INTRODUZIONE
INVARIANZA E PERTURBAZIONI, Massimo Fortis
VERSO UN’URBANITA’ DIFFUSA, Orsina Simona Pierini
APPUNTI DAL BALCONE, Carmen Díez Medina
L’INQUIETUDINE DELL’ABITANTE, Bruno Melotto
VERSO UN’URBANITA’ DIFFUSA

Se penso a casa e città, non posso fare a meno di associare queste parole a una immagine: una fotografia del 1927 del quartiere Kiefhoek, realizzato dall’architetto olandese JJP Oud alla periferia di Rotterdam. La fotografia ha un punto di vista molto particolare: il fotografo sceglie di occupare gran parte del negativo con l’ombra della pensilina sotto la quale scatta la fotografia; dall’altra parte della strada possiamo vedere come una identica pensilina si pieghi ad abbracciare la serie di case a schiera allineate in cui sappiamo riconoscere tutta la tradizione della casa olandese del lotto gotico[1]. La poesia del linguaggio architettonico ne fa sicuramente uno degli esempi più amati di un’idea di città-colonia che sembra anche raccogliere l’eredità dell’utopia della città giardino: la disposizione nella natura delle case basse in linea, l’orizzontalità dell’elemento decorativo e delle finestre, l’intonaco bianco corrispondono a tutti gli effetti all’immagine che ci siamo fatti della città del Moderno.
Un uomo ci fornisce anche la misura esigua della pensilina che stiamo osservando e, insieme alla maniglia della porta aperta in primo piano, ci riconduce con grazia alla dimensione domestica, coerente con il senso di protezione inconsciamente percepito sotto l’ombra. Una condizione duplice, dunque: il controllo della scala della città antica, della città a misura d’uomo e nello stesso tempo la modernità di una nuova urbanità disegnata nel dettaglio dall’architetto dell’avanguardia de Stijl.
In quello stesso anno 1927 August Sander[2] scatta a Colonia una fotografia a Anton Raederscheidt: il pittore ritratto con un severo cappotto nero, completo di accessori quali guanti, cappello, colletto inamidato e cravattino, elegante intellettuale, testimone di un’epoca, è l’unico inquietante abitante di una larghissima strada urbana, che sembra solo aspettare l’arrivo delle macchine. I marciapiedi, bianchi e vuoti, sono irrigiditi dalla ripetizione di alloggi montati nella figura della cortina stradale alta sei piani[3]. Gli infiniti blocchi residenziali della città ottocentesca tedesca sono rivestiti da basamenti e bugnati, che assumono lo stesso carattere rappresentativo del cappotto nero, allineati uno di fianco all’altro, quasi a negare una qualsiasi articolazione volumetrica e quindi nessun rapporto con spazialità interne all’isolato. Non vi è nessun disegno urbano, se non l’ossessiva sommatoria di appartamenti, ma il carattere metafisico della fotografia ci trasmette una sensazione di unità compiuta.
Da buoni architetti educati alla cultura del moderno, sappiamo istintivamente per chi tifare: Oud e la sua elegante, delicata declinazione dell’abitare. Ma se invece ci pensiamo cittadini, o anche solo turisti in arrivo a Parigi, non siamo forse attratti dalla vera scala della città moderna, così bene rappresentata dalla novità del ritratto di August Sander?
Quale è dunque la città moderna? Quella che ci ricorda i bei tempi del felice matrimonio, intonacato di bianco, tra lotto gotico e città mercantile o la cruda densità mostrata dalla foto di Sander[4]? Certo, si risponderà, l’uno è la negazione dell’altra, ma oggi, dopo un secolo di risposte realizzate, vissute, abitate e sofferte, da quale di questi esempi possiamo realmente ricavare il carattere di urbanità che ci serve a progettare la città contemporanea? Vogliamo essere cittadini o abitanti?
ARCHITETTURA DELLA CASA O ARCHITETTURA DELLA CITTÀ?
O ancora: ci vogliamo ancora rifugiare nell’architettura del villaggio o siamo costretti ad accettare solo l’architettura della metropoli? Queste le domande che il progetto della residenza contemporanea pone: i testi che seguono partono dal presupposto che la recente sperimentazione sia interessata a un’idea di città i cui caratteri ed elementi si sono andati affinando in un tempo lungo, dove il ruolo della casa è stato determinante. Finiti i tempi delle prese di posizione, passato sì – passato no, moderno sì – moderno no, o delle sperimentazioni più ardite, la professione si è concentrata, soprattutto nel resto d’Europa, alla costruzione della reale architettura della città.
L’atteggiamento che si è riscontrato nel periodo storico preso in considerazione, cioè nell’architettura dell’abitare del nuovo millennio, o quantomeno la posizione condivisa da un gruppo colto di figure che lavorano nell’ambito della residenza, è quello della conoscenza di un passato ampio, che non disdegna la tradizione, né la sperimentazione del moderno, bensì li coniuga con coerenza, perché ne controlla gli esiti con il linguaggio, con la scelta precisa degli elementi e con l’equilibrio della loro materializzazione attraverso la costruzione.
Si lavora da tempo su una base comune e condivisa, di cui possiamo ormai riconoscere una serie di temi, che vanno dallo spazio urbano, fino alle sperimentazioni sull’alloggio: la nostra ricerca nasce dall’esigenza di sistematizzare questo lavoro collettivo, di riconoscerne i tratti di continuità con il passato, ma soprattutto di cercarne la base comune, l’atteggiamento che li rende progetti del nostro tempo, nostri contemporanei.
Un aspetto curioso, forse mai riscontrato nella storia dell’architettura, è che la progettazione della residenza è diventata ambito di alcuni studi collettivi, non più intestati a cognomi famosi, ma ormai accomunati da sigle; l’esperienza più articolata di questo carattere collettivo è rappresentata dall’Olanda, non a caso il luogo dove si realizzano interi piani urbanistici e dove la proprietà comune dei terreni e il felice rapporto con le istituzioni ne fa un oggetto di speciale attenzione in queste pagine.
Come è noto l’architettura residenziale si differenzia dal resto della produzione architettonica sostanzialmente per due necessità che deve assolvere: la prima riguarda l’idea di pensarsi sempre in un contesto, in una coralità come tiene a precisare nel suo saggio introduttivo Massimo Fortis; la singola casa è uno dei tanti mattoni che costituiscono l’immagine della città, esattamente all’opposto dell’edificio pubblico, non a caso incasellato nello schematismo del positivismo ottocentesco, come rappresentativo. L’altro aspetto, in parte complementare, è quello che riguarda il ruolo di ridosso che la casa deve necessariamente assumere.
La sua condizione pubblica e collettiva, ma nello stesso tempo ripetuta e seriale, ne ha fatto oggetto di studio per tutto il secolo passato, come ben sottolinea Bernardo Secchi: “Due di queste tendenze mi sembrano essenziali: da un lato, l’affermazione sempre più forte del valore della diversità nelle sue declinazioni più svariate e, dall’altro, la ricerca continua dell’integrazione e della continuità. Durante il tutto il secolo scorso, architetti e urbanisti hanno lavorato per fornire una soluzione alla contrapposizione, tipicamente moderna, tra l’ideale della autodeterminazione e le esigenze di socializzazione.”[5]
Ed è proprio a partire da questo contradditorio problema compositivo, di continuità e frammento, che abbiamo provato a leggere le realizzazioni degli ultimi anni.
Attribuendo al periodo attuale la fortunata occasione di concentrarsi sulla costruzione, la ricerca parte infatti dai progetti costruiti, dalla realtà fisica e percettiva, dai loro materiali e dalle loro misure, per studiare la scrittura fine di questa contraddizione secondo alcuni precisi temi urbani, già tutti compresi nella storia della città, ma che assumono i tratti del contemporaneo per una certa disinvoltura tipologica, per la sapienza del controllo dei contrasti di scala, per un apparente ritorno alla scacchiera urbana, o per la ricerca aperta sull’altezza giusta, nella convinzione ormai genetica dell’importanza degli spazi dell’abitare, da ripensare nelle declinazioni della domesticità della disposizione urbana e dei caratteri costruttivi.
La nostra analisi sulla città contemporanea costruita ha dunque assunto il carattere di verifica delle urgenze del contemporaneo con gli strumenti di sempre, in un’idea di contemporaneo forse più pacata, più reale, dove si cercano le sperimentazioni più equilibrate, più complesse e forse meno programmatiche. Il contemporaneo cui ci piace fare riferimento, a cui si è guardato, non è il contemporaneo altisonante dei grandi numeri e delle grandi migrazioni, dei capovolgimenti epocali e del dominio delle infrastrutture. Certo, queste sono le condizioni oggettive del nostro vivere, ma il nostro interesse come ricercatori riguarda, ad esempio, la densità come strumento qualitativo, invece che quantitativo, per arrivare a porsi la domanda se costruire in altezza o per blocchi, invece di gridare forte le urgenze ecologiche che ci costringono alla densità. Questo è stato fatto da tempo ed è ormai diventato programma delle grandi municipalità: nel recente piano Le grand Paris, tra i principi fondamentali delle proposte sull’alloggio vi sono indicati Favorire Mixité e Prossimità, Legare densità e intensità, Nuove tipologie e Costruire sui tetti.[6]
L’EREDITÀ DELL’ARCHITETTURA MODERNA
Non più teorie astratte sulle metropoli, sulla sostenibilità, o ancora, discussioni sul senso della tradizione, ma un uso preciso e descrittivo dell’esperienza della storia, che la sappia scandagliare analiticamente nei suoi universali, e la sappia dunque vedere come sempre attuale e presente nelle nostre scelte di progetto. Questa posizione attribuisce un ruolo importante alla storia, facendo esplicito riferimento a una idea di storia senza tempo, un “tempo pieno di attualità” [7]. Qualcosa di molto simile a quello che faceva nel suo Atlante Aby Warburg: scardinare la linearità storica a favore dei temi. In questa ottica siamo obbligati a rimandare la bellezza del luogo ad altre indagini, per il carattere di eccezionalità che impone sulle scelte di progetto. Questo spiega, almeno in parte, perché sono stati lasciati indietro quegli esempi che trovano la loro ragione d’essere soltanto nel contesto.
Gli strumenti dunque per leggere le pagine che seguono sono pochi: occorre sapere e riconoscere che la città occidentale è formata da pochi elementi la cui declinazione si è costruita sulla concretezza delle tante diverse città che l’hanno realizzata[8]. La casa a corte antica, il lotto gotico della città mercantile nord europea, la misura dell’isolato compatto e la sua relazione con lo spazio pubblico, strada o piazza, come l’edificio in altezza della nuova città, non sono solo tipi edilizi, ma anche scale e idee di città, immagini di abitare che architetto e cittadino dovrebbero condividere, nella doppia vocazione che la casa ha, da un lato di protezione e intimità e dall’altro di portamento pubblico.
Proprio in riferimento all’idea della storia, preme ancora una volta precisare il ruolo che questa ha avuto nell’architettura moderna: così come possiamo riconoscere la scala della città medievale nelle misure e nella ripetizione del tipo abitativo della casa a schiera, così come conosciamo bene le battaglie contro la densità della città ottocentesca e la sua riduzione a blocco compatto, in cui i caratteri contrapposti di interno ed esterno hanno trovato la loro massima estremizzazione, e così come siamo ancora affascinati dalla nuova scala della città metropolitana, allo stesso modo siamo consapevoli che le opere del moderno hanno saputo scardinare questi schematismi, introducendo importanti variazioni che hanno costruito un’immagine di paesaggio urbano completamente diversa.
L’architettura del movimento moderno ha saputo infatti riconoscere, criticare e nello stesso tempo riutilizzare le idee di abitare cui questi modelli si rifacevano, l’individualismo della casa schiera, la densità ossessiva della città che a partire dalla metà dell’ottocento aveva demolito le mura urbane e debordava nella campagna e nello stesso tempo ha saputo offrire una nuova idea di spazio dell’alloggio e una scala urbana adeguata, fino a ipotizzare una nuova dimensione dell’abitare nell’edificio in altezza. Ci ha infine offerto una declinazione ricchissima di articolazioni sul suolo del corpo edilizio, di distribuzioni in edifici in linea che disegnano il paesaggio, la natura, che è così entrata a far parte in modo decisivo di un disegno urbano che non l’aveva mai compresa, se non nel caso di pochi, privilegiati, esempi.
Ma l’architettura del movimento moderno ha saputo anche ragionare su un’idea inedita di spazio interno dell’abitare, come il solo riferimento alle case unifamiliari di Mies van der Rohe o di Le Corbusier basterebbe a spiegare, ed ha disegnato ogni singolo dettaglio di questo nuovo mondo abitato, dove le porte d’ingresso, le scale, le finestre, gli elementi distributivi, fino ai materiali da costruzione, non solo partecipavano alla nuova immagine della casa, ma sapevano anche comunicare quei caratteri di protezione e rappresentatività di cui abbiamo parlato.
In un suo recente saggio[9], Rafael Moneo ha evidenziato le differenze tra la modernità, in particolare su alcuni concetti, e la contemporaneità: il suo raffinato e corposo ragionamento sulle analogie e le differenze nell’uso dello spazio, del linguaggio o della struttura ci è utile a comprendere il grado di disinvoltura del nostro momento attuale, ma anche a riconoscere per contro, nel caso della progettazione residenziale europea, una continuità di lavoro soprattutto nei paesi che ne hanno accettato senza soluzione di continuità la sua lenta integrazione nella pratica professionale. Penso sicuramente alla Svizzera e alla Germania, ma anche ai paesi scandinavi e alla loro influenza sulla recente architettura iberica. Il moderno con cui ci confrontiamo dunque è quello eroico, ma è certamente anche quello presente nelle integrazioni nella città storica e nelle sue molte declinazioni sperimentate nelle grandi città.
FERRI DEL MESTIERE
Chi si trova a progettare oggi non può dunque non confrontarsi con questa eredità, non tanto dal punto di vista teorico, ma con la curiosità di vedere come si costruisce lo spazio dell’abitare e di come la pluralità delle case possano diventare città nel loro insieme. Lo sguardo, se si vuole intenzionalmente ingenuo, che si propone è quello della lettura della città storica e moderna secondo alcune categorie progettuali, in modo da ricavare gli strumenti per la progettazione attuale: si potrebbero chiamare ferri del mestiere[10]. La nostra attenzione sarà dunque rivolta non solo agli elementi, ma ai caratteri d’uso degli elementi, non ai singoli manufatti, ma ai rapporti tra gli oggetti, al fine di ricostituire nuove sintassi, con la necessità di chiarire un linguaggio che parli attraverso le misure, le scale, le idee contenute nell’immediatezza delle diverse forme di città.
Il complesso rapporto che lega materialità dell’arte e linguaggio è stato ben espresso nel lavoro di Roman Jakobson, quando descrive “L’idea delle invarianti e variazioni, che accomuna le scienze odierne, deve essere applicata coerentemente […] Bisogna prestare la debita attenzione alle variazioni, ma senza per questo perdere di vista le invarianti universali che le sottendono. Sarebbe un errore metodologico, una semplificazione unilaterale, il trascurare uno dei due aspetti dell’analisi, ovvero trascurare la definizione dell’invariante o ignorare la variazione. Solo tenendo conto in modo vigile e costante delle invarianti potremmo superare un cieco empirismo e creare, invece di una tassonomia superficiale, una adeguata sistematizzazione delle strutture […] sui rapporti tra piano fisico e grammaticale della lingua.”[11]
Il linguista russo, che ci offre una struttura metodologica precisa su cui lavorare, ci riporta anche alla necessità di una attenzione alla fisicità e ai rapporti tra le parti, che abbiamo voluto chiamare apposta i ferri del mestiere, proprio per alludere al carattere artigianale[12] del fare, alla materialità del costruito, alla scommessa della durata[13].
Devo a Bruno Reichlin non solo la conoscenza dello studioso del linguaggio, ma soprattutto l’ostinata capacità di applicare questo metodo alle sole parole della nostra disciplina, in modo tale da riconoscere i “procedimenti” o “artifici compositivi” con occhi che vedono l’architettura.[14]
Ormai convinti della necessità di tornare a parlare con i soli ferri del mestiere della nostra disciplina, usiamo ancora il confronto con l’allusione al linguaggio comune e trasmissibile per riflettere sulla condizione vocale dell’architettura, sulla riconoscibilità dei suoi caratteri urbani, ma anche sulla ricerca di silenzio e anonimato, che è un altro tratto caratteristico della coralità urbana cui abbiamo accennato: forse non vi è architettura che maggiormente coinvolga l’essere umano quanto la residenza, nel suo duplice ruolo di cittadino ed abitante[15].
Nel 1968 Alison Smithson raccoglie una serie di saggi dei componenti del TEAM 10[16] per esortare un lavoro sensibile ai temi della città. Si è scelto il termine Primer nel titolo proprio per il suo carattere didattico, per sfuggire alla trattazione teorica e ritrovare nel carattere strumentale della descrizione la necessità di una educazione al progetto; nostro interesse è la descrizione analitica, anche grafica, dei procedimenti compositivi sulle parti, riconoscendo proprio nelle invarianti e nelle variazioni, e dunque nei processi di addizione, sovrapposizione e variazione, gli strumenti operativi con cui possiamo prima parlare e successivamente progettare.[17]
Ci scopriamo così a misurare un allineamento, e, allo stesso modo, ci piace lasciare entrare un po’ di città nei nostri isolati, o ci sorprende con piacere l’intrusione nella severità della cortina stradale di una spazialità inaspettata o di un carattere domestico che alle volte la risolve.
DAL PROGETTO URBANO ALL’URBANITÀ
L’architettura della città[18] si occupava in gran parte della definizione teorica e storica del valore della città, sapendo inserire il moderno nella continuità della storia urbana, ma proponeva poi solo architetture iconiche, oggetti ready made che difficilmente sapevano declinarsi, soprattutto sul tema dell’abitare collettivo, nei caratteri del contingente e del contemporaneo: la scelta del tipo e la sua coerenza urbana sembravano sufficienti a risolvere la città e si poteva dimenticare la ricchezza della parola linguaggio. Il collage in fondo aveva proprio questo significato: l’intercambiabilità dell’oggetto architettonico, non la sua integrazione, declinazione, variazione, compromissione con l’ambiente, come proponeva invece negli stessi anni e nella stessa città Maurice Cerasi.
La città italiana sta ancora pagando l’approccio troppo raffinato, afasico ed elitario di Rossi, come ben sottolinea Bernardo Secchi: “vorrei sottolineare il rapporto tra oggetto architettonico e architettura della città. Io parto dal presupposto che la seconda parte del secolo scorso è stata colpita da una grave forma di miopia critica; non ci si è resi conto che ciò che stava progressivamente venendo a mancare, era soprattutto l’architettura della città, che si costruivano nella città degli oggetti architettonici, e che l’affermare sempre più la loro individualità avrebbe cancellato il loro significato; essi si perdevano, come i quattromila grattacieli di Shanghai, nel camouflage collettivo dei metronomi [del Poème symphonique] di Ligeti. Si disponeva delle parole, ma non si riusciva a organizzare il discorso.”[19]
Nel testo di Cerasi[20] erano invece contenuti alcuni passaggi significativi sul rapporto tra lo spazio, i vuoti ed i suoi caratteri architettonici: alcuni concetti, come ad esempio l’unità stilistica, cromatica e percettiva, la tensione e il movimento, si offrivano come strumenti progettuali operativi, che sapevano articolare l’oggetto architettonico nel suo contesto, nel suo ambiente urbano.
Oggi la sua proposta si rivela quanto mai attuale, in un momento in cui non si lavora più per grandi assiomi, ma nella ricerca di un affinamento, come aveva ben pronosticato già nel 1997 Hans Kollhoff nell’articolo di Lotus che accompagnava la presentazione del suo sorprendente “fuori scala” di Amsterdam. Ci ammoniva Kollhoff: “Il problema cruciale è quindi di capire se operiamo per distruggere la tradizione della città o per sostenerla. […] Il problema è quello di una paziente ricerca di affinamento. […] Il nostro compito è quello di progettare e costruire la norma, e non l’eccezione.”[21]
Possiamo dunque tornare ai due uomini descritti all’inizio, il tranquillo abitante che controlla la misura delle casette di Oud e il cittadino inquieto della borghesia urbana europea, per riformulare la domanda del contemporaneo: possiamo parlare di un carattere di urbanità che la casa ricerca oggi?
Così come la voce del vocabolario Treccani spiega il termine urbanità come “Modo di comportarsi civile e cortese nei normali rapporti con altre persone”, l’urbanista tedesco Sieverts ci spiega che il concetto di urbanità si fonda “su un’immagine idealizzata della città borghese europea, nella sua articolazione dei secoli XVIII e XIX. […] nelle città abitate da borghesia illuminata. Designava più una forma di vita sociale e culturale, che la qualità di una struttura urbana o spaziale ben definita. L’urbanità sta a segnalare il comportamento aperto e tollerante dei cittadini, sia tra di loro che nei confronti degli stranieri […] Invariabilmente contrapposta al provincialismo, l’urbanità evoca la conoscenza del mondo, l’apertura dello spirito e la tolleranza, l’acutezza intellettuale e la curiosità.”[22]
Forse ancora più precisa sui caratteri fisici, architettonici, è la definizione di Françoise Choay, “urbanità è l’adeguamento reciproco di una forma di città costruita, e della sua configurazione spaziale, e di una forma di convivialità”.[23]
Come forse già intuito, lo sguardo richiesto al lettore sarà dunque quello di riconoscere queste doti dell’urbanità nelle recenti costruzioni della casa, consapevoli del ruolo che avrà la lettura “ritmica” dell’esperienza spaziale, proprio per la sua capacità di farci intuire il movimento della vita che vi si deve svolgere, così come la convivialità diviene presupposto di densità e mixitè, spaziale, tipologica e funzionale.
Come possiamo descrivere l’urbanità di questi nuovi spazi dell’abitare? Non possiamo che pensarci nel passeggiare in queste architetture, nello scoprire un ridosso inaspettato o nel percepire una dimensione domestica all’interno di una sequenza urbana; seguendo la traccia del possibile abecedario che abbiamo voluto sperimentare nelle pagine che seguono, ci scopriamo dunque a usare i termini apparentemente più banali, ma soprattutto disciplinari, per descrivere questi progetti: spazio, corpo di fabbrica, arretramento, strada, rotazione, limite, apertura, etc… In questo senso sono stati scelti quegli esempi in cui i caratteri dell’urbanità fossero ancora portatori di un significato e potessero quindi offrirsi all’abitante come evocazioni di idee di città, come invarianti urbane, da verificare nelle variazioni della contemporaneità.
Scala, trama, strada, altezza, caratteri del domestico sono mischiati e rintracciabili nell’intera storia della casa e possiamo riconoscere come ogni periodo ha preferito utilizzarli orientandoli verso differenti idee di città. La specificità del contemporaneo, forse, è quella di sapere accettare più di una visione, di preferire l’approfondimento di un ventaglio di soluzioni per operare scelte da adattare al contesto e alla situazione.
L’urbanità ricercata si scopre quindi strettamente correlata a un’idea di città compatta rivisitata con gli occhi di chi conosce le conquiste sullo spazio del moderno, arrivando forse ad ipotizzare non più un progetto urbano, con la coerenza e unità che il termine progetto obbliga a pieno titolo, bensì una diffusa urbanità, riconoscibile nelle diverse scale e caratteri dell’abitare. In quest’ottica, forse si può tornare alla domanda: architettura della casa o architettura della città?
Nel volume il testo prosegue con:
Variazioni sulla scala
Disinvoltura Tipologica
La scacchiera urbana
Nuove soglie urbane
Altezza Conforme
Domesticità esibita

[1]Una foto molto simile è stata scattata anche nell’altro quartiere bianco di Oud, Hoek van Holland. Interessante notare il ruolo che Oud attribuisce al carattere domestico di questo semplice elemento.
[2] August Sander, Lichtbildner in Köln come scriveva sul biglietto da visita, ci ha lasciato un prezioso patrimonio documentale della nostra civiltà all’inizio del novecento, documentando innumerevoli tipologie umane e profondità infinite di paesaggi, ma raramente le città; questo è uno dei pochissimi scatti.
[3] Su questa misura avremo occasione di tornare nel capitolo sull’altezza.
[4] Non è certo questo il luogo per aprire al complesso discorso sulla modernità, che ha già trovato nella letteratura europea, da Charles Baudelaire e Walter Benjamin in poi, perfette descrizioni ed interpretazioni.
[5] Bernardo Secchi, Villes sans objet: La forme de la ville contemporaine, Conférence Mellon CCA, 4 settembre 2008, p.2.
[6] Le Grand Paris è il documento che raccoglie il Piano per il riassetto della Regione Parigina, legge adottata il 5 giugno 2010. I temi per “Costruire città sulla città” sono pochi ed espressi in poche pagine manifesto, accompagnate dalle proposte morfologiche redatte dai grandi nomi che operano sulla città. Jean Philippe Vassal & Anne Lacaton scrivono: “Dobbiamo costruire DI PIÙ costruire più grande, costruire CON, costruire MEGLIO e più economico. Dobbiamo andare verso il massimo invece di definire un minimo. Dovrebbe essere incoraggiato il cambiamento, invece di bloccare tutto. Si deve aggiungere anziché demolire. Densificare invece di disperdere.” Roland Castro propone di passare “Dal rinnovamento urbano al rimodellamento”, e Ateliers Christian de Portzamparc riprende il concetto degli “îlots ouverts e dei quartieri in evoluzione”.
[7] “L’origine è la meta”, il famoso aforisma di Kark Krauss, citato da Benjamin come incipit alla XIV tesi di filosofia della storia, presuppone che in ogni istante sia compresa la totalità del tempo. In Walter Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino, 1997, p.45.
[8] Si rimanda alla precisione del testo di Eric Firley e Caroline Stahl, The urban Housing Handbook, Wiley, Chichester, 2009, perché entra nella descrizione delle differenze, attraverso la misura e il ridisegno di confronto, di una serie di esempi che declinano queste poche idee di città nella complessità delle tante realtà urbane che le hanno costruite.
[9] Rafael Moneo, «L’altra modernità», in L’altra modernità, considerazioni sul futuro dell’architettura, Christian Marinotti, Milano, 2012, p. 83.
[10] Fruttero e Lucentini, I ferri del mestiere, Einaudi, Torino, 2003.
[11] Roman Jakobson, Dialoghi con Krystyna Pomorska, Laterza 1980, Castelvecchi, Roma, 2009, p. 77-78.
[12] Richard Sennet, ne L’uomo Artigiano, Feltrinelli Milano, 2008, spiega nel dettaglio l’importanza della pratica del fare e della sua descrizione e trasmissibilità.
[13] “gli edifici devono invecchiare bene per testimoniare nel futuro una memoria collettiva e poter divenire parte della storia di una città.” Hans Kollhoff, Costruzione urbana contro alloggio, in Lotus international, n° 94, 1997, pag. 101.
[14] “distinguere i diversi approcci estrinseci all’ architettura da quello intrinseco […] circoscrivere l’oggetto di una critica e di una storia intrinseca dell’ architettura e definirne i metodi e gli strumenti di indagine. Seguendo l’esempio dei formalisti par lecito preconizzare uno studio dell’ architettonicità dell’ architettura.” Bruno Reichlin, Prefazione, in Annalisa Viati Navone, La Saracena di Moretti, tra suggestioni mediterranee, barocche e informali, Mendrisio Academy Press, Mendrisio, 2012, p. 8-9.
[15] “La casa deve piacere a tutti. A differenza dell’opera d’arte, che non ha bisogno di piacere a nessuno. L’opera d’arte è una faccenda privata dell’artista. La casa no. L’opera d’arte viene messa al mondo senza che ce ne sia bisogno. La casa invece soddisfa un bisogno. L’opera d’arte non è responsabile verso nessuno, la casa verso tutti.” Adolf Loos, «Architettura», in Parole nel vuoto, Adelphi, Milano, 1980, p. 253.
[16] Team 10 Primer, a cura di Alison Smithson, Studio Vista, Londra, 1968.
[17] Vedi il capitolo Il concetto di trasformazione in architettura, in Carlos Martí, Arís, Le variazioni dell’identità. Il tipo in architettura. Clup, Milano, 1993, p. 102.
[18] Aldo Rossi, L’architettura della città, Marsilio, Padova, 1966.
[19] Bernardo Secchi, Villes sans objet: La forme de la ville contemporaine, Conférence Mellon CCA, 4 settembre 2008, p.2.
[20] Maurice Cerasi, La lettura dell’ambiente, CLUP, Milano, 1966.
[21] Hans Kollhoff, Costruzione urbana contro alloggio, in Lotus international, n° 94, 1997, pag. 101.
[22] Thomas Sieverts, Entre-ville, une lecture de la Zwischenstadt, Editions Parenthèses, Marsiglia, 2004, p. 35-37.
[23] Françoise Choay, Le règne de l’urbain et la mort de la ville, in AAVV, La ville, art et architecture en Europe 1870-1993, Centre Pompidou, Parigi, 1994.