collettivo, nei caratteri del contingente e del contemporaneo: la scelta dell’immagine dell’archetipo per la sua coerenza urbana sembrava sufficiente a risolvere la città e si poteva dimenticare la ricchezza della parola linguaggio. Il collage in fondo aveva proprio questo significato: l’intercambiabilità dell’oggetto architettonico, non la sua integrazione, declinazione, variazione, compromissione con l’ambiente, come proponeva invece negli stessi anni Maurice Cerasi[3].

La città italiana sta ancora pagando l’approccio troppo raffinato, afasico ed elitario di Rossi, come ben sottolinea Bernardo Secchi: «vorrei sottolineare il rapporto tra oggetto architettonico e architettura della città. Io parto dal presupposto che la seconda parte del secolo scorso è stata colpita da una grave forma di miopia critica; non ci si è resi conto che ciò che stava progressivamente venendo a mancare, era soprattutto l’architettura della città, che si costruivano nella città degli oggetti architettonici, e che l’affermare sempre più la loro individualità avrebbe cancellato il loro significato; essi si perdevano, come i quattromila grattacieli di Shanghai, nel camouflage collettivo dei metronomi [del Poème symphonique] di Ligeti. Si disponeva delle parole, ma non si riusciva a organizzare il discorso. »[4]

Forse possiamo azzardare l’ipotesi che la distanza degli esiti progettuali milanesi dai felici recenti interventi europei, dipenda da questa interruzione in una ricerca lunga sul linguaggio e sulle forme dell’urbanità. L’architetto torinese Carlo Mollino aveva già intuito questo rischio nel rapporto con la tradizione dell’architettura italiana quando ci ammoniva: «La decadenza dell’architettura comincia dal giorno in cui si volle parere anziché essere, in cui si volle evadere verso l’espressione orecchiata di un mondo che non era più il nostro, quando con astratta e presuntuosa cultura, a differenza di quanto era nel cuore del Rinascimento, si volle risalire una tradizione. Da quel giorno l’architettura non ebbe più un volto; incapace di interpretare il suo tempo, incapace di far rivivere trasfigurati da un attuale sentimento quelli con tanta sicumera invocati.»[5]

Mollino scrive queste parole nel 1946, negli stessi anni in cui Luigi Moretti dirigeva i pochi e fondativi numeri della rivista Spazio, e in cui sperimentava, come vedremo, sul corpo della città nuove spazialità. Carlo Mollino e Luigi Moretti, nei loro scritti, ci hanno lasciato le parole per capire l’evoluzione, le variazioni e le integrazioni di un’idea d’architettura vista sempre in continuità con la storia, fatta dall’interno, dal suo essere nell’attuale: un tempo pieno di attualità, diceva W. Benjamin. Tutti i migliori progetti realizzati a Milano in quegli anni hanno questo forte carattere sperimentale, in cui la tradizione e il moderno non cercano di differenziarsi, bensì si declinano nei caratteri dell’urbanità del proprio tempo.

Il vocabolario descrive il termine urbanità come «Modo di comportarsi civile e cortese nei normali rapporti con altre persone», mentre l’urbanista tedesco Sieverts ci spiega che il concetto di urbanità si fonda «su un’immagine idealizzata della città borghese europea, nella sua articolazione dei secoli XVIII e XIX. […] nelle città abitate da borghesia illuminata. »[6] E ancora, forse più precisa sui caratteri architettonici, è la definizione di Françoise Choay, «urbanità è l’adeguamento reciproco di una forma di città costruita, e della sua configurazione spaziale, e di una forma di convivialità».[7]

Nel caso della città di Milano e dell’architettura del Novecento, questa urbanità è sicuramente voluta in alcuni importanti esempi, come il fuori scala dell’isolato urbano della Ca’ Brutta di Giovanni Muzio, in cui il grande blocco del condominio residenziale si spacca ad accogliere un tratto di strada interna, uno dei primi esempi in cui l’edificio stesso si fa città.

Ma forse l’esempio più chiaro dell’integrazione dell’architettura del razionalismo nella tradizione è rappresentato dall’opera di Giuseppe Terragni; quando costruisce Casa Rustici in Corso Sempione a Milano nel 1936 si trova a confrontare due idee di città: da una parte l’idea della città razionalista tedesca, cui si devono i due corpi di fabbrica paralleli, che seguono le prescrizioni dell’asse eliotermico, dall’altra la città tradizionale, che vedeva il fronte principale, il basamento e il cortile come i temi urbani imposti dal regolamento edilizio: la disposizione dei corpi di fabbrica, perpendicolari al grande boulevard urbano, sembra rispondere con decisione ai principi dell’orientamento, ma la rotazione dei due corpi si stempera poi nella ricerca di un’unità, di una compattezza si direbbe oggi, che l’orizzontalità delle terrazze tiene insieme e ricompone.

Prima della guerra la cultura razionalista di Casabella si esprime nel disegno dei grandi quartieri satellite delle case popolari, ripresi in seguito nei progetti manifesto della Milano Verde o della Città Orizzontale di Diotallevi e Marescotti. Nel dopoguerra questa esperienza apparentemente astratta si articola invece sull’intera città, ricostruendo i grandi brani distrutti dalla guerra: proprio questi progetti dei maestri milanesi, la cui coralità non fa che consolidare l’immagine severa della città operosa, possono essere letti come una serie di temi architettonici che interpretano l’urbanità dell’abitare in città, primo fra tutti il tema dell’altezza, strumento di controllo del contesto tramite la scala urbana.

Basti pensare al Quartiere Harar, alla variazione di scala tra il tessuto omogeneo delle case a patio e alla contrapposizione degli edifici in linea che si sviluppano in altezza: in questo progetto è presente quella sensibilità per i rapporti spaziali, quella modulazione, come la chiamava lo scultore Fausto Melotti, che sembra invece mancare alle sistemazioni più recenti.

Modulazione e articolazione spaziale: ci ricorda nuovamente Thomas Sieverts che vi sono tre tipi di densità: quella edilizia, che indica il rapporto tra suolo ed edificato, la densità sociale, e la densità apparente, che misura il grado di apertura visuale dello spazio.[8]

La ricerca di nuove spazialità caratterizza proprio gli studi di Luigi Moretti, e si realizza al meglio nell’edificio di Corso Italia, costruito nel 1955 a Milano, architettura tutta risolta nel gesto espressivo del rifiuto della strada del corpo alto in contrapposizione al basamento su cui appoggia, che invece ne ribadiva la continuità.

La soluzione morfologica trova anche nel linguaggio architettonico, che ci piace confrontare con gli sfalsamenti e le rotazioni dei migliori progetti di Asnago e Vender a Milano, una sua adeguata risposta.

E il pensiero non può non correre ai fotogrammi del cinema di Antonioni, girati proprio in queste architetture moderne milanesi, di cui usava la bellezza per parlarci della modernità e del disagio, della nostra impossibilità di sfuggire al fascino di quell’urbanità non voluta, in un’accettazione rassegnata della nuova scala urbana. Così come fecero Asnago e Vender accettando la densità della città del dopoguerra e realizzando nell’edificio di via Lanzone il confronto tra la scala della città antica su strada e la libertà del corpo del moderno verso il giardino.

Ognuno di questi architetti ha dato una risposta precisa a questa idea di città che si andava configurando, ognuno ne ha dato una declinazione particolare, scegliendo di lavorare sui temi dell’urbanità come revisione del moderno dall’interno, fino ad articolare una lingua elegante e raffinata, urbana e domestica allo stesso tempo, vivibile dal cittadino e dall’abitante. Hanno cioè saputo tenere insieme due poli apparentemente così uniti, ma anche così diversi, se analizzati nei loro statuti. La città, con le sue crude realtà economiche e funzionali, e l’architettura, con il suo carattere, i suoi materiali, il suo linguaggio.

L’hanno saputo fare in molti modi, con quella naturalità costruttiva che li pone in continuità con il carattere severo ed efficace che questa città possiede, ma sempre sapendo confrontarsi con le nuove strade indicate dalle sperimentazioni loro contemporanee.

Tutti questi esempi ormai famosi ci permettono di affinare lo sguardo con cui osservare le sperimentazioni più recenti, in cui anche il tema della strada, e tutte le sue variazioni fino alla soglia, è divenuta occasione per rompere i limiti dell’edificato, per stabilire nuove relazioni tra interno ed esterno.

Non si può dire, infatti, che gli architetti che hanno progettato e costruito i comparti residenziali che s’insediano nelle antiche aree industriali non abbiano ripreso alcuni temi che fanno parte del dibattito internazionale contemporaneo: primo fra tutti l’esigenza di un ritorno a un’idea di struttura urbana su cui tessere la trama della residenza. Anche la grande dimensione dell’impianto, il suo preciso disegno spesso integrato con spazi pubblici o parchi urbani, consolidano un positivo carattere di riconoscibilità rispetto alla dispersione morfologica con cui si confrontano. La densità notevole dei nuovi interventi trova la sua espressione architettonica nel ritorno all’isolato urbano come una struttura consolidata, salvo poi tentare timidi ammiccamenti nella rottura della cortina sul quarto lato.

Gli anni recenti, la dismissione di grandi comparti industriali ha riportato all’attualità non solo i concetti di trama, isolato, maglia stradale, dimensione del lotto, ma anche la loro definizione architettonica e i loro caratteri, approfondendo i temi della cortina stradale, dello spazio interno a corte, e riconfermando spesso quella divisione tra interno ed esterno, che la città moderna aveva cercato di smantellare.

C’è una serie di esempi che hanno tracciato una genealogia della stato attuale: esperienze interessanti ed articolate, come l’obbligo del recupero dell’isolato ottocentesco a Berlino o, in anni più recenti, l’îlot ouvert di Portzamparc o il progetto delle città olandesi di “nuova fondazione”. Pensiamo alle grandi isole intorno a Rotterdam o Amsterdam, come Ijburg, che si è rivelata una ottima occasione per una verifica operativa: con la scelta consapevole di una scala e di una trama urbana e della sua applicazione al progetto si è infatti saputo alludere ad un’idea di città da cui questa deriva, in una sorta di sineddoche particolarmente esplicita per il cittadino e l’abitante.

In un momento in cui l’urgenza della densità ci obbliga alla compattezza, queste sperimentazioni, così come il fondamentale ruolo del contrasto di scala di cui abbiamo parlato, permettono di ricavare le giuste “misure” su cui il progetto doveva essere impostato, e di suggerirne le sue possibili declinazioni e variazioni.

Recentemente anche la città di Milano ha affrontato questo tema in maniera esplicita: la nuova Commissione per il Paesaggio ha redatto in una breve cartella alcune sensate norme, utili appunto a “fare più città”[9]; tra queste possiamo vedere enunciato e auspicato il ricorso all’idea dell’isolato, dello spazio interno, nel riconoscimento dei caratteri positivi che questa morfologia necessariamente richiede ed evoca.

Certamente tutte queste esperienze sono indagini sui caratteri di una nuova urbanità, decisamente più consapevole rispetto alla frammentazione che ha prodotto una delle città diffuse più ampie d’Europa, realizzata senza controllo e in sordina negli anni settanta e ottanta; tuttavia gli esiti architettonici dei nuovi quartieri residenziali non ci restituiscono una loro interpretazione nel linguaggio architettonico.

Non è il caso di infierire sulla limitatezza degli strumenti messi in atto nell’esperienza dei Piani di Recupero Urbano (PRU) milanesi, si è voluto piuttosto cercare di inquadrare le domande che sarebbe stato bene che fossero poste, per individuarne alcune risposte operative da un lato nelle parallele esperienze delle grandi città d’Europa, dall’altro in un recente passato che vede concretizzarsi nelle figure dei maestri degli anni cinquanta di Milano un ventaglio di esperienze molto ricche e articolate, che meritano ancora di essere riconosciute.

I migliori esempi europei si offrono all’abitante come evocazioni di idee di città, invarianti urbane verificate nelle variazioni della contemporaneità, tramite l’affinamento di strumenti progettuali ben chiari. Scala, trama, strada, altezza, caratteri del domestico sono mischiati e rintracciabili nell’intera storia della casa e possiamo riconoscere come ogni periodo ha preferito utilizzarli. La specificità del contemporaneo, forse, è quella di sapere accettare più di una visione, di preferire l’approfondimento di un ventaglio di soluzioni per operare scelte da adattare al contesto e alla situazione, come dimostrano gli esiti certamente più interessanti di una nuova urbanistica, che ha trovato espressione nella realizzazione dei concorsi Abitare a Milano o nel recente lavoro sulla Strategia d’Intervento Locale del PGT.


[1] Dipartimento di Progettazione dell’Architettura del Politecnico di Milano.

[2] Aldo Rossi, L’architettura della città, Marsilio, Padova, 1966.

[3] Nel testo di Cerasi erano contenuti alcuni passaggi sul rapporto tra lo spazio, i vuoti e i suoi caratteri architettonici: alcuni concetti, come ad esempio l’unità stilistica, cromatica e percettiva, la tensione e il movimento, si offrivano come strumenti progettuali operativi, che sapevano articolare l’oggetto architettonico nel suo contesto, nel suo ambiente urbano.  Maurice Cerasi, La lettura dell’ambiente, CLUP, Milano, 1966.

[4] Bernardo Secchi, Villes sans objet: La forme de la ville contemporaine, Conférence Mellon CCA, 4 settembre 2008, p.2.

[5] Carlo Mollino, “Vedere l’architettura”, in «Agorà», settembre – novembre 1946, ora in L’architettura di parole. Scritti 1933-1965, Bollati Boringhieri, Torino, 2007, p. 284.

[6] «… designava più una forma di vita sociale e culturale, che la qualità di una struttura urbana o spaziale ben definita. L’urbanità sta a segnalare il comportamento aperto e tollerante dei cittadini, sia tra di loro che nei confronti degli stranieri. […] Invariabilmente contrapposta al provincialismo, l’urbanità evoca la conoscenza del mondo, l’apertura dello spirito e la tolleranza, l’acutezza intellettuale e la curiosità. » Thomas Sieverts, Entre-ville, une lecture de la Zwischenstadt, Editions Parenthèses, Marsiglia, 2004, p. 35-37.

[7] Françoise Choay, Le règne de l’urbain et la mort de la ville, in AAVV, La ville, art et architecture en Europe 1870-1993, Centre Pompidou, Parigi, 1994.

[8] Thomas Sieverts, Op. Cit., p. 44.

[9] “Edifici: Un’attenzione speciale è riservata alle soluzioni dei piani terra e dell’attacco al suolo, sia per gli aspetti formali che per le attività ospitate. Si vuole favorire il mantenimento e la rivitalizzazione dello spazio stradale, il progetto degli spazi a verde quando presente, la relazione eventuale con le costruzioni contigue in un rapporto non necessariamente mimetico. I processi in corso di sostituzione edilizia obbligano anche in questo caso a un’interpretazione dei contesti e alla consapevolezza che ogni singolo edificio concorre a determinare le componenti del paesaggio pubblico della città. Complessi di più edifici: Anche in questo caso si vuole indurre a fare ‘più città’ cercando quanto possibile di costituire spazi stradali pubblici, isolati, giardini, ecc. caratterizzati da permeabilità e interconnessioni con i quartieri circostanti. Verranno apprezzate le proposte che propongono i valori di prossimità, convivenza, coesistenza nel contesto di un’architettura urbana.” Pierluigi Nicolin, Manifesto degli indirizzi e delle linee guida della Commissione per il Paesaggio del Comune di Milano, verbale della seduta del 4 febbraio 2010.

Imágenes por palabras

¿Arcaico o moderno?

La primera imagen que aparece en el libro es una fotografía del patio del campo santo de Pisa que acompaña al frontispicio. Del resto de 51 imágenes que se publicaron a toda página en La experiencia de la arquitectura, tres de ellas representan el mismo sujeto (el Campo dei Miracoli de Pisa) que, junto a las cuatro tomas de la Acrópolis,[1] componen el núcleo central de un grupo más amplio compuesto de 16 imágenes dedicadas a la tradición culta, a los monumentos arcaicos, a Torcello y a la cartuja de Pavía. De hecho, podemos subdividir las numerosas imágenes del libro en unos pocos temas —la tradición culta, la tradición espontánea, el mundo otro, la vida personal y la modernidad— y pronto podemos constatar que también son 16 las representaciones de la tradición espontánea:[2] detalles de frágiles construcciones de madera, ornamentos artesanales, enlucidos grafiados con motivos infantiles, pequeñas casas en medio de unos prados en Escocia, una escalerilla y una pantorrilla esculpida por el trabajo en el campo. Intercaladas entre los escritos hay nueve imágenes dedicadas a Oriente y a tierras lejanas, cinco referencias a la vida personal (incluida la línea voluntaria del amigo Saul Steinberg) y solo cuatro ilustraciones dedicadas a la arquitectura moderna (dos fotografías aéreas de Nueva York, una de una obra de Frank Lloyd Wright y otra de Ludwig Mies van der Rohe).[3] La última imagen del volumen cierra el relato fotográfico de una vida: la torre Velasca en la “atmósfera de Milán”.[4] Entre estas imágenes, muchas son encuadres de detalles, de pormenores escogidos y algún que otro rostro (el autorretrato de Giuseppe Pagano, un bebé japonés, los ojos y la boca de un Buda camboyano que aflora entre lianas esculpidas en la piedra). Durante muchos años, el título provisional que Ernesto Nathan Rogers dio a este libro fue La conquista della misura umana [La conquista de la medida humana].[5]

¿Arcaico o moderno? Ernesto Nathan Rogers —el divulgador más importante del movimiento moderno de la posguerra italiana, el representante italiano de los CIAM y el intelectual que nos enseñó a apreciar la nueva arquitectura— escogió para ilustrar el volumen que recoge el corpus más importante de sus escritos estas imágenes concretas, instantáneas de lugares sin autor y sin tiempo,[6] encuadres queridos y ya utilizados anteriormente que lo acompañaron en sus experiencias editoriales en las revistas Stile, Domus y Casabella-Continuità.[7] Se presenta también el más bello de los observatorios astronómicos construido por Jai Singh a la escala universal de su claridad geométrico formal, sin necesidad de comentarios adicionales. La iconografía de la modernidad se completa, a su vez, en un segundo nivel, más explícito, de las páginas verso que contienen más imágenes, pies de fotografías y textos explicativos, donde encontramos las elecciones precisas que Rogers compiló sobre la modernidad: los maestros, pero también, y ante todo, los precursores, los “fundamentales”.

Pero volviendo a las imágenes a toda página de La experiencia de la arquitectura, comprobamos que las ilustraciones anteriormente descritas no vienen acompañadas de pies de fotografías, y que las leyendas aparecen en las páginas siguientes, como escondidas. Es como si Rogers quisiera darnos el tiempo para establecer con el objeto una relación inmediata, pura y sin filtrar por los condicionamientos culturales.[8]

Imágenes por palabras

Al pasear por la vasta producción editorial de Ernesto Nathan Rogers, se observa cómo en todos los textos el uso de las ilustraciones está construido a causa de un discurso más amplio, una especie de repertorio subliminal que ofrece diversos niveles de lectura, desde un primer significado explícito, pasando por alusiones hasta llegar a tejer una trama de las relaciones que se establecen entre más imágenes.

La libertad en la sola interpretación de una representación fuerte de la regla de la proximidad[9] alude a un proceso creativo proyectual que no puede ser dicho. Justamente “imágenes por palabras”[10] que desvelan el discurso secreto, el trabajo paralelo que Rogers llevó a cabo con la iconografía.

Las obras que Rogers escribió o que dirigió, como las revistas, están compuestas de materiales heterogéneos que tienen su origen, ante todo, en ocasiones especiales, como también lo tiene su obra más importante, la recopilación de ensayos La experiencia de la arquitectura. Como bien ha subrayado Francesco Tentori,[11] no estaba en los planes de Rogers escribir un texto teórico redondo, un tratado, sino, más bien, algo más coherente con su carácter y que aspiraba a transmitir documentos para la formación de un pensamiento: fotografías, arquitecturas, dibujos, materiales seleccionados del refinado gusto del autor que, en su conjunto, trazan una idea de arquitectura precisa, listos para ser ofrecidos y reinterpretados para su uso por parte del lector.[12]

En la relectura comparada del aparato iconográfico de apuntes, libros y revistas, se vuelven manifiestos los múltiples modos de utilización de las imágenes que lleva a cabo Rogers: pueden ser los papeles estampados en bicromía de los sumarios de Casabella-Continuità, las texturas gráficas que se transforman en buenos educadores del gusto, pero también las imágenes símbolo, que utilizó a lo largo de los años para acompañar diversos textos (como es el caso de la escultura El comienzo del mundo de Constantin Brancusi).

Su montaje no quiere imponer, sino sugerir “relaciones y significados”[13] que el sujeto sabrá captar, como bien ha descrito Salvatore Veca, discípulo de Enzo Paci, cuando confirma estos binomios de Rogers entre personal y subjetivo, y racional y objetivo.[14] Si en su univocidad la palabra escrita obliga a dirigirse hacia el pensamiento objetivo, la libertad de las imágenes compensa el aspecto subjetivo.[15]

Y tan elegantes fotografías en blanco y negro pueden gritar su sufrimiento y su pertenencia a un mundo cambiante, con la obligación de vivirlo que impone la inteligencia, pero con un deseo explícito de otros tiempos. La conciencia íntima de ser un hombre de su tiempo obliga a Rogers a hablar del movimiento moderno, pero su gusto por la “revolución de las formas” lo retrotrae a sus verdaderas pasiones.[16]

Ojos que ven

En 1927, año en que se matricula en el Politecnico di Milano, los ojos del joven Ernesto se ven obligados a enfrentarse día a día, debajo de su casa en la Via Serbelloni, con las obras de uno de los edificios residenciales más increíbles de Milán, aquel que ese mismo año acabó de construir Aldo Andreani en el complejo de Via Mozart. Se trata de un edificio anómalo donde la fuerza de la materia de la arquitectura, que en este caso se expresa por el almohadillado del revestimiento de travertino, en su desgarrarse y desmontarse, se convierte en una especie de testimonio en voz alta del sufrimiento del volumen edificado, una deconstrucción ante-litteram de la forma clásica que en la parte superior del edificio se presenta casi desnuda, casi como si demostrara la liberación del lenguaje clásico que la modernidad había logrado. Esta es la imagen que tenía el joven Rogers en sus ojos cuando se encontraba en los pupitres de la escuela estudiando el nuevo racionalismo,[17] cuando decidió matricularse en la Facultad de Arquitectura, y es justamente esta una de las primeras imágenes que representa un tema que, como veremos más tarde, será tan querido para él: en sus cualidades físicas concretas, esa arquitectura representaba el tema de las formas inacabadas, en transición, de las nuevas formas de la modernidad que luchaban fuertemente contra la belleza antigua para encontrar su propia expresividad. El joven triestino, maestro durante la posguerra del manierismo moderno, alcanzó su madurez enfrentándose a uno de los mejores ejemplos de arquitectura en los que la ambigüedad de la fascinación del lenguaje antiguo choca con la obligación de su superación.

Siendo aún un joven estudiante de arquitectura, Rogers se encontró pronto con que tenía que entregar una tesina sobre arquitectura. Es interesante observar cómo se decantó por acompañar la parte escrita de la tesina de un “relato fotográfico” donde recogía unos escasos comentarios escritos a pluma en unas páginas en las que dos o más fotografías establecían relaciones entre sí. El valor simbólico que se le atribuyen a las ilustraciones se manifiesta en una de las primeras páginas, donde un recuadro en blanco con un pie de ilustración reza: “Esta locomotora nos hace sonreír”. Es así como el joven estudiante nos muestra cómo la imagen —una locomotora cualquiera al fondo— le sirve para explicar la feliz intuición, casi inconsciente, de la importancia fundamental de la estrecha relación de la técnica con su tiempo, de su destino fugaz en contraposición a la continuidad de la construcción de la historia.

En los primeros artículos del joven Rogers para la revista Quadrante aparecen algunas ilustraciones que en los años sucesivos formarán una constelación de referencias, detalles y símbolos (como un fragmento de un antiguo techo de madera). Sin embargo, fue en Stile —un fascículo ilustrado de Domus realizado en 1936 con quienes serían sus compañeros de vida, los miembros del estudio BBPR— donde el control de las imágenes y de sus relaciones presenta ya una madurez. La figura humana, que en un principio era arcaica, pasa a ser una multitud que habita el espacio de la arquitectura pública y que se presenta como el tema dominante. Entre la elegancia de la superposición de unas imágenes estampadas en papel satinado cuya sumatoria consigue una nueva síntesis iconográfica, aparece la sección vertical del Coliseo romano, una de las figuras que lo acompañarán hasta 1961, año de publicación de su libro Gli elementi del fenomeno architettonico. El hombre, medida y proporción, la materia constructiva de la arquitectura y la relación con la naturaleza, encuentran, pues, su representación ordenada en Stile,[18] un fascículo sin texto donde las imágenes son las protagonistas.

Después de lo anónimo

Al finalizar la II Guerra Mundial, cuando Rogers asume la dirección de la revista Domus, revista que había fundado Gio Ponti, el entusiasmo y el “brío” del joven arquitecto fueron barridos de su vida. De nuevo, la selección de las imágenes da cuenta de la personalidad del nuevo director, de su compromiso, su conocimiento y, al mismo tiempo, de lo concreto de hilvanar un discurso construido de “preguntas”, de temas narrados a través de una imagen: el descuidado globo aerostático que muestra la fragilidad de progreso de la técnica, pero también el jarrón arcaico y sus dos rayas que introducen el tema de la decoración. Rogers escribe: “¿Qué son estas dos rayas? Se convierten en sencillas marañas, volutas, abultamientos, hojas, dragones, monstruos […] que transforman lo accidental en sustancial”. Este pequeño jarrón persa de hace cinco mil años, utilizado para citar el “Ornamento y delito” de Adolf Loos, se empareja con el huevo de Constantin Brancusi, con el “antes de la forma”.

Cesare Macchi Cassia[19] ha definido la pasión de Rogers por las formas de principios del siglo xx, por el movimiento de las líneas de los estilos liberty y art nouveau o por las incertidumbres del protorracionalismo, como la atención a un momento preciso, a “cuando se produce la revolución de las formas”, poniendo de manifiesto la libertad y la potencialidad de figuras todavía indecisas, en formación, formas que todavía no están congeladas en los espléndidos iconos infrautilizados para pensar lo nuevo, lo otro. Podemos hablar de forma y de formación, pues el propio Rogers mostraba interés en la didáctica del acto creativo, en el aspecto metodológico que habían trasmitido las grandes escuelas europeas. En los pocos números que dirigió de Domus (la casa del hombre) encontramos a Walter Gropius y a Max Bill, representantes respectivamente de la Bauhaus y de la Hochschule für Gestaltung de Ulm, y de una pedagogía de las artes plásticas donde se habla de método en oposición a la forma,[20] pero sin por ello renunciar a la belleza de la continuidad formal de las esculturas de Max Bill, cuyas ilustraciones acompañaban al texto.

Los primeros años de Casabella-Continuità

Ernesto Nathan Rogers dirigió Casabella entre 1953 y 1964, once años de una importante experimentación sobre la composición de la ilustración, en los que se que se pasa de una portada blanca a una de denuncia. Al leer el contenido de la revista, que abarcaba desde argumentos teóricos de la disciplina hasta las secciones de detalles de los últimos edificios construidos en la ciudad, silenciosamente uno se veía acompañado por un comentario decorativo.

Los primeros 24 números no tienen ninguna imagen en portada; solo varía el color de la nueva pareja de palabras en sus posibles variaciones de encaje: casabella y continuità.[21] La carga anticipatoria de los contenidos se asumía, pues, en el frontispicio, de modo que el papel sobre el que se imprimía el índice llevaba una imagen a menudo abstracta y reducida a un fuerte signo gráfico, un fragmento irreconocible de una referencia querida, poco importaba si era una obra de Louis H. Sullivan o una decoración tradicional noruega. El fascículo se componía de otros tipos de papel: el papel cuché para los artículos en blanco y negro, la pobreza del papel de colores para las reseñas y la agenda, la preciosa cartulina separable de colores para los personajes queridos, como Auguste Perret o Alessandro Antonelli, esta última con el fin de fomentar el estudio de estos arquitectos. Sería demasiado largo referir los numerosos relatos que nos susurran las imágenes de Casabella, y quizá el propio Rogers no aceptaría la reducción de su ostentación; me permito, pues, detenerme solo en los aspectos más evidentes.

Es bien sabido que Casabella era el lugar donde se publicaban los maestros del movimiento moderno, su tendencia en la alta cultura de la profesión italiana, así como la precisa documentación de tradiciones y culturas en extinción. Sobre todo en los primeros años, Rogers escoge su movimiento moderno, y escoge relatarlo desde un punto de vista particular.

Las imágenes muestran edificios en escorzo insertados en el contexto, como si se hubiera hecho un zum a las particiones de la fachada, donde la arquitectura ya no aparece legible en su totalidad. De nuevo el detalle constructivo, lo particular y, al mismo tiempo, lo universal, el contexto: el detalle es el instrumento para entender los refinados grosores de Auguste Perret y Louis H. Sullivan, para hacerlos intuir la fascinación de lo informe de Antoni Gaudí, pero también para comunicar la realidad constructiva de la tradición arquitectónica de un muro antiguo. Y el pensamiento corre parejo a las magníficas fotografías de Werner Bischof,[22] a esa cantidad de cloruro de plata utilizada para exaltar el uso del detalle y explicar lo general, para no caer en la falta de perspectiva, en la ausencia de futuro en la unicidad del conjunto. Será el carácter abstracto de estos fragmentos de arquitectura lo que permita plasmar su posible montaje en una nueva arquitectura.

Sin embargo, la fotografía no es diseño gráfico, y cada vez más nos percatamos de que Rogers utilizó los detalles fotográficos sobre todo por su aspecto matérico.

Para Rogers la acepción particular de todo arquitecto moderno estaba comprendida justamente en la confrontación con un tiempo y con un lugar. “Todo momento se inserta en el drama de la existencia y no puede considerarse una entidad abstracta”, y la materia era el instrumento para la representación de un momento histórico. De este modo, cuando sostenía que “en el caso de la modernidad, podemos hablar de un proceso de estilización”, con ello quería subrayar la fase en la que, a través de la materia, el carácter encuentra su expresión formal en una cultura concreta, en el tiempo y en la personalidad que los interpreta. Será precisamente la especificidad de la construcción de la materia lo que libere a la forma de la absurda banalidad de su repetición y lo que obligue a cada nuevo artista a descubrir las relaciones inéditas entre forma, materia y significado.

De este modo, Rogers, arquitecto observador, fue un estudioso preciso de formas y escalas del proyecto y de su posibilidad matérico constructiva, pero sobre todo un pensador que ofrecía los materiales de la historia a las poéticas de los futuros arquitectos. No es casualidad que a menudo la imagen protagonista de sus ensayos fuera una muy querida por Rogers,[23] una fotografía de un muro de la Acrópolis de Atenas —que se publicó tanto en Casabella como en La experiencia de la arquitectura—, una imagen a la que parece natural asociar sus propias palabras: “Los objetos pasan a ser antiguos cuando han superado el hecho de ser viejos, pero se trata de una cualidad de unos pocos ejemplos seleccionados. Cuando pasan a ser antiguos, vuelven a convertirse en patrimonio actual y podemos hacer un uso práctico y un consumo cultural cotidiano”.[24]

Cierre de la experiencia

Parece ya delineado el recorrido que llevó a los temas de las imágenes que aparecen en el libro La experiencia de la arquitectura, algunas de las cuales ya son familiares. Rogers ya ha anticipado algunos resortes aquí y allá —como la querida arquitectura urbana de los Uffizi en el famoso artículo sobre la decoración que se publicó en el número siete de Quadrante, o el jarrón arcaico persa o la escultura de Brancusi publicados en Domus—, pero en este caso las encontramos montadas finalmente en un discurso completo. Análogamente a su teoría construida a trozos, a base de textos escritos ya preparados, en el aparato iconográfico Rogers también utiliza imágenes cargadas de significado. Si es posible intuir que se utiliza lo arcaico para narrar la materialidad de la arquitectura, Oriente para subrayar la lentitud de los procesos evolutivos y los detalles para enseñarnos las técnicas constructivas, ahora puede entreverse la estructura del tratado construido con las imágenes.[25]

Es así como se cierra el círculo. En 1958 sale a las librerías italianas el libro Esperienza dell’architettura, el mismo año en que se acaban las obras de la torre Velasca y en que la revista Casabella-Continuità da un cambio de dirección decisivo con una periodicidad mensual, la inclusión de imágenes en portada y los números monográficos, pero sobre todo con el nuevo papel que se otorga a los jóvenes redactores jefe Aldo Rossi y Francesco Tentori.[26] La nueva revista será igualmente fascinante y algunos de sus números marcarán el paso de la cultura arquitectónica italiana. Tentori llevará adelante el discurso sobre las imágenes con un corte completamente personal; basta pensar en las tres actrices que aparecen en el número 251 —el mordisco de Anna Magnani en Rosselini, la fuga de Alida Valli en Visconti y la crisis de Monica Vitti en Antonioni— para acercar Alberto Burri a Vittoriano Viganò y Giuseppe Capogrossi a Gio Ponti. No obstante, los intereses son otros: las demandas de la nueva sociedad y el redescubrimiento de la complejidad de la idea de ciudad de Aldo Rossi o Guido Canella. Volvemos a leer hoy la lúcida interpretación que nos ha facilitado Ezio Bonfanti[27] de aquel momento e intuimos que la completa, impredecible y sorprendente apertura de Rogers se ha acabado;[28] esta se cierra con la selección de una forma para la ciudad, la torre Velasca, con la mitificación de su pensamiento en un libro, con la aceptación de la violencia formal de los alumnos, con la ocupación de su Casabella por parte del centro de estudios. Rogers se sacrifica para que otros crezcan.

Quien conoció a Rogers después de este fatídico año no tuvo el honor de estar en contacto y de aprender, pues, de esta mente abierta. Algunos se retirarían a las tierras vénetas, otros acabarían aprovechándose de esta enseñanza para la propia poética personal, aunque no del método didáctico privado de formas impositivas que Rogers había valorado de Walter Gropius.

Nadie puede decir cómo Rogers vivió esos últimos años. Por última vez, podemos mirar juntos otra imagen que nos ha dejado, la fotografía de su casa,[29] un pequeño apartamento en el corazón de Milán donde una concatenación de estancias alejaba al huésped del estudio privado. Sobre el escritorio de trabajo había materiales diversos —una pluma Parker, libros y recolecciones de pensamiento europeo—, pero también, sobre todo, utensilios atemporales venidos de lejos, de China o de Japón.[30] Ya se ha mencionado la importante cantidad de imágenes dedicadas a Oriente que acompañan su libro; en este caso volvemos a encontrar el carácter de continuidad y utilidad de pinceles, cuadernos, tijeras y cuencos lacados que forman la casa del hombre.


[1] ¿No serán quizás el campo santo de Pisa y la Acrópolis de Atenas un homenaje a los ojos de los viajes de juventud de Le Corbusier, a su capacidad de, a través de los bocetos y las fotografías, ver en lo arcaico la gran lección de la arquitectura?

[2] “Deben establecerse las relaciones entre la tradición espontánea (popular) y la culta para soldarlas en una única tradición”. Rogers, Ernesto Nathan, “La responsabilità verso la tradizione”, en Esperienza dell’architettura, Einaudi, Turín, 1958 (versión castellana: “La responsabilidad frente a la tradición”, en La experiencia de la arquitectura, Nueva Visión, Buenos Aires, 1965).

[3] Así completó la presentación de sus cuatro maestros “oficiales” —Frank Lloyd Wright, Mies van der Rohe, Le Corbusier y Walter Gropius—, este último presente por la ausencia de imágenes, en el papel de educador que Rogers le reserva, le impone. “De Gropius he sacado los rasgos del planeamiento pedagógico, que es de carácter metodológico. En arquitectura no existe un punto terminal; solo existe una mutación ininterrumpida”. Rogers, Ernesto Nathan, “Elogio dell’architettura”, en Nel centenario del Politecnico di Milano. Conferimento delle lauree honoris causa ad Aalto, Kahn e Tange, Milán, 4 de abril de 1964.

[4] Así reza el largo pie de la fotografía de la torre Velasca, que en este caso se encuentra en la página precedente. Bajo el título de “Testimonianza concreta” [“Testimonio concreto”], Rogers habla de síntesis cultural, de carácter y expresión decorativa de su arquitectura, de “lenguaje actual, insertado como una imagen en la continuidad de la tradición; es decir, completamente creado”. Una ocasión más que confirma el papel de la palabra ‘imagen’ como instrumento para contextualizar el pensamiento proyectual en su tiempo preciso. Rogers, Ernesto Nathan, La experiencia de la arquitectura, op. cit.

[5] De hecho, esta fue la primera propuesta de título que se hizo a la editorial Einaudi en 1951, título que coincidía con el del pabellón que el propio Rogers comisarió en la IX Trienal de Milán de ese mismo año, una pequeña exposición que constaba únicamente de fotografías. La única traza que queda del título original es el diseño de la cubierta que representa una serie de secciones horizontales de la figura humana.

[6] “En 1903, en un viaje por Grecia y por el Mediterráneo, la belleza de los templos hace que vea claramente la importancia del mundo de las formas de época pasadas cuando estas no se retoman como elementos ya resueltos, sino como elementos vitales susceptibles de desarrollo. Más adelante desarrollará este concepto de la vitalidad de la tradición en oposición al academicismo en los libros Vom neuen Stil (1907) y Essays (1910)”. Rogers, Ernesto Nathan, “Henry van de Velde, o dell’evoluzione”, Casabella-Continuità, núm. 237, marzo de 1960.

[7] Stile fue un interesante fascículo ilustrado editado por los jóvenes recién licenciados Lodovivo Belgioioso, Gian Luigi Banfi, Enrico Peressutti y Ernesto Nathan Rogers en 1936 para la revista Domus. Rogers fue director de Domus entre 1946 y 1947, y de Casabella-Continuità entre 1953 y 1965.

[8] Nos referimos a la edición del libro publicada en italiano por la editorial Einaudi en 1958.

[9] Resulta difícil resistirse a la tentación de una comparación con el Bilderatlas Mnemosyne de Aby Warburg y de la libertad de asociación que proponía en sus famosas láminas recorrido por los temas de la Antigüedad y su continuidad en el mundo occidental.

[10] Parafraseando el título del libro de Michael Baxandall, Words for Picture: Seven Papers on Renaissance Art and Criticism (Yale University Press, New Haven/Londres, 2003; versión italiana: Parole per le immagini. L’arte rinascimentale e la critica, Bollati Boringhieri, Turín, 2009), el autor sostiene: “Palabras referidas a las obras de arte, palabras que las representan, palabras que hablan en su nombre, que constituyen el fundamento o que en algunos casos las sustituyen”.

[11] Tentori, Francesco, “Il concetto di continuità”, en Ernesto Nathan Rogers: testimonianze e studi – QA15, Clup CittàStudi, Milán, 1993.

[12] “Se cree que nuestra formación, aun siendo posromántica, coloca al creador como uno de los factores de la obra, de la que el otro es usufructuario. En cada gesto nuestro se abre una actividad dialéctica inacabada, pero necesariamente indefinida, que cada uno debe cumplir, de la que servirse o a la que venerar”. Rogers, Ernesto Nathan, “Elogio dell’architettura”, op. cit.

[13] “Un proceso de formas posibles que se abren a nuevas relaciones”. Paci, Enzo, Relazioni e significati, Lampugnani Nigri Editore, Milán, 1965. Es conocida la influencia que tuvo en Rogers el pensamiento fenomenológico de su amigo Enzo Paci.

[14] Veca, Salvatore, “In ricordo di Enzo Paci, il filosofo e l’architetto”, en QA15, op. cit.

[15] “Esta es la palestra de opiniones: se presentan las manifestaciones del fenómeno arquitectónico como propuestas, no como conclusiones que hay que aceptar o rechazar”. Rogers, Ernesto Nathan, “Necessità dell’immagine”, en Casabella-Continuità, núm. 282, 1963.

[16] “La arquitectura por la arquitectura no tiene sentido, como tampoco lo tiene ninguna acción humana que se cierre en una tautología”. Rogers, Ernesto Nathan, “Elogio dell’architettura”, op. cit.

[17] Como es sabido, en aquellos años Ernesto Nathan Rogers cultivó sus primeras ideas al asistir a las clases de filosofía que Antonio Banfi impartía en el Liceo Classico Parini de Milán.

[18] “El estilo es el modo en que se expresa el carácter”. Rogers, Ernesto Nathan, “Carácter y estilo”, en La experiencia de la arquitectura, op. cit.

[19] Matilde Baffa las ha llamado “formas alusivas”. Dada la extensión de la intervención, me ha parecido natural oír las voces de Cesare Macchi Cassia y de Matilde Baffa, personajes cercanos a Rogers por aquellos años. Por otro lado, Giovanni Marras las define como “formas en proceso”, en La città come testo. Autonomia del linguaggio architettonico e figurazione della città, tesis doctoral, IUAV, Venecia, 1992.

[20] “El problema de imprimir formalidad a la arquitectura, proyectando contra el formalismo”. Canella, Guido, “Per Ernesto Rogers”, en L’insegnamento di Ernesto N. Rogers, tesis doctoral, IUAV, Venecia, 1984.

[21] Si las primeras dos expresivas portadas de la revista se muestran el edificio Seagram de Mies van der Rohe y un boceto de Le Corbusier; en la tercera, una elección de Mario Ridolfi, se anuncia el enfrentamiento con la nueva arquitectura italiana.

[22] “Aquello que distingue la obra de Werner Bischof es esta cualidad de desvelar a través de los detalles el significado universal de las cosas en la acepción humana más densa: la continua participación del acto estético con la simpatía de todos los sentimientos, de modo que esa no es solo un álbum de hermosas imágenes, sino un documento de la historia de los hombres”. Rogers, Ernesto Nathan, “Architettura e fotografia”, en Casabella-Continuità, núm. 205, abril/mayo de 1955.

[23] Así lo confirma Matilde Baffa al describir el período en el que ayudó a Rogers a reunir el aparato iconográfico del libro que publicó la editorial Einaudi en 1958. La joven colaboradora estaba preocupada porque cada mañana Rogers la tranquilizaba con una sonrisa diciendo que no había cambiado nada, mientras que en realidad había dado la vuelta al orden establecido el día anterior. De hecho, todas las tardes Rogers volvía a cambiar, a añadir y a corregir las imágenes por sus palabras.

[24] Este es el incipit de Rogers en el artículo de 1964 “Le Corbusier”, en Editoriali di architettura, Einaudi, Turín, 1968. La recopilación de los editoriales apareció publicado cuando Rogers estaba ya muy enfermo, razón por la cual el libro carece de ilustraciones.

[25] En la solapa de la portada aparece: “En la selección de las ilustraciones, ellas mismas quieren ser discurso, diálogo con el lector, cultura que se convierte en imágenes”.

[26] Vittorio Gregotti, quien había trabajado durante muchos años junto a Rogers en Casabella, pasó a ser el director de la revista Edilizia Moderna.

[27] Bonfanti, Ezio, “Una rivista”, en Bonfanti, Ezio y Porta, Marco, Città, museo e architettura, Vallecchi, Florencia, 1973.

[28] “De él hemos aprendido a eludir pretender decir de una forma unívoca el ser […], que hay que buscar y amar”. Tintori, Silvano, “Rogers ovvero l’elogio dell’incertezza”, en QA15, op. cit.

[29] Spinelli, Luigi, “Milanese Singles. L’appartamento privato di Ernesto Nathan Rogers”, Domus, núm. 925, mayo de 2009.

[30] “En el mundo clásico […], la figuración se perfecciona como la forma de una piedra pulida por el agua. Lo mismo puede decirse de las arquitecturas china y japonesa, que evolucionan más por un refinamiento secular de los signos que por una marcada mutación de las imágenes”. Rogers, Ernesto Nathan, “Mutazioni collettive e individuali”, en Elementi del fenomeno architettonico, Marinotti, Milán, 2006. En la edición original de 1961, las imágenes se reúnen de una forma estéril bajo “láminas”.


Asplund


Moretti, Torroja

CASE STUDIES

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HOUSING PRIMER

Primer, l’abecedario utilizzato nelle scuole primarie inglesi, è il titolo che Alison Smithson diede alla raccolta dei saggi del Team 10. Se l’edificio pubblico e il suo
carattere oggettuale hanno caratterizzato il recente lavoro delle archistar, è in realtà nel lavoro costante sulla residenza che le recenti esperienze europee hanno saputo declinare con ampio respiro un programma urbano concreto e ricco di significato. Vogliamo dunque riprendere oggi quello stesso titolo con l’intenzione di proporre una lettura critica della produzione architettonica residenziale più recente, con l’ambizione di proporre chiavi interpretative a partire da tematiche propriamente urbane.
A differenza del metodo di classificazione puramente accumulativo espresso da molta manualistica contemporanea, che vede nella casistica una risposta alla  complessità del reale, il nostro lavoro si prefigge di verificare se e come tali esperienze recenti possano essere ricondotte ad un numero limitato di principi, sia insediativi che morfologici, sia sociali che tipologici, se esse continuino consapevolmente a fare città e quali strategie progettuali vengano messe in atto a questo fine. Escludendo cioè di rassegnarsi alla pura forza evocativa del singolo intervento, si propone di verificare le possibilità di un rinnovato legame tra sperimentazione architettonica e realtà urbana. Il lavoro di ricerca è stato impostato a partire dalla schedatura di 200 case studies, le planimetrie dei
quali compongono l’Atlante Urbano della Residenza che conclude il volume.
La prima parte del volume affronta i caratteri dell’urbanità nel linguaggio dell’architettura della casa, con uno sguardo che cerca di metterne a fuoco gli strumenti interpretativi e progettuali. Le variazioni di scala, il ritorno alla scacchiera urbana, una certa disinvoltura tipologica, la ricerca dell’altezza giusta, ma anche le declinazioni della domesticità nella disposizione urbana e nei caratteri costruttivi, identificati nella produzione contemporanea, diventano i ferri del mestiere per un lavoro di progettazione spesso ispirato, nonostante le apparenze, a un senso di continuità e a un uso concreto dell’esperienza storica.
La seconda parte del volume affronta invece la questione dal punto di vista dell’abitante, verificando quanto la casa sia ancora il luogo deputato alla costruzione di
una narrazione formale, sociale e personale significativa e quali siano in questo senso gli strumenti progettuali adeguati. Nella convinzione che esista una relazione tra le forme che l’abitare può assumere e i significati che sottende, viene indagata quella terra di confine, quel punto critico, in cui le due polarità di base su cui si fonda ogni idea di casa, home e house, si toccano, si sovrappongono, si mettono reciprocamente in crisi.
La ricerca nasce da una consuetudine di lavoro insieme, a scuola e non solo, ma anche, da una passione condivisa che all’architettura aggiunge la curiosità,
l’apertura e il confronto con le altre discipline artistiche, nonché la passione di viaggiare, di andare a vedere di persona, di camminare con i nostri studenti dentro i
luoghi dell’abitare che ci siamo presi la briga di studiare.
B.M., S.P.

Il lavoro di ricerca si completa con la schedatura di 200 case studies, le planimetrie dei quali compongono l’Atlante Urbano della Residenza che conclude il volume; le schede complete, con disegni in scala ed immagini a colori, sono contenute nel cd allegato.

Pictures for words

Archaic or modern?
The first is a photograph of the court of the Campo Santo at Pisa, which accompanies the frontispiece. Of the other fifty images that are published full-page in Esperienza dell’architettura, other three represent the same subject, the Campo dei Miracoli in Pisa; with the four shots of the Acropolis [1] make up the core of a larger group, composed of sixteen pictures taken from the classical tradition, the monuments of the archaic, in addition to Torcello or Pavia. Indeed, we can divide the number of pictures in the book in a few themes: scholarly tradition, tradition spontaneous, other cultures, personal life and Modern, to see immediately that there are sixteen representations of tradition also spontaneous [2] , details of fragile wooden buildings, decorative crafts, plaster graffiti in a childlike way, small houses surrounded by lawns in Scotland, a ladder and a calf carved from work in the country. To stagger the writings there are also nine images dedicated to the East and distant lands, five personal references, including the strong-willed line of the friend Steinberg, and only four are devoted to modern figures, two photos from New York and two works by Frank Lloyd Wright and Ludwig Mies van der Rohe [3] . A final image closes the photographic story of a life in the Torre Velasca atmosphere of Milan [4] . Among these images a lot of detail shots, and some faces: the portrait of Giuseppe Pagano, a Japanese boy, eyes and mouth of a Buddha that emerges from cambodian vines carved in stone. For many years the title given by Rogers for this book was the conquest of human scale [5] .

Archaic or Modern? The most important speaker of the modern movement in postwar Italy, the friend of the masters of CIAM, the intellectual who taught us to appreciate the New Architecture, chose to illustrate the book containing the corpus of his most important writings with these images so particular, shots of places without author and without time [6] , loved and used the shots, who accompanied him through the experiences of “Style”, “Domus,” and ” Casabella Continuità ” [7] . The most beautiful astronomical observatory built by Jai Singh shows the universal scale of  its clear geometric form, without further comment. The iconography of the modern is completed  in the second level, the more explicit, of the verso pages, mounted with multiple images, captions and explanatory texts, where we find the specific choices made by Rogers on the Modern: the Masters, but also, importantly, the precursors, the primordials.
Let us return to the full-page images of Esperienza dell’architettura and find that the illustrations above are not accompanied by captions and that the legends appear on the next page, we may almost say hidden, as if Rogers wanted to give us time to establish with the object represented an immediate relationship, pure, unfiltered by cultural conditioning [8] .

Pictures for words
Moving between the vast editorial production of Rogers, is seen as in any text, the use of illustrations is made in favor of a wider discourse, a kind of subliminal repertoire that offers different levels of reading, from a first explicit meaning, through allusion, to uncover the web of relationships that are established between multiple images.
The freedom of interpretation of a presentation made strong only by the  rule of a good neighbor [9] alludes to the creative process design that can not be said. Pictures for words [10], in fact, to reveal the secret speech, the parallel work conducted through the iconology.
The works written or directed, such as magazines, are composed of heterogeneous materials Rogers, born mainly from specific occasions. The most important text, Esperienza dell’architettura, is a collection of essays, as well stressed Francesco Tentori [11] , is not fitting  to Rogers the idea of writing a theoretical text, a treaty.It is rather more in keeping with his character’s aspiration to give documents to form a thought: photographs, architectures, design, materials selected from the refined taste of the author, which together draw a precise idea of architecture, ready to be offered and reinterpreted from the reader [12] .
In the comparative reading of the imaging apparatus of notes, books and magazines, are clear the many ways to use images of Rogers: could be the two-color cards printed summaries of “Casabella Continuità “, graphic textures that become kind educators of taste, but can also be symbolic images, used to accompany texts in different years, as with Constantin Brancusi’s sculpture, Le commencement du monde.
Their assembly want to suggest and not to impose: relationships and meanings [13] that the subject grasps, as well described by Salvatore Veca, a student of Paci, when he confirms this double meaning of Rogers work between personal, subjective and rational, objective [14] . If the written word, in its uniqueness, forces to move towards the objective thought, freedom of the image compensates the subjective [15].
So elegant black and white photographs can scream their suffering and their membership in a changing world, with the obligation to live that intelligence requires, but with an explicit desire for another time. The intimate knowledge of being a man of his age forces him to speak of the modern movement, but his taste for revolution in the forms back to his true passions [16] .

Eyes that see
The eyes of the young Ernesto in 1927, when he enrolled at the Polytechnic of Milan, are forced to confront every day, the house in Via Serbelloni which was then living, the site of one of the most incredible houses in Milan, the finite to build in that year by Aldo Andreani in the complex via Mozart: an unusual building, where the strength of the field of architecture, expressed here by the massive rusticated marble coating, becomes, in his torn and dismount, a sort witness in a loud voice of the suffering of the body construction, a pre-term was invented deconstruction of classical form, which at the top of the building is now bare, as if to prove the liberation accomplished by the modern language code, this is the image that the young Rogers in the eye when the classroom is to study the new rationalism [17] and decided to join the faculty of architecture. And it is this one of the first image that represents a theme that we will be as dear to Rogers describes this architecture In fact, in its concrete physicality, the issue of unfinished forms, forms in transition, new forms of modern fighting hard against the ancient beauty to find their expression.The young man from Trieste, a master of modern mannerism of the war, has gained by confronting one of the best examples in which the ambiguity of the charm of the ancient language conflicts with the obligation of his passing.

Rogers is still a student to draw his own essay on the architecture: it is interesting to note that chooses to accompany the written story with a photo, which collects a few meager pages of comments in pen where two or more photographs were associated with each other.The symbolic value that is attributed to the illustrations is declared as one of the first sheet, where we find a white box where the image is still to be found, and whose caption reads: This locomotive makes us smile, so says the young student, showing how the image – any locomotive, may not be, after all – is needed to explain the intuition, almost unconscious, the importance of the close relationship of the technique with his time, his destiny fleeting, as opposed to the continuity in the history of the building.
In the first articles of Rogers on “Dial” peep some of the illustrations in the years ahead that will form a constellation of references, like a fragment of an ancient wooden ceiling, but perhaps it is in the file that the image control style, and their relationships, is ripe.The human figure, initially archaic living space becomes a multitude of public architecture, showing itself as a dominant theme.Among the elegance of the overlap of images printed on tracing paper, whose summation gives a new synthesis of imagery, the cross-section appears axonometric of the Colosseum, one of the figures that will accompany him up the volume elements of the architectural phenomenon of 1961.The man, measure and proportion, the field of architecture and constructive relationship with nature find their representation in Style [18] , a case almost no text, where the images are featured.

Following Anonymous
At the time of Rogers, at the end of the war, became director of the magazine “Domus” founded by Gio Ponti, the enthusiasm and verve of the young architect were swept away by the life lived.Again the choice of images tells the personality of the new director, his commitment, awareness and at the same time, baste the reality of a speech of issues, themes recounted through an image: the “shabby” which shows the balloon fragility of the progress of technology, but also the archaic vase and the two lines, to introduce the theme of the decor.Rogers writes: “What are those two lines?Incomplessi become tangled, unwanted, swollen, leaves, dragons, monsters […] so as to substantially transform the accidental. ” This ridiculous little vase Persian five thousand years ago, used to quote Adolf Loos’ Ornament and Crime, is paired with an egg of Constantin Brancusi, with the first form.
Cesare Macchi Cassia [19] has defined Rogers’ passion for the forms of the early twentieth century, the movement of the line of Art Nouveau and Art Nouveau or the uncertainties of protorationalism, as the attention to a precise moment, when there is forms of revolution, freedom and highlighting the potential for learning with figures still undecided, in training, not yet frozen into beautiful icons useless to think about the new, the other.We can talk about forms and training because the same Rogers is interested in the teaching of the creative act, passed in its methodological aspect of the great European schools: a few numbers on his “Domus.The man’s house, “we find Gropius and Max Bill, as representatives of the Bauhaus and the Ulm School and a pedagogy of the arts, where they speak in opposition to the form of method [20] , but without sacrificing the beauty of the formal continuity of the sculptures of Bill, whose illustrations accompany the text.

The early years of “Casabella Continuity”
Rogers directs “Casabella” from 1953 to 1964. Eleven years and an important test on the composition of the artwork: it goes from a white cover with a cover of complaint. As you read the contents of the magazine, ranging from theoretical topics of the discipline until the last sections of detail buildings constructed in the city, a comment decorative accompanied us silently.
The first twenty-four numbers do not have any image on the cover, only change the color of the new pair of words, and the possible variations of the fitting with Casabella Continuity [21] .The office anticipates content was then taken up by the title so that the paper on which was printed the summary wore imprinted an image, often abstract and reduced to a strong sign graph, unrecognizable fragment of a reference loved, a detail of Sullivan or traditional decor Norwegian does not matter. Other types of paper made up the issue: the articles of coated paper in black and white, the poverty of the colored paper reviews and columns, the precious card in color, free removable, detachable, bringing beloved characters such as Perret and Antonelli, to animate the architectural offices.
It would be too long to bring the many stories that the pictures of “Casabella” we whisper, and perhaps Rogers himself would not accept the reduction being put on display, so I allow myself to dwell only on the most obvious.
It is known that “Casabella” was the place where the modern masters were published, their variation in the Italian high culture of the profession, as well as the documentation heartfelt traditions and cultures from extinction: Rogers, especially in the early years, chooses its modern, and chooses to tell us about it with a particular point of view.
The images show buildings included in the last part of the context as well as zoom in on the scores of the facade where the whole architecture is no longer legible. Again, the details of construction, the particular and universal at the same time, the context for understanding the refined thicknesses Perret or Sullivan, to make us perceive the charm of the formless Gaudi, but also to communicate the reality of custom architectural construction of an ancient wall, the instrument is the detail. And the thought goes to the magnificent photographs by Werner Bischof [22] , to the amount of silver chloride used to enhance the use of detail to explain the general, not to fall into a lack of perspective, in the absence of the oneness of the entire future.It will be the abstract architecture of these fragments appear to leave their possible installation of a new architecture.
But photography is not graphic design, and we realize increasingly that Rogers uses mostly for their particular photographic material aspect. “Every moment is inserted into the drama of existence and can not be regarded as an abstract entity” and the matter is the tool for the representation of a historical moment. So when he says that “if the modern, we can talk about the process of stylization” wants to emphasize the phase in which the character, through matter, found formal expression in a specific culture, in a time and interprets them in the personality.It will be the concreteness of the specific nature of matter in the form to release the absurd banality of repetition and force every new artist to discover unknown relationships between form, matter and meaning.
Rogers architect careful, precise scholar of forms and scales of the project and their material and construction possibilities, but also a thinker who provides the materials of the history of the poetic future architects: it is no coincidence that the protagonist is often a picture of his essays very beloved by Rogers [23] , a photo of a wall of the Acropolis of Athens, this is ‘Casabella’ experience in architecture, which seems more natural to associate the words of Rogers: “objects become old when they passed to be old , but this is selected as a few examples.When they become old again become current assets and we can make use of practical and everyday cultural consumption ” [24] .

Closing Experience
It seems now outlined the path that led to the choice of subjects of the images of architectural experience.Some of these are familiar to us, Rogers has already announced a few shots here and there, as the beloved urban architecture in the famous Uffizi article on the decoration of the number 7 “Dial,” or the archaic Persian vase or sculpture of Brancusi in “Domus,” but here we find them eventually assembled into a complete speech: in analogy to the theory of parts made, ready-written, so by using the iconographic images already loaded with meaning.If you can guess that the archaic material is used to describe the architecture, the East to highlight the slow processes of evolution and teach us the technical details of the construction, you can now see the warping of the Treaty made with images [25] .
So the circle closes. In 1958, out of experience in library architecture in the same year completes the construction of the Tower Velasca and the magazine “Casabella Continuity” changes direction decisively with the issues monthly, the introduction of cover images and quarterly issues, but especially with the new role of young people, Aldo Rossi and Francesco Tentori as editors [26] .The new magazine will be equally fascinating, some numbers would mark the Italian architecture, Tentori will take forward the discussion on cutting images with a very personal, just think of the three actresses who appear in the number 251: the bite of Anna Magnani in Rossellini, the flight Alida Valli in the Visconti and the crisis of Monica Vitti in Antonioni, alongside Burri Capogrossi Viganò and Gio Ponti. But other interests are: applications of the new society and the rediscovery of the complexity of the idea of the city in red or Canella. Today we re-read the lucid interpretation that has provided us with Ezio Bonfanti [27] of that moment and we sense that the whole, clear, startling opening of Rogers [28] is finite: it closes with the choice of a form for the city, the Tower Velasca, with the myth of his thought in a book with the students’ formal acceptance of violence, with the occupation of his “Casabella ‘by the study center in Rogers retires so that others may grow.
Who will know after that time will have the honor to be in contact and thus to learn from this open-minded. Some will fall in the Veneto region, others manage to get out of this teaching his personal poetics, but certainly not the teaching method with no forms to be imposed that Rogers had so appreciated in Gropius.
No one can say how Rogers has lived these last years, we can still, for one last time, watching with another image that has left us, photography [29] of his house: a small apartment in the heart of Milan, where a string of guest rooms away from the private study.On the desk working different materials, a Parker to write, books and collections of European thought, but also, above all, timeless tools come from afar, from China or Japan [30] .We have already mentioned the large number of pictures dedicated to the East that accompany us in his book, now here we find the character of continuity and utility brushes, notebooks, scissors and lacquered bowls that make up the man’s house.
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[1] Pisa and the Acropolis are perhaps a tribute to the eyes of youth travels of Le Corbusier, to their ability to see the ark, with sketches and photographs, the greatest lesson of architecture?
[2] “We must establish, in addition, the relationship between spontaneous tradition (popular) and the classical tradition to weld them into a single tradition.”EN Rogers, The responsibility to tradition, in Id, experience architecture, Einaudi, Turin 1958, p.297.
[3] It has now completed the presentation of his four masters “official,” Wright, Mies, Le Corbusier and Gropius, present for the absence of image, such as the role of educator, Rogers store for him, imposes.Rogers writes: “I have drawn from Walter Gropius’s features educational setting, which is methodological.” He cites Gropius: “There is no end point in architecture, there is only continuous change.”EN Rogers, In Praise of architecture, in the centenary of the Polytechnic of Milan.Conferment of honorary degrees to Aalto, Kahn and Tange, Milan, April 4, 1964.
[4] As noted in the long caption, in this case, even early in the preceding page, under the title Testimony concrete, Rogers talks about cultural synthesis, decorative expression and character of its architecture, the “current language, inserted as an image in the continuity of tradition: that is entirely created. ” As the image tells us, as a drawing in a fixed time and for that you create.EN Rogers, experience architecture, cit., Pl.151.
[5] The first proposal to the 1951 Einaudi fact brings this title, coinciding with the title of the pavilion he edited at the IX Triennale in the same year, small exhibition consists of photographs alone.Only trace left of the title is the cover design.
[6] “In 1903, a trip to Greece and the Mediterranean, the beauty of the temples makes clear the importance of the world of the forms of past ages when they are not included as elements already solved but as vital elements capable of being developed .This concept of the vitality of the tradition in opposition to academicism develop later in two books Vom
Stil Neuen, the Essays of 1907 and 1910. “EN Rogers, Henry van de Velde, or evolution, “Casabella Continuity”, 237, March 1960.
[7] Style is an interesting issue shows curated by young graduates Belgioioso, Banfi, Peressutti and Rogers in 1936 for “Domus”.Rogers is the director of “Domus” from 1946 to 1947 and “Casabella-Continuity” from 1953 to 1965.
[8] We are of course talking about the first edition of the book by Einaudi in 1958.
[9] is difficult to resist a comparison with the Aby Warburg’s Mnemosyne Bilderatlas and freedom of association proposed in his famous paintings of the old-way through the issues and their continuation in the Western world.
[10] To paraphrase the title of Michael Baxandall, Words for the pictures.Renaissance art and criticism, Hogarth Press, London 2009, where the author explores the “words addressed to the works of art, words that represent them, words that speak in their name, which it is based or in some cases take their place. ”
[11] F. Tentori, The concept of continuity, Ernesto Nathan Rogers and surveys, “Papers of the Department of Architectural Design at the Politecnico di Milano”, 15, 1993, pp..86-87.
[12] “We think that our training, being postromantic, puts the creator of the work as one of the factors, of which the other is those who use it.Opens in each activity our gesture dialectic concluded, but necessarily vague, and to be done by everyone who uses it or admire. ” EN Rogers, Praise architecture, cited above.
[13] “A process of possible forms that are open to new relationships,” in E. Paci, Reports and Meanings, Lampugnani Nigri Editore, Milan 1965.
[14] S. Veca, In memory of Enzo Paci, the philosopher and the architect, Ernesto Nathan Rogers and surveys, cited above., Pp..48-50.
[15] “This is a gym of views: architectural manifestations of the phenomenon are described as proposed, no conclusions as to accept or reject.”EN Rogers, need the image, “Casabella Continuity”, 282, December 1963.
[16] “Architecture for the architecture does not make sense, as it has no sense of human action that ends in a tautology.”EN Rogers, Praise architecture, cited above.
[17] As is known, Ernesto Nathan Rogers over the years cultivated his first thoughts by attending lectures in philosophy at the high school of Antonio Banfi Parini.
[18] “The style is the way to be the character.” EN Rogers, character and style, in Id, experience architecture, cit., P.218.
[19] Matilda Baffa has called allusive forms.For the preparation of the intervention it seemed natural to hear the voices of Cesare Macchi Cassia and Matilda Baffa, who were neighbors in Rogers in those years. Or forms in process, as defined in Giovanni Marras The city as text.Autonomy of the architectural language and representation of the city, PhD in Architectural Composition, IUAV, Venice 1992. THIS IS A PRESS RELEASE TO THE DOCTORATE? NO, just typed the thesis …
[20] “The problem of giving formalities architecture, planning against formalism.”G. Canella, For Ernesto Rogers, The teaching of Ernesto N. Rogers, PhD in Architectural Composition, IUAV, Venice 1984. THIS IS A PRESS RELEASE TO THE DOCTORATE? yes
[21] If the first two covers speakers representing the Seagram building and a sketch of Le Corbusier, announces the third in the choice of Ridolfi, the comparison with the making of new Italian architecture.
[22] “What distinguishes the work of Werner Bischof is this quality to reveal, through the particular, the universal meaning of things in the most dense human sense: the continued participation in the act appearance with the sympathy of all feelings, so that it is not just an album of beautiful images, but a document of human history. “EN Rogers, Architecture and Photography, in «Casabella Continuity”, 205, April-May 1955.
[23] As confirmed by Matilda Baffa when I described with the precision of a sign carved in memory, the period in which Rogers helped put together the iconography of the book by Einaudi in 1958.The young assistant was anxious every morning in meeting the author, who welcomed the reassuring smile about not having changed anything, but she reversed the order was obtained the day before: every evening, returning it to the author change, supplement and correct images for your words.
[24] That ‘s opening words of Article 1964, EN Rogers on Le Corbusier, in EN Rogers Publishing Architecture, Einaudi, Turin 1968.The collection of editorials out when Rogers is already very ill, has no illustrations.
[25] From the back cover flap: “the choice of illustrations, which they themselves want to be speech, dialogue with the reader, become cultural image.”
[26] Gregotti, who had joined Rogers for many years, “Casabella”, became the director of “Modern Construction.”
[27] [E. Bonfanti], a magazine, in E. Bonfanti, M. Port, city, museum and architecture.The group BBPR Italian architectural culture in 1932-1970, Va. llecchi, Florence 1973, pp..218-223.
[28] “From him we learned to escape from being uniquely claim to speak […] to seek and love.”S. Dyers, or the praise of uncertainty Rogers, Ernesto Nathan Rogers and surveys, cited above.
[29] L. Spinelli, Milan Singles.The private apartment of Ernesto Nathan Rogers, “Domus”, 925, May 2009.
[30] In the classical world, “the figurative as it perfects the shape of a stone polish the water […] The same can be said for the Chinese and Japanese architecture, which evolve by refining the secular rather than signs of a marked change image “.EN Rogers, collective and individual mutations, in Id, architectural elements of the phenomenon, Guide, Naples 1981, p.83. In the book, first published in 1961, images are gathered under the title of sterile tables.

Lezione a:
CEPT – Ahmedabad
CEU San Pablo – Madrid
EAR – Tarragona

 

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Indice

Introduzione alla ricerca
La facciata tra tipologia e città

Tipo, ordini, proporzioni
Città
Tipo e città
Scala e misura
Archetipi
Permanenza, trasformazioni, principi
“Roma quanta fuit ipsa ruina docet”
Arco di trionfo: unità e ritmo
Porta urbana: tripartizione e misura
Sett izonio: reticolo strutt urale e rappresentatività
Acquedott o: ripetizione e fuoriscala
 Principi compositivi
Continuità dell’antico
Colosseo
La facciata del palazzo italiano
“Modernaccia per accomodare le storie”
Conclusioni compositive
Usi possibili
Composizione di parti
Composizione di principi diversi
Parti, montaggio, geometria
Manierismo
Contaminatio, unità
Continuità o crisi del Moderno

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Premessa

Chaque époque se fabrique mentalement sa représentation du passé historique

Lucien Febvre

Questo libro si occupa di un tema che sembra appartenere ad un altro tempo: la facciata. Si tratta in gran parte di riflessioni scaturite dallo scontro con la realtà progettuale negli anni successivi alla laurea, quando cercavo di interpretare un metodo che consideravo ricco di possibilità, soprattutto per le scelte che un progettista compie nel mondo delle forme dell’architettura. Un metodo fondato su un’idea di architettura che riconosce, ancora oggi, nella continuità dell’esperienza storica il senso stesso del progetto, e dove l’attenzione analitica permette un’astrazione dalle forme utile a comprendere il mondo delle relazioni che attraversa tutta la storia dell’architettura.

Successivamente questa idea di continuità storica, sperimentata in nuovi contesti, è diventata un tema costante della mia ricerca, fino a sviluppare in modo più coerente una questione qui solamente accennata: il rapporto dell’architettura moderna e contemporanea con la storia.

Mi rendo conto oggi che questo studio è stato un solfeggio importante nella mia formazione ed è questo il motivo principale che mi spinge a pubblicarlo. Nel lavoro di allora avevo avuto spesso la sensazione di lavorare in un mondo arcaico, ma negli anni la necessità di riconoscere i principi del progetto che si intrecciano nel tempo si è resa sempre più evidente, fino a confermarne, direi quasi paradossalmente, una maggiore urgenza proprio nella complessità del linguaggio dell’architettura attuale.

E non mi riferisco a una posizione di retroguardia, bensì proprio all’opposto: alla volontà di cercare oltre le forme, di esplorare un versante teorico che vede nelle relazioni, nell’unità e nello spazio il senso del progetto. Ripensata oggi, mi rendo conto che scopo della ricerca era infatti la liberazione dalla meccanicità nell’uso di forme precostituite, a favore della consapevole costruzione di uno sguardo disincantato sulla contemporaneità, in grado di distinguere con chiarezza quanto appartiene stabilmente alla disciplina e quanto può essere variato nel contaminarsi con la storia, con il luogo, con la cultura e con l’arte.

Questo percorso è stato lungo e faticoso, per certi aspetti doloroso, ma credo possa essere ancora utile testimoniare un apprendimento dell’architettura condotto sul campo, ripercorrendo i viaggi dei grandi architetti, immergendosi nelle architetture e nelle città, con la curiosità sorretta da un’ingenuità non ancora mediata dalla critica, fino a rilevare le rovine con i maestri del rinascimento o a ridisegnare Roma con Letarouilly e Berlino con Schinkel senza il filtro del tempo.

Il testo riprende gran parte delle riflessioni svolte come tesi nel corso di dottorato di ricerca in composizione architettonica coordinato da Gianugo Polesello, che ricordo per la passione e l’originalità del pensiero, con relatore Giorgio Grassi e controrelatore Gianni Fabbri, presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia.

Milano, maggio 2008.