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ATLANTE URBANO DELLA RESIDENZA

Scopo del nostro lavoro è stato di verificare se esistessero principi ricorrenti nei modi in cui la residenza sta costruendo, in questo primo scorcio di secolo, le città che abitiamo. Fin da subito si è dimostrato indispensabile individuare e studiare il contesto fisico di ciascuno dei case studies analizzati: per far ciò, di ogni progetto è stata ridisegnata la planimetria urbana in scala 1:5000.
Nelle pagine seguenti prende forma un Atlante Urbano della Residenza, costruito montando queste planimetrie.
Per giorni le planimetrie, stampate e ritagliate in quadretti di 8 x 8, sono rimaste sul nostro tavolo di lavoro: l’impresa di organizzare la ricchezza di tanto materiale
ci sembrava oltremodo difficile. Abbiamo poi riscontrato che le planimetrie si ritrovavano in gruppi in maniera quasi naturale, a volte per similitudini  morfologiche, altre volte perché i progetti erano accomunati dalla volontà di disegnare uno spazio pubblico, oppure perché si esprimevano su un’idea di città in senso più ampio.
Ci siamo domandati a lungo se mettere dei titoli alle 27 tavole che compongono la versione dell’Atlante a cui siamo giunti. Alla fine, benché durante il lavoro ogni
quadro abbia avuto un suo motto, abbiamo deciso che sarebbe stato più interessante lasciare intuire al lettore le ragioni che ci hanno guidati. Ci piace anzi pensare
che il lettore possa criticamente immaginare altri modi di costruire questo stesso Atlante.
La sequenza in cui sono disposte le 27 tavole racconta di una città che si fa via via meno densa, rarefatta, sfrangiata, con regole meno esplicite. Oppure al contrario
racconta di una città che diventa, nello scorrere delle pagine, più complessa, stimolante, più aderente alle istanze dell’abitare contemporaneo.
Noi stessi ci siamo stupiti nel constatare apparenti coincidenze: alcune volte compaiono nello stesso quadro più lavori di uno stesso progettista, fatto che abbiamo
interpretato come convergenza tra certi temi urbani e certi modi di affrontare il progetto residenziale. Altre volte uno stesso tema è esemplificato da più lavori realizzati sulla stessa città, o su idee di città simili: ciò significa che in effetti le diverse realtà urbane offrono temi che sono loro specifici, che in qualche modo le rendono, da questo punto di vista, riconoscibili e uniche. Tuttavia è anche lecito pensare che siano le opportunità reali offerte dal contesto, in termini di  pianificazione o di richiesta del mercato a determinarne la forma. Oppure sognare che un contesto culturale possa ancora incidere sul disegno delle nostre città.
L’Atlante, in questo senso, vuole essere interpretabile, provvisorio. Non pretende di dare alcuna risposta; ci auguriamo piuttosto che contribuisca a stimolare nel lettore curiosità e interesse.

CASA E CITTA’: MILANO VERSUS EUROPA, IERI E OGGI

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Oggetto di questo lavoro è una riflessione sulle recenti opere costruite a Milano, in particolare sui nuovi quartieri residenziali realizzati dalla metà degli anni novanta ad oggi. Si tratta di grandi comparti, spesso aree industriali dismesse, di rilevante consistenza, che sono state riconvertite alla città. La loro estensione ne fa oggetto di uno speciale interesse, per la ricchezza dei temi che avrebbe potuto suscitare, in contrasto con le soluzioni realizzate, spesso ripetitive e convenzionali. Quello che si vorrebbe mettere in evidenza, confrontando la nostra esperienza locale con altre realtà esterne all’Italia, è individuare una serie di temi su cui la città europea si sta interrogando, su cui sta lavorando con continuità, per valutarne l’impatto nelle recenti realizzazioni milanesi. Le variazioni sulla scala urbana, la conferma o la rottura della trama, il rapporto con la strada o il controllo dell’altezza non sono solo le strategie progettuali che le migliori esperienze europee attuali stanno mettendo in atto, ma in fondo sono sempre stati concetti su cui hanno lavorato anche i maestri milanesi della generazione del dopoguerra, il cui studio permette di scoprire ancora oggi molte interessanti soluzioni progettuali.

Gli elaborati grafici che accompagnano queste riflessioni sono stati redatti in occasione della pubblicazione, avvenuta nel 2009, del numero dedicato a Casa e città di QA24, la rivista del Dipartimento di Progettazione dell’Architettura, diretto allora da Massimo Fortis. Il tentativo intrapreso con il ridisegno dei nuovi quartieri, progettati e realizzati tra il 1997 e il 2007, non era solo quello di documentare in un’unica mappa tutti i recenti interventi, ma anche quello di rendere confrontabili, per realtà volumetrica, le planimetrie dei diversi comparti; una campagna fotografica, realizzata da Marco Introini, ne documentava inoltre la loro realtà fisica e costruttiva.

A una prima lettura era apparso subito evidente che vi erano numerosi tratti comuni tra i diversi interventi, quali ad esempio l’uso ripetuto del tipo della corte aperta o la serialità dell’edificio in altezza, piuttosto che un’indifferenza alle variazioni dei piani in altezza o all’altezza di gronda dell’edificio, che trasformavano ogni singolo intervento in un’occasione persa rispetto alla potenziale complessità che ogni contesto avrebbe potuto sollecitare. Ma una lettura più precisa oggi non può fare a meno di valutare questi interventi in un tempo più lungo, in una storia europea più complessa, dove la formalizzazione di alcune idee della modernità, la sperimentazione sul campo e la declinazione nei contesti, si è rivelata spesso molto feconda. Così come il razionalismo aveva trovato in terra lombarda un proprio carattere, così la città della contemporaneità europea è sicuramente stata un riferimento per le opere recenti.

Innanzitutto è utile chiarire l’attualità di quel felice momento della storia architettonica milanese che, a cavallo della seconda guerra mondiale, ha saputo interpretare i principi della città razionalista nord europea, con una adesione più immediata nei primi quartieri modello progettati tra il 1938 e il 1940 e successivamente interpretati nella maniera lenta con cui si costruirà la città del dopoguerra. Una maniera in cui la nuova architettura si integra e si coniuga con un particolare carattere “urbano” della città, solido e severo, già formato con la controriforma, e poi consolidato con il Piermarini e i progetti della Commissione d’Ornato nel periodo neoclassico.

La ricerca sull’urbanità, nel caso di architetti lombardi come Muzio, Gardella, Asnago e Vender, o Caccia Dominioni, era già una tradizione di lavoro quasi inconsapevole, con cui hanno ricostruito con naturalità la nuova città, dominando un ricco repertorio di strumenti compositivi, appresi in continuità con l’esperienza storica e rivisitati con gli occhi della modernità.

Un mondo, e soprattutto una professione, in gran parte scomparsa negli anni successivi, in cui le estremizzazioni della teoria e della politica ne hanno minato le basi. I discutibili esiti dei grandi interventi residenziali della Milano attuale non possono che essere riletti in questa prospettiva, ben consapevoli che il progetto della residenza in Europa è oggi il risultato di un’idea di città dove l’eredità del moderno ha trovato nella continuità del lavoro una sua lenta integrazione nella pratica professionale. Penso sicuramente alla Svizzera e alla Germania, ma anche ai paesi scandinavi e alla loro influenza sulla recente architettura iberica. Finiti i tempi delle sperimentazioni più ardite, la professione si è concentrata, nel caso della residenza in Europa, alla costruzione della reale architettura della città.

L’architettura della città[2] scritta da Aldo Rossi, si occupava in gran parte della definizione teorica e storica del valore della città, sapendo inserire il moderno nella continuità della storia urbana, ma proponeva poi solo architetture iconiche, oggetti ready made che difficilmente sapevano declinarsi, soprattutto sul tema dell’abitare collettivo, nei caratteri del contingente e del contemporaneo: la scelta dell’immagine dell’archetipo per la sua coerenza urbana sembrava sufficiente a risolvere la città e si poteva dimenticare la ricchezza della parola linguaggio. Il collage in fondo aveva proprio questo significato: l’intercambiabilità dell’oggetto architettonico, non la sua integrazione, declinazione, variazione, compromissione con l’ambiente, come proponeva invece negli stessi anni Maurice Cerasi[3].

La città italiana sta ancora pagando l’approccio troppo raffinato, afasico ed elitario di Rossi, come ben sottolinea Bernardo Secchi: «vorrei sottolineare il rapporto tra oggetto architettonico e architettura della città. Io parto dal presupposto che la seconda parte del secolo scorso è stata colpita da una grave forma di miopia critica; non ci si è resi conto che ciò che stava progressivamente venendo a mancare, era soprattutto l’architettura della città, che si costruivano nella città degli oggetti architettonici, e che l’affermare sempre più la loro individualità avrebbe cancellato il loro significato; essi si perdevano, come i quattromila grattacieli di Shanghai, nel camouflage collettivo dei metronomi [del Poème symphonique] di Ligeti. Si disponeva delle parole, ma non si riusciva a organizzare il discorso. »[4]

Forse possiamo azzardare l’ipotesi che la distanza degli esiti progettuali milanesi dai felici recenti interventi europei, dipenda da questa interruzione in una ricerca lunga sul linguaggio e sulle forme dell’urbanità. L’architetto torinese Carlo Mollino aveva già intuito questo rischio nel rapporto con la tradizione dell’architettura italiana quando ci ammoniva: «La decadenza dell’architettura comincia dal giorno in cui si volle parere anziché essere, in cui si volle evadere verso l’espressione orecchiata di un mondo che non era più il nostro, quando con astratta e presuntuosa cultura, a differenza di quanto era nel cuore del Rinascimento, si volle risalire una tradizione. Da quel giorno l’architettura non ebbe più un volto; incapace di interpretare il suo tempo, incapace di far rivivere trasfigurati da un attuale sentimento quelli con tanta sicumera invocati.»[5]

Mollino scrive queste parole nel 1946, negli stessi anni in cui Luigi Moretti dirigeva i pochi e fondativi numeri della rivista Spazio, e in cui sperimentava, come vedremo, sul corpo della città nuove spazialità. Carlo Mollino e Luigi Moretti, nei loro scritti, ci hanno lasciato le parole per capire l’evoluzione, le variazioni e le integrazioni di un’idea d’architettura vista sempre in continuità con la storia, fatta dall’interno, dal suo essere nell’attuale: un tempo pieno di attualità, diceva W. Benjamin. Tutti i migliori progetti realizzati a Milano in quegli anni hanno questo forte carattere sperimentale, in cui la tradizione e il moderno non cercano di differenziarsi, bensì si declinano nei caratteri dell’urbanità del proprio tempo.

Il vocabolario descrive il termine urbanità come «Modo di comportarsi civile e cortese nei normali rapporti con altre persone», mentre l’urbanista tedesco Sieverts ci spiega che il concetto di urbanità si fonda «su un’immagine idealizzata della città borghese europea, nella sua articolazione dei secoli XVIII e XIX. […] nelle città abitate da borghesia illuminata. »[6] E ancora, forse più precisa sui caratteri architettonici, è la definizione di Françoise Choay, «urbanità è l’adeguamento reciproco di una forma di città costruita, e della sua configurazione spaziale, e di una forma di convivialità».[7]

Nel caso della città di Milano e dell’architettura del Novecento, questa urbanità è sicuramente voluta in alcuni importanti esempi, come il fuori scala dell’isolato urbano della Ca’ Brutta di Giovanni Muzio, in cui il grande blocco del condominio residenziale si spacca ad accogliere un tratto di strada interna, uno dei primi esempi in cui l’edificio stesso si fa città.

Ma forse l’esempio più chiaro dell’integrazione dell’architettura del razionalismo nella tradizione è rappresentato dall’opera di Giuseppe Terragni; quando costruisce Casa Rustici in Corso Sempione a Milano nel 1936 si trova a confrontare due idee di città: da una parte l’idea della città razionalista tedesca, cui si devono i due corpi di fabbrica paralleli, che seguono le prescrizioni dell’asse eliotermico, dall’altra la città tradizionale, che vedeva il fronte principale, il basamento e il cortile come i temi urbani imposti dal regolamento edilizio: la disposizione dei corpi di fabbrica, perpendicolari al grande boulevard urbano, sembra rispondere con decisione ai principi dell’orientamento, ma la rotazione dei due corpi si stempera poi nella ricerca di un’unità, di una compattezza si direbbe oggi, che l’orizzontalità delle terrazze tiene insieme e ricompone.

Prima della guerra la cultura razionalista di Casabella si esprime nel disegno dei grandi quartieri satellite delle case popolari, ripresi in seguito nei progetti manifesto della Milano Verde o della Città Orizzontale di Diotallevi e Marescotti. Nel dopoguerra questa esperienza apparentemente astratta si articola invece sull’intera città, ricostruendo i grandi brani distrutti dalla guerra: proprio questi progetti dei maestri milanesi, la cui coralità non fa che consolidare l’immagine severa della città operosa, possono essere letti come una serie di temi architettonici che interpretano l’urbanità dell’abitare in città, primo fra tutti il tema dell’altezza, strumento di controllo del contesto tramite la scala urbana.

Basti pensare al Quartiere Harar, alla variazione di scala tra il tessuto omogeneo delle case a patio e alla contrapposizione degli edifici in linea che si sviluppano in altezza: in questo progetto è presente quella sensibilità per i rapporti spaziali, quella modulazione, come la chiamava lo scultore Fausto Melotti, che sembra invece mancare alle sistemazioni più recenti.

Modulazione e articolazione spaziale: ci ricorda nuovamente Thomas Sieverts che vi sono tre tipi di densità: quella edilizia, che indica il rapporto tra suolo ed edificato, la densità sociale, e la densità apparente, che misura il grado di apertura visuale dello spazio.[8]

La ricerca di nuove spazialità caratterizza proprio gli studi di Luigi Moretti, e si realizza al meglio nell’edificio di Corso Italia, costruito nel 1955 a Milano, architettura tutta risolta nel gesto espressivo del rifiuto della strada del corpo alto in contrapposizione al basamento su cui appoggia, che invece ne ribadiva la continuità.

La soluzione morfologica trova anche nel linguaggio architettonico, che ci piace confrontare con gli sfalsamenti e le rotazioni dei migliori progetti di Asnago e Vender a Milano, una sua adeguata risposta.

E il pensiero non può non correre ai fotogrammi del cinema di Antonioni, girati proprio in queste architetture moderne milanesi, di cui usava la bellezza per parlarci della modernità e del disagio, della nostra impossibilità di sfuggire al fascino di quell’urbanità non voluta, in un’accettazione rassegnata della nuova scala urbana. Così come fecero Asnago e Vender accettando la densità della città del dopoguerra e realizzando nell’edificio di via Lanzone il confronto tra la scala della città antica su strada e la libertà del corpo del moderno verso il giardino.

Ognuno di questi architetti ha dato una risposta precisa a questa idea di città che si andava configurando, ognuno ne ha dato una declinazione particolare, scegliendo di lavorare sui temi dell’urbanità come revisione del moderno dall’interno, fino ad articolare una lingua elegante e raffinata, urbana e domestica allo stesso tempo, vivibile dal cittadino e dall’abitante. Hanno cioè saputo tenere insieme due poli apparentemente così uniti, ma anche così diversi, se analizzati nei loro statuti. La città, con le sue crude realtà economiche e funzionali, e l’architettura, con il suo carattere, i suoi materiali, il suo linguaggio.

L’hanno saputo fare in molti modi, con quella naturalità costruttiva che li pone in continuità con il carattere severo ed efficace che questa città possiede, ma sempre sapendo confrontarsi con le nuove strade indicate dalle sperimentazioni loro contemporanee.

Tutti questi esempi ormai famosi ci permettono di affinare lo sguardo con cui osservare le sperimentazioni più recenti, in cui anche il tema della strada, e tutte le sue variazioni fino alla soglia, è divenuta occasione per rompere i limiti dell’edificato, per stabilire nuove relazioni tra interno ed esterno.

Non si può dire, infatti, che gli architetti che hanno progettato e costruito i comparti residenziali che s’insediano nelle antiche aree industriali non abbiano ripreso alcuni temi che fanno parte del dibattito internazionale contemporaneo: primo fra tutti l’esigenza di un ritorno a un’idea di struttura urbana su cui tessere la trama della residenza. Anche la grande dimensione dell’impianto, il suo preciso disegno spesso integrato con spazi pubblici o parchi urbani, consolidano un positivo carattere di riconoscibilità rispetto alla dispersione morfologica con cui si confrontano. La densità notevole dei nuovi interventi trova la sua espressione architettonica nel ritorno all’isolato urbano come una struttura consolidata, salvo poi tentare timidi ammiccamenti nella rottura della cortina sul quarto lato.

Gli anni recenti, la dismissione di grandi comparti industriali ha riportato all’attualità non solo i concetti di trama, isolato, maglia stradale, dimensione del lotto, ma anche la loro definizione architettonica e i loro caratteri, approfondendo i temi della cortina stradale, dello spazio interno a corte, e riconfermando spesso quella divisione tra interno ed esterno, che la città moderna aveva cercato di smantellare.

C’è una serie di esempi che hanno tracciato una genealogia della stato attuale: esperienze interessanti ed articolate, come l’obbligo del recupero dell’isolato ottocentesco a Berlino o, in anni più recenti, l’îlot ouvert di Portzamparc o il progetto delle città olandesi di “nuova fondazione”. Pensiamo alle grandi isole intorno a Rotterdam o Amsterdam, come Ijburg, che si è rivelata una ottima occasione per una verifica operativa: con la scelta consapevole di una scala e di una trama urbana e della sua applicazione al progetto si è infatti saputo alludere ad un’idea di città da cui questa deriva, in una sorta di sineddoche particolarmente esplicita per il cittadino e l’abitante.

In un momento in cui l’urgenza della densità ci obbliga alla compattezza, queste sperimentazioni, così come il fondamentale ruolo del contrasto di scala di cui abbiamo parlato, permettono di ricavare le giuste “misure” su cui il progetto doveva essere impostato, e di suggerirne le sue possibili declinazioni e variazioni.

Recentemente anche la città di Milano ha affrontato questo tema in maniera esplicita: la nuova Commissione per il Paesaggio ha redatto in una breve cartella alcune sensate norme, utili appunto a “fare più città”[9]; tra queste possiamo vedere enunciato e auspicato il ricorso all’idea dell’isolato, dello spazio interno, nel riconoscimento dei caratteri positivi che questa morfologia necessariamente richiede ed evoca.

Certamente tutte queste esperienze sono indagini sui caratteri di una nuova urbanità, decisamente più consapevole rispetto alla frammentazione che ha prodotto una delle città diffuse più ampie d’Europa, realizzata senza controllo e in sordina negli anni settanta e ottanta; tuttavia gli esiti architettonici dei nuovi quartieri residenziali non ci restituiscono una loro interpretazione nel linguaggio architettonico.

Non è il caso di infierire sulla limitatezza degli strumenti messi in atto nell’esperienza dei Piani di Recupero Urbano (PRU) milanesi, si è voluto piuttosto cercare di inquadrare le domande che sarebbe stato bene che fossero poste, per individuarne alcune risposte operative da un lato nelle parallele esperienze delle grandi città d’Europa, dall’altro in un recente passato che vede concretizzarsi nelle figure dei maestri degli anni cinquanta di Milano un ventaglio di esperienze molto ricche e articolate, che meritano ancora di essere riconosciute.

I migliori esempi europei si offrono all’abitante come evocazioni di idee di città, invarianti urbane verificate nelle variazioni della contemporaneità, tramite l’affinamento di strumenti progettuali ben chiari. Scala, trama, strada, altezza, caratteri del domestico sono mischiati e rintracciabili nell’intera storia della casa e possiamo riconoscere come ogni periodo ha preferito utilizzarli. La specificità del contemporaneo, forse, è quella di sapere accettare più di una visione, di preferire l’approfondimento di un ventaglio di soluzioni per operare scelte da adattare al contesto e alla situazione, come dimostrano gli esiti certamente più interessanti di una nuova urbanistica, che ha trovato espressione nella realizzazione dei concorsi Abitare a Milano o nel recente lavoro sulla Strategia d’Intervento Locale del PGT.


[1] Dipartimento di Progettazione dell’Architettura del Politecnico di Milano.

[2] Aldo Rossi, L’architettura della città, Marsilio, Padova, 1966.

[3] Nel testo di Cerasi erano contenuti alcuni passaggi sul rapporto tra lo spazio, i vuoti e i suoi caratteri architettonici: alcuni concetti, come ad esempio l’unità stilistica, cromatica e percettiva, la tensione e il movimento, si offrivano come strumenti progettuali operativi, che sapevano articolare l’oggetto architettonico nel suo contesto, nel suo ambiente urbano.  Maurice Cerasi, La lettura dell’ambiente, CLUP, Milano, 1966.

[4] Bernardo Secchi, Villes sans objet: La forme de la ville contemporaine, Conférence Mellon CCA, 4 settembre 2008, p.2.

[5] Carlo Mollino, “Vedere l’architettura”, in «Agorà», settembre – novembre 1946, ora in L’architettura di parole. Scritti 1933-1965, Bollati Boringhieri, Torino, 2007, p. 284.

[6] «… designava più una forma di vita sociale e culturale, che la qualità di una struttura urbana o spaziale ben definita. L’urbanità sta a segnalare il comportamento aperto e tollerante dei cittadini, sia tra di loro che nei confronti degli stranieri. […] Invariabilmente contrapposta al provincialismo, l’urbanità evoca la conoscenza del mondo, l’apertura dello spirito e la tolleranza, l’acutezza intellettuale e la curiosità. » Thomas Sieverts, Entre-ville, une lecture de la Zwischenstadt, Editions Parenthèses, Marsiglia, 2004, p. 35-37.

[7] Françoise Choay, Le règne de l’urbain et la mort de la ville, in AAVV, La ville, art et architecture en Europe 1870-1993, Centre Pompidou, Parigi, 1994.

[8] Thomas Sieverts, Op. Cit., p. 44.

[9] “Edifici: Un’attenzione speciale è riservata alle soluzioni dei piani terra e dell’attacco al suolo, sia per gli aspetti formali che per le attività ospitate. Si vuole favorire il mantenimento e la rivitalizzazione dello spazio stradale, il progetto degli spazi a verde quando presente, la relazione eventuale con le costruzioni contigue in un rapporto non necessariamente mimetico. I processi in corso di sostituzione edilizia obbligano anche in questo caso a un’interpretazione dei contesti e alla consapevolezza che ogni singolo edificio concorre a determinare le componenti del paesaggio pubblico della città. Complessi di più edifici: Anche in questo caso si vuole indurre a fare ‘più città’ cercando quanto possibile di costituire spazi stradali pubblici, isolati, giardini, ecc. caratterizzati da permeabilità e interconnessioni con i quartieri circostanti. Verranno apprezzate le proposte che propongono i valori di prossimità, convivenza, coesistenza nel contesto di un’architettura urbana.” Pierluigi Nicolin, Manifesto degli indirizzi e delle linee guida della Commissione per il Paesaggio del Comune di Milano, verbale della seduta del 4 febbraio 2010.

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intervista

Bruno Melotto e Orsina Simona Pierini
HOUSING PRIMER, Le forme della residenza nella città contemporanea
Maggioli Editore, novembre 2012

INTRODUZIONE

INVARIANZA E PERTURBAZIONI, Massimo Fortis

VERSO UN’URBANITA’ DIFFUSA, Orsina Simona Pierini

APPUNTI DAL BALCONE, Carmen Díez Medina

L’INQUIETUDINE DELL’ABITANTE, Bruno Melotto

ATLANTE URBANO DELLA RESIDENZA

VERSO UN’URBANITA’ DIFFUSA

 

oud anton

Se penso a casa e città, non posso fare a meno di associare queste parole a una immagine: una fotografia del 1927 del quartiere Kiefhoek, realizzato dall’architetto olandese JJP Oud alla periferia di Rotterdam. La fotografia ha un punto di vista molto particolare: il fotografo sceglie di occupare gran parte del negativo con l’ombra della pensilina sotto la quale scatta la fotografia; dall’altra parte della strada possiamo vedere come una identica pensilina si pieghi ad abbracciare la serie di case a schiera allineate in cui sappiamo riconoscere tutta la tradizione della casa olandese del lotto gotico[1]. La poesia del linguaggio architettonico ne fa sicuramente uno degli esempi più amati di un’idea di città-colonia che sembra anche raccogliere l’eredità dell’utopia della città giardino: la disposizione nella natura delle case basse in linea, l’orizzontalità dell’elemento decorativo e delle finestre, l’intonaco bianco corrispondono a tutti gli effetti all’immagine che ci siamo fatti della città del Moderno.

Un uomo ci fornisce anche la misura esigua della pensilina che stiamo osservando e, insieme alla maniglia della porta aperta in primo piano, ci riconduce con grazia alla dimensione domestica, coerente con il senso di protezione inconsciamente percepito sotto l’ombra. Una condizione duplice, dunque: il controllo della scala della città antica, della città a misura d’uomo e nello stesso tempo la modernità di una nuova urbanità disegnata nel dettaglio dall’architetto dell’avanguardia de Stijl.

In quello stesso anno 1927 August Sander[2] scatta a Colonia una fotografia a Anton Raederscheidt: il pittore ritratto con un severo cappotto nero, completo di accessori quali guanti, cappello, colletto inamidato e cravattino, elegante intellettuale, testimone di un’epoca, è l’unico inquietante abitante di una larghissima strada urbana, che sembra solo aspettare l’arrivo delle macchine. I marciapiedi, bianchi e vuoti, sono irrigiditi dalla ripetizione di alloggi montati nella figura della cortina stradale alta sei piani[3]. Gli infiniti blocchi residenziali della città ottocentesca tedesca sono rivestiti da basamenti e bugnati, che assumono lo stesso carattere rappresentativo del cappotto nero, allineati uno di fianco all’altro, quasi a negare una qualsiasi articolazione volumetrica e quindi nessun rapporto con spazialità interne all’isolato. Non vi è nessun disegno urbano, se non l’ossessiva sommatoria di appartamenti, ma il carattere metafisico della fotografia ci trasmette una sensazione di unità compiuta.

Da buoni architetti educati alla cultura del moderno, sappiamo istintivamente per chi tifare: Oud e la sua elegante, delicata declinazione dell’abitare. Ma se invece ci pensiamo cittadini, o anche solo turisti in arrivo a Parigi, non siamo forse attratti dalla vera scala della città moderna, così bene rappresentata dalla novità del ritratto di August Sander?

Quale è dunque la città moderna? Quella che ci ricorda i bei tempi del felice matrimonio, intonacato di bianco, tra lotto gotico e città mercantile o la cruda densità mostrata dalla foto di Sander[4]? Certo, si risponderà, l’uno è la negazione dell’altra, ma oggi, dopo un secolo di risposte realizzate, vissute, abitate e sofferte, da quale di questi esempi possiamo realmente ricavare il carattere di urbanità che ci serve a progettare la città contemporanea? Vogliamo essere cittadini o abitanti?

ARCHITETTURA DELLA CASA O ARCHITETTURA DELLA CITTÀ?

O ancora: ci vogliamo ancora rifugiare nell’architettura del villaggio o siamo costretti ad accettare solo l’architettura della metropoli? Queste le domande che il progetto della residenza contemporanea pone: i testi che seguono partono dal presupposto che la recente sperimentazione sia interessata a un’idea di città i cui caratteri ed elementi si sono andati affinando in un tempo lungo, dove il ruolo della casa è stato determinante. Finiti i tempi delle prese di posizione, passato sì – passato no, moderno sì – moderno no, o delle sperimentazioni più ardite, la professione si è concentrata, soprattutto nel resto d’Europa, alla costruzione della reale architettura della città.

L’atteggiamento che si è riscontrato nel periodo storico preso in considerazione, cioè nell’architettura dell’abitare del nuovo millennio, o quantomeno la posizione condivisa da un gruppo colto di figure che lavorano nell’ambito della residenza, è quello della conoscenza di un passato ampio, che non disdegna la tradizione, né la sperimentazione del moderno, bensì li coniuga con coerenza, perché ne controlla gli esiti con il linguaggio, con la scelta precisa degli elementi e con l’equilibrio della loro materializzazione attraverso la costruzione.

Si lavora da tempo su una base comune e condivisa, di cui possiamo ormai riconoscere una serie di temi, che vanno dallo spazio urbano, fino alle sperimentazioni sull’alloggio: la nostra ricerca nasce dall’esigenza di sistematizzare questo lavoro collettivo, di riconoscerne i tratti di continuità con il passato, ma soprattutto di cercarne la base comune, l’atteggiamento che li rende progetti del nostro tempo, nostri contemporanei.

Un aspetto curioso, forse mai riscontrato nella storia dell’architettura, è che la progettazione della residenza è diventata ambito di alcuni studi collettivi, non più intestati a cognomi famosi, ma ormai accomunati da sigle; l’esperienza più articolata di questo carattere collettivo è rappresentata dall’Olanda, non a caso il luogo dove si realizzano interi piani urbanistici e dove la proprietà comune dei terreni e il felice rapporto con le istituzioni ne fa un oggetto di speciale attenzione in queste pagine.

Come è noto l’architettura residenziale si differenzia dal resto della produzione architettonica sostanzialmente per due necessità che deve assolvere: la prima riguarda l’idea di pensarsi sempre in un contesto, in una coralità come tiene a precisare nel suo saggio introduttivo Massimo Fortis; la singola casa è uno dei tanti mattoni che costituiscono l’immagine della città, esattamente all’opposto dell’edificio pubblico, non a caso incasellato nello schematismo del positivismo ottocentesco, come rappresentativo. L’altro aspetto, in parte complementare, è quello che riguarda il ruolo di ridosso che la casa deve necessariamente assumere.

La sua condizione pubblica e collettiva, ma nello stesso tempo ripetuta e seriale, ne ha fatto oggetto di studio per tutto il secolo passato, come ben sottolinea Bernardo Secchi: “Due di queste tendenze mi sembrano essenziali: da un lato, l’affermazione sempre più forte del valore della diversità nelle sue declinazioni più svariate e, dall’altro, la ricerca continua dell’integrazione e della continuità. Durante il tutto il secolo scorso, architetti e urbanisti hanno lavorato per fornire una soluzione alla contrapposizione, tipicamente moderna, tra l’ideale della autodeterminazione e le esigenze di socializzazione.”[5]

Ed è proprio a partire da questo contradditorio problema compositivo, di continuità e frammento, che abbiamo provato a leggere le realizzazioni degli ultimi anni.

Attribuendo al periodo attuale la fortunata occasione di concentrarsi sulla costruzione, la ricerca parte infatti dai progetti costruiti, dalla realtà fisica e percettiva, dai loro materiali e dalle loro misure, per studiare la scrittura fine di questa contraddizione secondo alcuni precisi temi urbani, già tutti compresi nella storia della città, ma che assumono i tratti del contemporaneo per una certa disinvoltura tipologica, per la sapienza del controllo dei contrasti di scala, per un apparente ritorno alla scacchiera urbana, o per la ricerca aperta sull’altezza giusta, nella convinzione ormai genetica dell’importanza degli spazi dell’abitare, da ripensare nelle declinazioni della domesticità della disposizione urbana e dei caratteri costruttivi.

La nostra analisi sulla città contemporanea costruita ha dunque assunto il carattere di verifica delle urgenze del contemporaneo con gli strumenti di sempre, in un’idea di contemporaneo forse più pacata, più reale, dove si cercano le sperimentazioni più equilibrate, più complesse e forse meno programmatiche. Il contemporaneo cui ci piace fare riferimento, a cui si è guardato, non è il contemporaneo altisonante dei grandi numeri e delle grandi migrazioni, dei capovolgimenti epocali e del dominio delle infrastrutture. Certo, queste sono le condizioni oggettive del nostro vivere, ma il nostro interesse come ricercatori riguarda, ad esempio, la densità come strumento qualitativo, invece che quantitativo, per arrivare a porsi la domanda se costruire in altezza o per blocchi, invece di gridare forte le urgenze ecologiche che ci costringono alla densità. Questo è stato fatto da tempo ed è ormai diventato programma delle grandi municipalità: nel recente piano Le grand Paris, tra i principi fondamentali delle proposte sull’alloggio vi sono indicati Favorire Mixité e Prossimità, Legare densità e intensità, Nuove tipologie e Costruire sui tetti.[6]

L’EREDITÀ DELL’ARCHITETTURA MODERNA

Non più teorie astratte sulle metropoli, sulla sostenibilità, o ancora, discussioni sul senso della tradizione, ma un uso preciso e descrittivo dell’esperienza della storia, che la sappia scandagliare analiticamente nei suoi universali, e la sappia dunque vedere come sempre attuale e presente nelle nostre scelte di progetto. Questa posizione attribuisce un ruolo importante alla storia, facendo esplicito riferimento a una idea di storia senza tempo, un “tempo pieno di attualità” [7]. Qualcosa di molto simile a quello che faceva nel suo Atlante Aby Warburg: scardinare la linearità storica a favore dei temi. In questa ottica siamo obbligati a rimandare la bellezza del luogo ad altre indagini, per il carattere di eccezionalità che impone sulle scelte di progetto. Questo spiega, almeno in parte, perché sono stati lasciati indietro quegli esempi che trovano la loro ragione d’essere soltanto nel contesto.

Gli strumenti dunque per leggere le pagine che seguono sono pochi: occorre sapere e riconoscere che la città occidentale è formata da pochi elementi la cui declinazione si è costruita sulla concretezza delle tante diverse città che l’hanno realizzata[8]. La casa a corte antica, il lotto gotico della città mercantile nord europea, la misura dell’isolato compatto e la sua relazione con lo spazio pubblico, strada o piazza, come l’edificio in altezza della nuova città, non sono solo tipi edilizi, ma anche scale e idee di città, immagini di abitare che architetto e cittadino dovrebbero condividere, nella doppia vocazione che la casa ha, da un lato di protezione e intimità e dall’altro di portamento pubblico.

Proprio in riferimento all’idea della storia, preme ancora una volta precisare il ruolo che questa ha avuto nell’architettura moderna: così come possiamo riconoscere la scala della città medievale nelle misure e nella ripetizione del tipo abitativo della casa a schiera, così come conosciamo bene le battaglie contro la densità della città ottocentesca e la sua riduzione a blocco compatto, in cui i caratteri contrapposti di interno ed esterno hanno trovato la loro massima estremizzazione, e così come siamo ancora affascinati dalla nuova scala della città metropolitana, allo stesso modo siamo consapevoli che le opere del moderno hanno saputo scardinare questi schematismi, introducendo importanti variazioni che hanno costruito un’immagine di paesaggio urbano completamente diversa.

L’architettura del movimento moderno ha saputo infatti riconoscere, criticare e nello stesso tempo riutilizzare le idee di abitare cui questi modelli si rifacevano, l’individualismo della casa schiera, la densità ossessiva della città che a partire dalla metà dell’ottocento aveva demolito le mura urbane e debordava nella campagna e nello stesso tempo ha saputo offrire una nuova idea di spazio dell’alloggio e una scala urbana adeguata, fino a ipotizzare una nuova dimensione dell’abitare nell’edificio in altezza. Ci ha infine offerto una declinazione ricchissima di articolazioni sul suolo del corpo edilizio, di distribuzioni in edifici in linea che disegnano il paesaggio, la natura, che è così entrata a far parte in modo decisivo di un disegno urbano che non l’aveva mai compresa, se non nel caso di pochi, privilegiati, esempi.

Ma l’architettura del movimento moderno ha saputo anche ragionare su un’idea inedita di spazio interno dell’abitare, come il solo riferimento alle case unifamiliari di Mies van der Rohe o di Le Corbusier basterebbe a spiegare, ed ha disegnato ogni singolo dettaglio di questo nuovo mondo abitato, dove le porte d’ingresso, le scale, le finestre, gli elementi distributivi, fino ai materiali da costruzione, non solo partecipavano alla nuova immagine della casa, ma sapevano anche comunicare quei caratteri di protezione e rappresentatività di cui abbiamo parlato.

In un suo recente saggio[9], Rafael Moneo ha evidenziato le differenze tra la modernità, in particolare su alcuni concetti, e la contemporaneità: il suo raffinato e corposo ragionamento sulle analogie e le differenze nell’uso dello spazio, del linguaggio o della struttura ci è utile a comprendere il grado di disinvoltura del nostro momento attuale, ma anche a riconoscere per contro, nel caso della progettazione residenziale europea, una continuità di lavoro soprattutto nei paesi che ne hanno accettato senza soluzione di continuità la sua lenta integrazione nella pratica professionale. Penso sicuramente alla Svizzera e alla Germania, ma anche ai paesi scandinavi e alla loro influenza sulla recente architettura iberica. Il moderno con cui ci confrontiamo dunque è quello eroico, ma è certamente anche quello presente nelle integrazioni nella città storica e nelle sue molte declinazioni sperimentate nelle grandi città.

FERRI DEL MESTIERE

Chi si trova a progettare oggi non può dunque non confrontarsi con questa eredità, non tanto dal punto di vista teorico, ma con la curiosità di vedere come si costruisce lo spazio dell’abitare e di come la pluralità delle case possano diventare città nel loro insieme. Lo sguardo, se si vuole intenzionalmente ingenuo, che si propone è quello della lettura della città storica e moderna secondo alcune categorie progettuali, in modo da ricavare gli strumenti per la progettazione attuale: si potrebbero chiamare ferri del mestiere[10]. La nostra attenzione sarà dunque rivolta non solo agli elementi, ma ai caratteri d’uso degli elementi, non ai singoli manufatti, ma ai rapporti tra gli oggetti, al fine di ricostituire nuove sintassi, con la necessità di chiarire un linguaggio che parli attraverso le misure, le scale, le idee contenute nell’immediatezza delle diverse forme di città.

Il complesso rapporto che lega materialità dell’arte e linguaggio è stato ben espresso nel lavoro di Roman Jakobson, quando descrive “L’idea delle invarianti e variazioni, che accomuna le scienze odierne, deve essere applicata coerentemente […] Bisogna prestare la debita attenzione alle variazioni, ma senza per questo perdere di vista le invarianti universali che le sottendono. Sarebbe un errore metodologico, una semplificazione unilaterale, il trascurare uno dei due aspetti dell’analisi, ovvero trascurare la definizione dell’invariante o ignorare la variazione. Solo tenendo conto in modo vigile e costante delle invarianti potremmo superare un cieco empirismo e creare, invece di una tassonomia superficiale, una adeguata sistematizzazione delle strutture […] sui rapporti tra piano fisico e grammaticale della lingua.”[11]

Il linguista russo, che ci offre una struttura metodologica precisa su cui lavorare, ci riporta anche alla necessità di una attenzione alla fisicità e ai rapporti tra le parti, che abbiamo voluto chiamare apposta i ferri del mestiere, proprio per alludere al carattere artigianale[12] del fare, alla materialità del costruito, alla scommessa della durata[13].

Devo a Bruno Reichlin non solo la conoscenza dello studioso del linguaggio, ma soprattutto l’ostinata capacità di applicare questo metodo alle sole parole della nostra disciplina, in modo tale da riconoscere i “procedimenti” o “artifici compositivi” con occhi che vedono l’architettura.[14]

Ormai convinti della necessità di tornare a parlare con i soli ferri del mestiere della nostra disciplina, usiamo ancora il confronto con l’allusione al linguaggio comune e trasmissibile per riflettere sulla condizione vocale dell’architettura, sulla riconoscibilità dei suoi caratteri urbani, ma anche sulla ricerca di silenzio e anonimato, che è un altro tratto caratteristico della coralità urbana cui abbiamo accennato: forse non vi è architettura che maggiormente coinvolga l’essere umano quanto la residenza, nel suo duplice ruolo di cittadino ed abitante[15].

Nel 1968 Alison Smithson raccoglie una serie di saggi dei componenti del TEAM 10[16] per esortare un lavoro sensibile ai temi della città. Si è scelto il termine Primer nel titolo proprio per il suo carattere didattico, per sfuggire alla trattazione teorica e ritrovare nel carattere strumentale della descrizione la necessità di una educazione al progetto; nostro interesse è la descrizione analitica, anche grafica, dei procedimenti compositivi sulle parti, riconoscendo proprio nelle invarianti e nelle variazioni, e dunque nei processi di addizione, sovrapposizione e variazione, gli strumenti operativi con cui possiamo prima parlare e successivamente progettare.[17]

Ci scopriamo così a misurare un  allineamento, e, allo stesso modo, ci piace lasciare entrare un po’ di città nei nostri isolati, o ci sorprende con piacere l’intrusione nella severità della cortina stradale di una spazialità inaspettata o di un carattere domestico che alle volte la risolve.

DAL PROGETTO URBANO ALL’URBANITÀ

L’architettura della città[18] si occupava in gran parte della definizione teorica e storica del valore della città, sapendo inserire il moderno nella continuità della storia urbana, ma proponeva poi solo architetture iconiche, oggetti ready made che difficilmente sapevano declinarsi, soprattutto sul tema dell’abitare collettivo, nei caratteri del contingente e del contemporaneo: la scelta del tipo e la sua coerenza urbana sembravano sufficienti a risolvere la città e si poteva dimenticare la ricchezza della parola linguaggio. Il collage in fondo aveva proprio questo significato: l’intercambiabilità dell’oggetto architettonico, non la sua integrazione, declinazione, variazione, compromissione con l’ambiente, come proponeva invece negli stessi anni e nella stessa città Maurice Cerasi.

La città italiana sta ancora pagando l’approccio troppo raffinato, afasico ed elitario di Rossi, come ben sottolinea Bernardo Secchi: “vorrei sottolineare il rapporto tra oggetto architettonico e architettura della città. Io parto dal presupposto che la seconda parte del secolo scorso è stata colpita da una grave forma di miopia critica; non ci si è resi conto che ciò che stava progressivamente venendo a mancare, era soprattutto l’architettura della città, che si costruivano nella città degli oggetti architettonici, e che l’affermare sempre più la loro individualità avrebbe cancellato il loro significato; essi si perdevano, come i quattromila grattacieli di Shanghai, nel camouflage collettivo dei metronomi [del Poème symphonique] di Ligeti. Si disponeva delle parole, ma non si riusciva a organizzare il discorso.”[19]

Nel testo di Cerasi[20] erano invece contenuti alcuni passaggi significativi sul rapporto tra lo spazio, i vuoti ed i suoi caratteri architettonici: alcuni concetti, come ad esempio l’unità stilistica, cromatica e percettiva, la tensione e il movimento, si offrivano come strumenti progettuali operativi, che sapevano articolare l’oggetto architettonico nel suo contesto, nel suo ambiente urbano.

Oggi la sua proposta si rivela quanto mai attuale, in un momento in cui non si lavora più per grandi assiomi, ma nella ricerca di un affinamento, come aveva ben pronosticato già nel 1997 Hans Kollhoff nell’articolo di Lotus che accompagnava la presentazione del suo sorprendente “fuori scala” di Amsterdam. Ci ammoniva Kollhoff:  “Il problema cruciale è quindi di capire se operiamo per distruggere la tradizione della città o per sostenerla. […] Il problema è quello di una paziente ricerca di affinamento. […] Il nostro compito è quello di progettare e costruire la norma, e non l’eccezione.”[21]

Possiamo dunque tornare ai due uomini descritti all’inizio, il tranquillo abitante che controlla la misura delle casette di Oud e il cittadino inquieto della borghesia urbana europea, per riformulare la domanda del contemporaneo: possiamo parlare di un carattere di urbanità che la casa ricerca oggi?

Così come la voce del vocabolario Treccani spiega il termine urbanità come “Modo di comportarsi civile e cortese nei normali rapporti con altre persone”, l’urbanista tedesco Sieverts ci spiega che il concetto di urbanità si fonda “su un’immagine idealizzata della città borghese europea, nella sua articolazione dei secoli XVIII e XIX. […] nelle città abitate da borghesia illuminata. Designava più una forma di vita sociale e culturale, che la qualità di una struttura urbana o spaziale ben definita. L’urbanità sta a segnalare il comportamento aperto e tollerante dei cittadini, sia tra di loro che nei confronti degli stranieri […] Invariabilmente contrapposta al provincialismo, l’urbanità evoca la conoscenza del mondo, l’apertura dello spirito e la tolleranza, l’acutezza intellettuale e la curiosità.”[22]

Forse ancora più precisa sui caratteri fisici, architettonici, è la definizione di Françoise Choay, “urbanità è l’adeguamento reciproco di una forma di città costruita, e della sua configurazione spaziale, e di una forma di convivialità”.[23]

Come forse già intuito, lo sguardo richiesto al lettore sarà dunque quello di riconoscere queste doti dell’urbanità nelle recenti costruzioni della casa, consapevoli del ruolo che avrà la lettura “ritmica” dell’esperienza spaziale, proprio per la sua capacità di farci intuire il movimento della vita che vi si deve svolgere, così come la convivialità diviene presupposto di densità e mixitè, spaziale, tipologica e funzionale.

Come possiamo descrivere l’urbanità di questi nuovi spazi dell’abitare? Non possiamo che pensarci nel passeggiare in queste architetture, nello scoprire un ridosso inaspettato o nel percepire una dimensione domestica all’interno di una sequenza urbana; seguendo la traccia del possibile abecedario che abbiamo voluto sperimentare nelle pagine che seguono, ci scopriamo dunque a usare i termini apparentemente più banali, ma soprattutto disciplinari, per descrivere questi progetti: spazio, corpo di fabbrica, arretramento, strada, rotazione, limite, apertura, etc… In questo senso sono stati scelti quegli esempi in cui i caratteri dell’urbanità fossero ancora portatori di un significato e potessero quindi offrirsi all’abitante come evocazioni di idee di città, come invarianti urbane, da verificare nelle variazioni della contemporaneità.

Scala, trama, strada, altezza, caratteri del domestico sono mischiati e rintracciabili nell’intera storia della casa e possiamo riconoscere come ogni periodo ha preferito utilizzarli orientandoli verso differenti idee di città. La specificità del contemporaneo, forse, è quella di sapere accettare più di una visione, di preferire l’approfondimento di un ventaglio di soluzioni per operare scelte da adattare al contesto e alla situazione.

L’urbanità ricercata si scopre quindi strettamente correlata a un’idea di città compatta rivisitata con gli occhi di chi conosce le conquiste sullo spazio del moderno, arrivando forse ad ipotizzare non più un progetto urbano, con la coerenza e unità che il termine progetto obbliga a pieno titolo, bensì una diffusa urbanità, riconoscibile nelle diverse scale e caratteri dell’abitare. In quest’ottica, forse si può tornare alla domanda: architettura della casa o architettura della città?

Nel volume il testo prosegue con:
Variazioni sulla scala
Disinvoltura Tipologica
La scacchiera urbana
Nuove soglie urbane
Altezza Conforme
Domesticità esibita

Schermata 2013-01-24 a 09.28.00 Schermata 2013-01-24 a 09.28.38 Schermata 2013-01-24 a 09.29.12 Schermata 2013-01-24 a 09.27.40


[1]Una foto molto simile è stata scattata anche nell’altro quartiere bianco di Oud, Hoek van Holland. Interessante notare il ruolo che Oud attribuisce al carattere domestico di questo semplice elemento.

[2] August Sander, Lichtbildner in Köln come scriveva sul biglietto da visita, ci ha lasciato un prezioso patrimonio documentale della nostra civiltà all’inizio del novecento, documentando innumerevoli tipologie umane e profondità infinite di paesaggi, ma raramente le città; questo è uno dei pochissimi scatti.

[3] Su questa misura avremo occasione di tornare nel capitolo sull’altezza.

[4] Non è certo questo il luogo per aprire al complesso discorso sulla modernità, che ha già trovato nella letteratura europea, da Charles Baudelaire e Walter Benjamin in poi, perfette descrizioni ed interpretazioni.

[5] Bernardo Secchi, Villes sans objet: La forme de la ville contemporaine, Conférence Mellon CCA, 4 settembre 2008, p.2.

[6] Le Grand Paris è il documento che raccoglie il Piano per il riassetto della Regione Parigina, legge adottata il 5 giugno 2010. I temi per “Costruire città sulla città” sono pochi ed espressi in poche pagine manifesto, accompagnate dalle proposte morfologiche redatte dai grandi nomi che operano sulla città. Jean Philippe Vassal & Anne Lacaton scrivono: “Dobbiamo costruire DI PIÙ costruire più grande, costruire CON, costruire MEGLIO e più economico. Dobbiamo andare verso il massimo invece di definire un minimo. Dovrebbe essere incoraggiato il cambiamento, invece di bloccare tutto. Si deve aggiungere anziché demolire. Densificare invece di disperdere.” Roland Castro propone di passare “Dal rinnovamento urbano al rimodellamento”, e Ateliers Christian de Portzamparc riprende il concetto degli “îlots ouverts e dei quartieri in evoluzione”.

[7] “L’origine è la meta”, il famoso aforisma di Kark Krauss, citato da Benjamin come incipit alla XIV tesi di filosofia della storia, presuppone che in ogni istante sia compresa la totalità del tempo. In Walter Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino, 1997, p.45.

[8] Si rimanda alla precisione del testo di Eric Firley e Caroline Stahl, The urban Housing Handbook, Wiley, Chichester, 2009, perché entra nella descrizione delle differenze, attraverso la misura e il ridisegno di confronto, di una serie di esempi che declinano queste poche idee di città nella complessità delle tante realtà urbane che le hanno costruite.

[9] Rafael Moneo, «L’altra modernità», in L’altra modernità, considerazioni sul futuro dell’architettura, Christian Marinotti, Milano, 2012, p. 83.

[10] Fruttero e Lucentini, I ferri del mestiere, Einaudi, Torino, 2003.

[11] Roman Jakobson, Dialoghi con Krystyna Pomorska, Laterza 1980, Castelvecchi, Roma, 2009, p. 77-78.

[12] Richard Sennet, ne L’uomo Artigiano, Feltrinelli Milano, 2008, spiega nel dettaglio l’importanza della pratica del fare e della sua descrizione e trasmissibilità.

[13] “gli edifici devono invecchiare bene per testimoniare nel futuro una memoria collettiva e poter divenire parte della storia di una città.” Hans Kollhoff, Costruzione urbana contro alloggio, in Lotus international, n° 94, 1997, pag. 101.

[14] “distinguere i diversi approcci estrinseci all’ architettura da quello intrinseco […] circoscrivere l’oggetto di una critica e di una storia intrinseca dell’ architettura e definirne i metodi e gli strumenti di indagine. Seguendo l’esempio dei formalisti par lecito preconizzare uno studio dell’ architettonicità dell’ architettura.” Bruno Reichlin, Prefazione, in Annalisa Viati Navone, La Saracena di Moretti, tra suggestioni mediterranee, barocche e informali, Mendrisio Academy Press, Mendrisio, 2012, p. 8-9.

[15] “La casa deve piacere a tutti. A differenza dell’opera d’arte, che non ha bisogno di piacere a nessuno. L’opera d’arte è una faccenda privata dell’artista. La casa no. L’opera d’arte viene messa al mondo senza che ce ne sia bisogno. La casa invece soddisfa un bisogno. L’opera d’arte non è responsabile verso nessuno, la casa verso tutti.” Adolf Loos, «Architettura», in Parole nel vuoto, Adelphi, Milano, 1980, p. 253.

[16] Team 10 Primer, a cura di Alison Smithson, Studio Vista, Londra, 1968.

[17] Vedi il capitolo Il concetto di trasformazione in architettura, in Carlos Martí, Arís, Le variazioni dell’identità. Il tipo in architettura. Clup, Milano, 1993, p. 102.

[18] Aldo Rossi, L’architettura della città, Marsilio, Padova, 1966.

[19] Bernardo Secchi, Villes sans objet: La forme de la ville contemporaine, Conférence Mellon CCA, 4 settembre 2008, p.2.

[20] Maurice Cerasi, La lettura dell’ambiente, CLUP, Milano, 1966.

[21] Hans Kollhoff, Costruzione urbana contro alloggio, in Lotus international, n° 94, 1997, pag. 101.

[22] Thomas Sieverts, Entre-ville, une lecture de la Zwischenstadt, Editions Parenthèses, Marsiglia, 2004, p. 35-37.

[23] Françoise Choay, Le règne de l’urbain et la mort de la ville, in AAVV, La ville, art et architecture en Europe 1870-1993, Centre Pompidou, Parigi, 1994.

materia

Il giovane critico americano, che nel 1931 stava girando per l’Europa a raccogliere i documenti per quella che sarebbe divenuta la famosa mostra sull’International Style, rimase colpito dalla visita compiuta a Berlino all’esposizione L’abitare del nostro tempo, dove Mies van der Rohe aveva esposto una serie di pannelli con le lamine delle venature di differenti legni, appese, ci racconta, come allora si faceva solo con «i quadri nelle regge»[1]. Per chi conosce l’architettura di Mies non è certo una sorpresa associare al suo nome l’eloquenza dei materiali, ma quello che stupisce è che questo interesse possa diventare il tramite per affrontare il tema della casa popolare e della sua realizzazione alla grande scala della metropoli moderna, tema allora pressante nel dibattito internazionale.
Mies espone lamine di legno, mostra sezioni di alberi, spaccati che esibiscono in ogni venatura un anno dopo l’altro, una storia lunga, così lunga da diventare senza misura di tempo, di nuovo primordiale. Mies allude all’importanza della scelta, sapendo come ogni taglio sia diverso dall’altro, per tipo, per materia, per colore, per durezza, per età: sarà la semplice scelta dell’artista che ne porterà uno solo in casa Tugendhat; ma è anche vero che ogni lamina è esposta come un quadro: viene considerata un capolavoro, è bella come un’opera d’arte.
In queste opere Mies van der Rohe non è interessato alla tradizione costruttiva di un materiale, cancella la complessità della storia della costruzione per tornare al carattere primordiale della materia pura, quasi a suggerire una teoria[2] fondata sulla sensibilità.
Anche le grandi lastre di marmo e di onice esposte a Barcellona, le scelte uniche, irripetibili, del figlio dello scalpellino diventate pareti, si esibiscono come sezioni tirate a lucido di una cava antica e sono affiancate agli sfuggenti riflessi[3] del nuovissimo acciaio cromato: da questo ossimoro temporale poteva nascere l’architettura moderna.

Sulla mostra di Berlino e su Mies il raffinato e sensibile critico Philip Johnson tornerà più volte, forse proprio perché intuiva il coraggio del raccontare il valore estetico della materia, la volontà di metterla in mostra come unico strumento efficace per liberarsi dall’obbligo convenzionale, figurativo, della forma, delle forme storiche. Materia come semplice scelta dell’artista.
Anche in Asplund la materia ha un ruolo importante: il progetto per l’ampliamento del Municipio di Göteborg, le cui prime proposte datano già nel 1913, viene sviluppato più volte nei suoi tratti essenziali fino al 1935-37, gli anni della realizzazione; i temi del progetto, il grande spazio centrale e il ruolo attribuito al basamento che determina il nuovo piano nobile, sono chiari e perseguiti fin dai primi studi, e trovano sintesi nel grande vuoto della hall, illuminata dall’alto e aperta verso la corte dell’attiguo palazzo. Se è oggi possibile studiare la sequenza delle molte e diversificate varianti al progetto fino al momento della stesura definitiva[4], e constatarne la continuità del linguaggio classicista, affinato con basamenti in pietra, pilastri e colonne, non si può non restare colpiti dalla soluzione realizzata, completamente diversa proprio nel linguaggio. Dopo il viaggio in Europa in occasione del suo incarico per l’Esposizione Internazionale di Stoccolma del 1930 – abbiamo testimonianza delle visite a Brno e a Parigi – Asplund trasforma completamente il linguaggio dell’edificio, sostituendo una composizione fatta di elementi con un movimento dello spazio ottenuto grazie alle curvature delle grandi superfici in legno. Materia come linguaggio.
Potremmo elencare diversi momenti di crisi in cui si fa ricorso alla materia, come nel crollo di certezze del secondo dopoguerra e ricordare come anche Ernesto Nathan Rogers si senta nuovamente in dovere di educare alla sensibilità, pubblicando con insistenza sulla sua Casabella-continuità le belle fotografie di Werner Bischof dei particolari materici dei grandi monumenti arcaici[5]. Di nuovo ritroviamo la concretezza della pietra, e nello stesso tempo la forte astrazione della materia portata alla luce, ma nel caso di Rogers ogni momento è «inserito nel dramma dell’esistenza» e non può essere considerato entità astratta: per lui la materia è lo strumento per la rappresentazione di un momento storico attraverso la sua realtà costruttiva. Ed è proprio la concretezza della costruzione nella materia a liberare la forma dalla banalità della sua ripetizione e a obbligare ogni artista a scoprire relazioni inedite tra materia e costruzione.
Possiamo quindi azzardare che nei momenti di cambiamento, nelle fasi di passaggio e di riflessione operativa sull’architettura vi sia un ritorno alla materia: questo è avvenuto per il moderno, e questo avviene oggi, anche se in forma diversa. La bellezza della cruda materia in Mies, la materia come linguaggio in Asplund, materia e realtà costruttiva per Rogers. Sempre la libera scelta della materia in contrapposizione all’obbligo della forma. Materia versus forma.

Queste riflessioni preliminari ci introducono al cuore del libro, Madre Materia, il cui autore, già noto in Italia per un volume in parte complementare a questo, Il vuoto, ci ha già iniziato ad una modalità di scrittura fatta di riflessioni che inseguono un tema attraverso le molte interpretazioni, anche extradisciplinari, che questo può suggerire. Fernando Espuelas indaga, infatti, in questo saggio i termini che incidono sul concetto di Materia secondo una modalità di montaggio del testo anch’esso, potremmo dire, materico: una serie di concetti mostrati nella loro naturale complessità, affiancati l’uno all’altro come le lamine delle venature di Mies, dove il lettore può scegliere e rimontare le questioni, senza l’imposizione di una tesi e di una sequenza predeterminata. Vi è una componente fortemente progettuale in questo punto di vista: la possibilità cioè di scegliere l’idea del progetto a partire dalla materia e non dalla forma.
L’autore del libro si colloca dunque in continuità con quella corrente del pensiero contemporaneo, già assestata nella cultura spagnola con il libro di Iñaki Abalos La buena vida, in cui sensibilità e percezione diventano parte attiva di un pensiero soggettivo sulle scelte artistiche: il volume offre una serie di parole chiave per ripensare i valori primari dell’architettura, allontanandoci dalle forme precostituite. In questo senso si offre come un atlante, un inventario, che ben si inserisce nel panorama della poetica contemporanea, abituata a lavorare sulla breccia, sulla rovina, sul frammento e la sua sineddoche, aprendo alla fantasia di ogni possibile tutto, ma che rimanda all’intero solo con l’allusione. Proprio nel saggio su frammentazione e compattezza Rafael Moneo ha analizzato in maniera lucida questa condizione del contemporaneo che rifugge la forma: «La forma è legata a ciò che è permanente, ostacolando il potenziale racchiuso nel futuro, ed è perciò caduta in disgrazia»[6].
In questa condizione del contemporaneo, la materia torna a essere un utile strumento di lavoro. Nelle librerie oggi è ormai possibile trovare sugli scaffali libri interi fatti di immagini, dove, sfogliando patinate pagine a colori, si entra nei mondi personali degli autori[7], la cui comunicazione prevalente è quella materica; spesso si riconoscono alcuni dettagli, si intuisce una familiarità con la nostra memoria di studiosi di architettura: in mezzo ai più sconosciuti reperti di un mondo materico anonimo, si scopre un frammento di Zumthor, un pezzo di Asplund, ma anche uno spigolo di Le Corbusier o una texture di Lewerentz, ritrovando i maestri solo perché osservati a lungo, perché non si è potuto fare a meno di andarli a conoscere nella loro matericità.
Queste pubblicazioni hanno una genealogia nobile nell’opera scritta e costruita dagli architetti svizzeri Herzog & de Meuron. Già negli anni Ottanta, in un momento in cui l’architettura in Italia veniva fatta con i pantone e in Spagna Rafael Moneo sentiva l’esigenza di costruire gli imbotti profondi di Bankinter, gli allievi zurighesi di Aldo Rossi, con le loro opere costruite hanno saputo spostare l’interesse degli architetti più sensibili dalle ormai sterili forme storiche alla potenzialità della materia; solo recentemente questo approccio ha trovato esito compiuto in un catalogo pubblicato[8] dal CCA sulla loro opera giustamente intitolato Natural History. Il volume, che non appartiene più alla categoria dei testi teorici da leggere dall’inizio alla fine, si presenta invece come una raccolta di materiali: in questo caso scritti di autori diversi e interviste sono intrecciati con i frammenti materici e visivi cari alla loro poetica. L’atteggiamento progettuale e artistico degli autori non a caso rende esplicito il riferimento alle infinite pagine che compongono l’affascinante Atlas di Gerhard Richter[9], in cui le pennellate, la loro materia, il loro colore sono scelte dall’artista e montate in serie, in campionature sperimentali. Anche le infinite foto dei cieli, così come gli acquarelli di Venezia di Turner, non sono altro che prove, centinaia di prove di colori, prove di accostamenti, prove di definizione di una massa, di una materia non ancora riconducibile a forma. Ma l’aspetto più interessante dell’opera di Herzog & de Meuron è forse il fatto che questa liberazione dalle forme del passato permette di tornare a riflettere sui concetti operativi propri della disciplina, ragionare nella pratica sul significato di alcune operazioni compositive strettamente vincolate dalla sensibilità dell’artista, come la scelta dell’uniformità, della ripetizione, della compatezza, ma anche della frammentazione, del non-finito, del montaggio.
E così, proprio nell’indice di Natural History, riacquistano senso parole come trasformazione e straniamento, appropriatezza e variazione, accumulo e compressione, permettendo al lavoro dell’uomo sulla materia di dimostrarsi come imprescindibile per compiere il passaggio obbligato dalla natura alla materia.
Se da un lato infatti l’uso immediato della materia ci riporta all’idea della natura, bisogna osservare in verità che la materia usata in architettura si trova all’interno delle montagne, nei boschi, nelle miniere, che non si dà senza il lavoro dell’uomo. «Queste materie, sorte dalla natura ma non naturali, [sono] prodotti dalla fatica umana e il racconto della loro lavorazione… affiora attraverso i segni della cultura materiale… Si ha l’impressione che questi oggetti, apparentemente elementari, contengano, proprio per questo processo di accumulo, una sequenza di tempo condensato»[10].
Una condizione temporale eccezionale si dice: da un lato senza tempo, e dall’altra sempre in contatto, tramite il lavoro dell’uomo sui materiali, con gli avanzamenti più attuali della tecnica della costruzione. Anche questo doppio aspetto è una declinazione nel tempo dell’immediatezza della materia.
Un’immediatezza in verità utile al progetto contemporaneo, che si trova oggi in una fase di ripensamento e ha trovato nuovamente nella materia il punto da cui ricominciare, riscoprendo e facendo proprio alcuni caratteri specifici dei singoli materiali.

La materia, le poche materie di base dell’architettura, naturali e fabbricate, aprono i Quattro libri dell’Architettura di Andrea Palladio: le pietre, quelle naturali e quelle cotte dall’uomo (i mattoni) i legnami, le arene e i metalli, a cui possiamo aggiungere in epoca moderna il vetro. Da queste poche materie possiamo ottenere i molti materiali da costruzione e i diversi caratteri che alla nostra architettura vogliamo dare: ci sono le famiglie della durata e dell’accoglienza, ma anche quelle dell’ambiguità e dell’aggressività, della trasparenza o dell’opacità, purché si conoscano le proprietà specifiche di ogni materia, come ad esempio la proprietà di diffusione o di riflessione della luce. Se l’intuizione palladiana del potenziale scultoreo delle arene, si trasforma in epoca moderna nei grandi getti del cemento armato, acquistando la dignità di una nuova materia nel raggiungimento dei suoi valori scultoreo-plastici, in realtà è solo il vetro che cambia profondamente la consistenza materica dell’architettura recente.
Il carattere sovversivo della nozione di smaterializzazione era già stata utilizzato da Mies van Rohe nei progetti degli anni venti per il grattacielo per la Friedrichstraße, dove la scelta del vetro è espressa proprio per attenuare l’impatto del nuovo tipo edilizio, il grattacielo appunto, sulla città antica[11].
Anche le sperimentazioni contemporanee più interessanti sullo spazio, come le opere della giapponese Sejima, sono tutte fondate sull’ambiguità nell’uso dei materiali: riflessi e sovrapposizioni di vetri, ma anche l’uniformità della materia come nuova soluzione progettuale.
Se caratteristica dell’architettura è quella di non poter negare, la materia permette anche di giocare sui paradossi: così la vernice lucida spennellata sulle grandi superfici in cemento armato delle opere di MVRDV o la finezza del rivestimento ceramico della splendida casa di Perret in rue Franklin.
Abbiamo già detto che la materia diventa linguaggio, in realtà si sostituisce alla complessità del linguaggio con la sua fisicità. Ferdinando Scianna ricordava proprio questo come uno dei caratteri della fotografia[12], del suo distinguersi dalla pittura: nel secondo caso l’immagine è creata dall’uomo, mentre nel primo viene trovata dall’uomo. Questa condizione di ritrovamento, dove la componente casuale assume una sua importanza è da associare con un’altra condizione del contemporaneo che ben è rappresentata da quell’objet trouvé che Rem Koolhaas costruisce come Casa della Musica a Oporto: in questo caso sembra addirittura che l’architetto olandese voglia rappresentare un frammento di materia caduto sulla terra.
L’immediatezza della materia sembra dunque assolvere, in epoca contemporanea, alle tematiche dell’architettura che non possono essere eluse, ai suoi caratteri fondativi, ma che non si possono più affrontare con gli strumenti disciplinari e compositivi tradizionali. È così possibile, ad esempio, parlare di un luogo semplicemente con la scelta della sua materia, così come alludere alla memoria con la sensibilità di una materia in contrapposizione all’imposizione di una figura, che spesso assume tratti caricaturali.
In questo modo l’architettura può anche rendere esplicite le influenze delle altre arti, basti pensare alla strettissima relazione che lega progetti recenti alla Land art o ad una determinata corrente del minimalismo, fondata sulla comune comprensione delle possibilità che la materia offre.
Senza il controllo del tempo, dello spazio e della misura, l’architettura sceglie dunque l’immediatezza della materia: la fiducia della solida pietra, il ritmo inesorabile degli infiniti mattoni, l’accoglienza delle morbide curve del legno, l’astrazione dei riflessi del vetro, la forza del ferro sono ready made per la sensibilità dell’architetto, ma anche per quell’abitante del quotidiano che la deve vivere. Ci dice André Breton, nel suo Dictionnaire abrégé du surréalisme nel 1924, che il ready made è: «oggetto usuale, promosso alla dignità di oggetto artistico dalla semplice scelta dell’artista». Semplice scelta dell’artista. Semplice!

Luglio 2012


[1] Philip Johnson and the Museum of Modern Art, MOMA, New York, 1998, p. 42.

[2] Nelle poche righe scritte che Mies van der Rohe ci ha lasciato, nelle stesse pagine della rivista « G » da cui aveva scagliato l’anatema contro la forma, riscatta il materiale tra i temi fondativi della nuova architettura, vedi Ludwig Mies van der Rohe, “Costruire” e “Costruire industrialmente”, in Mara De Benedetti, Attilio Pracchi, Antologia dell’Architettura Moderna, Zanichelli, Bologna, 1988, p. 399-401. Cfr. anche Fritz Neumeyer, Mies van der Rohe. Le architetture, gli scritti, Skira, Milano, 1996.

[3] Bruno Reichlin, “Conjectures à propos des colonnes réfléchissantes de Mies van der Rohe” in La colonne, nouvelle histoire de la construction, sous la direction de Roberto Gargiani, PPUR, Losanna, 2008.

[4] José Manuel López-Peláez, La arquitectura de Gunnar Asplund, Fundacíon Caja Arquitectos, Barcellona, 2002.

[5] «Gli oggetti diventano antichi quando hanno superato di essere vecchi, ma questa è qualità di pochi esempi selezionati. Quando diventano antichi ridiventano patrimonio attuale e possiamo farne uso pratico e quotidiana consumazione culturale». Questo l’incipit dell’articolo del 1964 “Le Corbusier”, in Ernesto Nathan Rogers, Editoriali di Architettura, Einaudi, Torino, 1968.

[6] Rafael Moneo, “Paradigmi di fine secolo: frammentazione e compattezza nell’architettura recente”, in L’altra modernità, Considerazioni sul futuro dell’architettura, Christian Marinotti, Milano, 2012, p. 59.

[7] Cfr. John Pawson, A visual inventory, Phaidon, Londra, 2011.

[8] Philip Ursprung, a cura di, Herzog & de Meuron: natural history, CCA, Montreal, 2003.

[9] Gerhard Richter, Atlas der Fotos, Collagen und Skizzen, Oktagon, Colonia, 1998.

[10] Massimo Fortis, “Materia e forma”, in Ghitti, memoria del ferro, Mazzotta, Milano, 2006, p. 57.

[11] Bruno Reichlin, “Quant’è trasparente il vetro?”, in Franz Graf e Francesca Albani, a cura di, Il vetro nell’architettura del 20° secolo: conservazione e restauro, Mendrisio Academy Press, Mendrisio, 2011, p. 162.

[12] «Perché la natura specifica della fotografia, e in questo risiede la sua straordinaria, gigantesca rivoluzione, è che per la prima volta non dà conto di un’ immagine “fatta” dall’ uomo, ma “trovata” dall’ uomo: nella realtà, nel mondo», Ferdinando Scianna, Le trovate d’artista non bastano più. L’estetica è nella necessità dell’opera, in « la Repubblica », 26 giugno 2012.

Imágenes por palabras

¿Arcaico o moderno?

La primera imagen que aparece en el libro es una fotografía del patio del campo santo de Pisa que acompaña al frontispicio. Del resto de 51 imágenes que se publicaron a toda página en La experiencia de la arquitectura, tres de ellas representan el mismo sujeto (el Campo dei Miracoli de Pisa) que, junto a las cuatro tomas de la Acrópolis,[1] componen el núcleo central de un grupo más amplio compuesto de 16 imágenes dedicadas a la tradición culta, a los monumentos arcaicos, a Torcello y a la cartuja de Pavía. De hecho, podemos subdividir las numerosas imágenes del libro en unos pocos temas —la tradición culta, la tradición espontánea, el mundo otro, la vida personal y la modernidad— y pronto podemos constatar que también son 16 las representaciones de la tradición espontánea:[2] detalles de frágiles construcciones de madera, ornamentos artesanales, enlucidos grafiados con motivos infantiles, pequeñas casas en medio de unos prados en Escocia, una escalerilla y una pantorrilla esculpida por el trabajo en el campo. Intercaladas entre los escritos hay nueve imágenes dedicadas a Oriente y a tierras lejanas, cinco referencias a la vida personal (incluida la línea voluntaria del amigo Saul Steinberg) y solo cuatro ilustraciones dedicadas a la arquitectura moderna (dos fotografías aéreas de Nueva York, una de una obra de Frank Lloyd Wright y otra de Ludwig Mies van der Rohe).[3] La última imagen del volumen cierra el relato fotográfico de una vida: la torre Velasca en la “atmósfera de Milán”.[4] Entre estas imágenes, muchas son encuadres de detalles, de pormenores escogidos y algún que otro rostro (el autorretrato de Giuseppe Pagano, un bebé japonés, los ojos y la boca de un Buda camboyano que aflora entre lianas esculpidas en la piedra). Durante muchos años, el título provisional que Ernesto Nathan Rogers dio a este libro fue La conquista della misura umana [La conquista de la medida humana].[5]

¿Arcaico o moderno? Ernesto Nathan Rogers —el divulgador más importante del movimiento moderno de la posguerra italiana, el representante italiano de los CIAM y el intelectual que nos enseñó a apreciar la nueva arquitectura— escogió para ilustrar el volumen que recoge el corpus más importante de sus escritos estas imágenes concretas, instantáneas de lugares sin autor y sin tiempo,[6] encuadres queridos y ya utilizados anteriormente que lo acompañaron en sus experiencias editoriales en las revistas Stile, Domus y Casabella-Continuità.[7] Se presenta también el más bello de los observatorios astronómicos construido por Jai Singh a la escala universal de su claridad geométrico formal, sin necesidad de comentarios adicionales. La iconografía de la modernidad se completa, a su vez, en un segundo nivel, más explícito, de las páginas verso que contienen más imágenes, pies de fotografías y textos explicativos, donde encontramos las elecciones precisas que Rogers compiló sobre la modernidad: los maestros, pero también, y ante todo, los precursores, los “fundamentales”.

Pero volviendo a las imágenes a toda página de La experiencia de la arquitectura, comprobamos que las ilustraciones anteriormente descritas no vienen acompañadas de pies de fotografías, y que las leyendas aparecen en las páginas siguientes, como escondidas. Es como si Rogers quisiera darnos el tiempo para establecer con el objeto una relación inmediata, pura y sin filtrar por los condicionamientos culturales.[8]

Imágenes por palabras

Al pasear por la vasta producción editorial de Ernesto Nathan Rogers, se observa cómo en todos los textos el uso de las ilustraciones está construido a causa de un discurso más amplio, una especie de repertorio subliminal que ofrece diversos niveles de lectura, desde un primer significado explícito, pasando por alusiones hasta llegar a tejer una trama de las relaciones que se establecen entre más imágenes.

La libertad en la sola interpretación de una representación fuerte de la regla de la proximidad[9] alude a un proceso creativo proyectual que no puede ser dicho. Justamente “imágenes por palabras”[10] que desvelan el discurso secreto, el trabajo paralelo que Rogers llevó a cabo con la iconografía.

Las obras que Rogers escribió o que dirigió, como las revistas, están compuestas de materiales heterogéneos que tienen su origen, ante todo, en ocasiones especiales, como también lo tiene su obra más importante, la recopilación de ensayos La experiencia de la arquitectura. Como bien ha subrayado Francesco Tentori,[11] no estaba en los planes de Rogers escribir un texto teórico redondo, un tratado, sino, más bien, algo más coherente con su carácter y que aspiraba a transmitir documentos para la formación de un pensamiento: fotografías, arquitecturas, dibujos, materiales seleccionados del refinado gusto del autor que, en su conjunto, trazan una idea de arquitectura precisa, listos para ser ofrecidos y reinterpretados para su uso por parte del lector.[12]

En la relectura comparada del aparato iconográfico de apuntes, libros y revistas, se vuelven manifiestos los múltiples modos de utilización de las imágenes que lleva a cabo Rogers: pueden ser los papeles estampados en bicromía de los sumarios de Casabella-Continuità, las texturas gráficas que se transforman en buenos educadores del gusto, pero también las imágenes símbolo, que utilizó a lo largo de los años para acompañar diversos textos (como es el caso de la escultura El comienzo del mundo de Constantin Brancusi).

Su montaje no quiere imponer, sino sugerir “relaciones y significados”[13] que el sujeto sabrá captar, como bien ha descrito Salvatore Veca, discípulo de Enzo Paci, cuando confirma estos binomios de Rogers entre personal y subjetivo, y racional y objetivo.[14] Si en su univocidad la palabra escrita obliga a dirigirse hacia el pensamiento objetivo, la libertad de las imágenes compensa el aspecto subjetivo.[15]

Y tan elegantes fotografías en blanco y negro pueden gritar su sufrimiento y su pertenencia a un mundo cambiante, con la obligación de vivirlo que impone la inteligencia, pero con un deseo explícito de otros tiempos. La conciencia íntima de ser un hombre de su tiempo obliga a Rogers a hablar del movimiento moderno, pero su gusto por la “revolución de las formas” lo retrotrae a sus verdaderas pasiones.[16]

Ojos que ven

En 1927, año en que se matricula en el Politecnico di Milano, los ojos del joven Ernesto se ven obligados a enfrentarse día a día, debajo de su casa en la Via Serbelloni, con las obras de uno de los edificios residenciales más increíbles de Milán, aquel que ese mismo año acabó de construir Aldo Andreani en el complejo de Via Mozart. Se trata de un edificio anómalo donde la fuerza de la materia de la arquitectura, que en este caso se expresa por el almohadillado del revestimiento de travertino, en su desgarrarse y desmontarse, se convierte en una especie de testimonio en voz alta del sufrimiento del volumen edificado, una deconstrucción ante-litteram de la forma clásica que en la parte superior del edificio se presenta casi desnuda, casi como si demostrara la liberación del lenguaje clásico que la modernidad había logrado. Esta es la imagen que tenía el joven Rogers en sus ojos cuando se encontraba en los pupitres de la escuela estudiando el nuevo racionalismo,[17] cuando decidió matricularse en la Facultad de Arquitectura, y es justamente esta una de las primeras imágenes que representa un tema que, como veremos más tarde, será tan querido para él: en sus cualidades físicas concretas, esa arquitectura representaba el tema de las formas inacabadas, en transición, de las nuevas formas de la modernidad que luchaban fuertemente contra la belleza antigua para encontrar su propia expresividad. El joven triestino, maestro durante la posguerra del manierismo moderno, alcanzó su madurez enfrentándose a uno de los mejores ejemplos de arquitectura en los que la ambigüedad de la fascinación del lenguaje antiguo choca con la obligación de su superación.

Siendo aún un joven estudiante de arquitectura, Rogers se encontró pronto con que tenía que entregar una tesina sobre arquitectura. Es interesante observar cómo se decantó por acompañar la parte escrita de la tesina de un “relato fotográfico” donde recogía unos escasos comentarios escritos a pluma en unas páginas en las que dos o más fotografías establecían relaciones entre sí. El valor simbólico que se le atribuyen a las ilustraciones se manifiesta en una de las primeras páginas, donde un recuadro en blanco con un pie de ilustración reza: “Esta locomotora nos hace sonreír”. Es así como el joven estudiante nos muestra cómo la imagen —una locomotora cualquiera al fondo— le sirve para explicar la feliz intuición, casi inconsciente, de la importancia fundamental de la estrecha relación de la técnica con su tiempo, de su destino fugaz en contraposición a la continuidad de la construcción de la historia.

En los primeros artículos del joven Rogers para la revista Quadrante aparecen algunas ilustraciones que en los años sucesivos formarán una constelación de referencias, detalles y símbolos (como un fragmento de un antiguo techo de madera). Sin embargo, fue en Stile —un fascículo ilustrado de Domus realizado en 1936 con quienes serían sus compañeros de vida, los miembros del estudio BBPR— donde el control de las imágenes y de sus relaciones presenta ya una madurez. La figura humana, que en un principio era arcaica, pasa a ser una multitud que habita el espacio de la arquitectura pública y que se presenta como el tema dominante. Entre la elegancia de la superposición de unas imágenes estampadas en papel satinado cuya sumatoria consigue una nueva síntesis iconográfica, aparece la sección vertical del Coliseo romano, una de las figuras que lo acompañarán hasta 1961, año de publicación de su libro Gli elementi del fenomeno architettonico. El hombre, medida y proporción, la materia constructiva de la arquitectura y la relación con la naturaleza, encuentran, pues, su representación ordenada en Stile,[18] un fascículo sin texto donde las imágenes son las protagonistas.

Después de lo anónimo

Al finalizar la II Guerra Mundial, cuando Rogers asume la dirección de la revista Domus, revista que había fundado Gio Ponti, el entusiasmo y el “brío” del joven arquitecto fueron barridos de su vida. De nuevo, la selección de las imágenes da cuenta de la personalidad del nuevo director, de su compromiso, su conocimiento y, al mismo tiempo, de lo concreto de hilvanar un discurso construido de “preguntas”, de temas narrados a través de una imagen: el descuidado globo aerostático que muestra la fragilidad de progreso de la técnica, pero también el jarrón arcaico y sus dos rayas que introducen el tema de la decoración. Rogers escribe: “¿Qué son estas dos rayas? Se convierten en sencillas marañas, volutas, abultamientos, hojas, dragones, monstruos […] que transforman lo accidental en sustancial”. Este pequeño jarrón persa de hace cinco mil años, utilizado para citar el “Ornamento y delito” de Adolf Loos, se empareja con el huevo de Constantin Brancusi, con el “antes de la forma”.

Cesare Macchi Cassia[19] ha definido la pasión de Rogers por las formas de principios del siglo xx, por el movimiento de las líneas de los estilos liberty y art nouveau o por las incertidumbres del protorracionalismo, como la atención a un momento preciso, a “cuando se produce la revolución de las formas”, poniendo de manifiesto la libertad y la potencialidad de figuras todavía indecisas, en formación, formas que todavía no están congeladas en los espléndidos iconos infrautilizados para pensar lo nuevo, lo otro. Podemos hablar de forma y de formación, pues el propio Rogers mostraba interés en la didáctica del acto creativo, en el aspecto metodológico que habían trasmitido las grandes escuelas europeas. En los pocos números que dirigió de Domus (la casa del hombre) encontramos a Walter Gropius y a Max Bill, representantes respectivamente de la Bauhaus y de la Hochschule für Gestaltung de Ulm, y de una pedagogía de las artes plásticas donde se habla de método en oposición a la forma,[20] pero sin por ello renunciar a la belleza de la continuidad formal de las esculturas de Max Bill, cuyas ilustraciones acompañaban al texto.

Los primeros años de Casabella-Continuità

Ernesto Nathan Rogers dirigió Casabella entre 1953 y 1964, once años de una importante experimentación sobre la composición de la ilustración, en los que se que se pasa de una portada blanca a una de denuncia. Al leer el contenido de la revista, que abarcaba desde argumentos teóricos de la disciplina hasta las secciones de detalles de los últimos edificios construidos en la ciudad, silenciosamente uno se veía acompañado por un comentario decorativo.

Los primeros 24 números no tienen ninguna imagen en portada; solo varía el color de la nueva pareja de palabras en sus posibles variaciones de encaje: casabella y continuità.[21] La carga anticipatoria de los contenidos se asumía, pues, en el frontispicio, de modo que el papel sobre el que se imprimía el índice llevaba una imagen a menudo abstracta y reducida a un fuerte signo gráfico, un fragmento irreconocible de una referencia querida, poco importaba si era una obra de Louis H. Sullivan o una decoración tradicional noruega. El fascículo se componía de otros tipos de papel: el papel cuché para los artículos en blanco y negro, la pobreza del papel de colores para las reseñas y la agenda, la preciosa cartulina separable de colores para los personajes queridos, como Auguste Perret o Alessandro Antonelli, esta última con el fin de fomentar el estudio de estos arquitectos. Sería demasiado largo referir los numerosos relatos que nos susurran las imágenes de Casabella, y quizá el propio Rogers no aceptaría la reducción de su ostentación; me permito, pues, detenerme solo en los aspectos más evidentes.

Es bien sabido que Casabella era el lugar donde se publicaban los maestros del movimiento moderno, su tendencia en la alta cultura de la profesión italiana, así como la precisa documentación de tradiciones y culturas en extinción. Sobre todo en los primeros años, Rogers escoge su movimiento moderno, y escoge relatarlo desde un punto de vista particular.

Las imágenes muestran edificios en escorzo insertados en el contexto, como si se hubiera hecho un zum a las particiones de la fachada, donde la arquitectura ya no aparece legible en su totalidad. De nuevo el detalle constructivo, lo particular y, al mismo tiempo, lo universal, el contexto: el detalle es el instrumento para entender los refinados grosores de Auguste Perret y Louis H. Sullivan, para hacerlos intuir la fascinación de lo informe de Antoni Gaudí, pero también para comunicar la realidad constructiva de la tradición arquitectónica de un muro antiguo. Y el pensamiento corre parejo a las magníficas fotografías de Werner Bischof,[22] a esa cantidad de cloruro de plata utilizada para exaltar el uso del detalle y explicar lo general, para no caer en la falta de perspectiva, en la ausencia de futuro en la unicidad del conjunto. Será el carácter abstracto de estos fragmentos de arquitectura lo que permita plasmar su posible montaje en una nueva arquitectura.

Sin embargo, la fotografía no es diseño gráfico, y cada vez más nos percatamos de que Rogers utilizó los detalles fotográficos sobre todo por su aspecto matérico.

Para Rogers la acepción particular de todo arquitecto moderno estaba comprendida justamente en la confrontación con un tiempo y con un lugar. “Todo momento se inserta en el drama de la existencia y no puede considerarse una entidad abstracta”, y la materia era el instrumento para la representación de un momento histórico. De este modo, cuando sostenía que “en el caso de la modernidad, podemos hablar de un proceso de estilización”, con ello quería subrayar la fase en la que, a través de la materia, el carácter encuentra su expresión formal en una cultura concreta, en el tiempo y en la personalidad que los interpreta. Será precisamente la especificidad de la construcción de la materia lo que libere a la forma de la absurda banalidad de su repetición y lo que obligue a cada nuevo artista a descubrir las relaciones inéditas entre forma, materia y significado.

De este modo, Rogers, arquitecto observador, fue un estudioso preciso de formas y escalas del proyecto y de su posibilidad matérico constructiva, pero sobre todo un pensador que ofrecía los materiales de la historia a las poéticas de los futuros arquitectos. No es casualidad que a menudo la imagen protagonista de sus ensayos fuera una muy querida por Rogers,[23] una fotografía de un muro de la Acrópolis de Atenas —que se publicó tanto en Casabella como en La experiencia de la arquitectura—, una imagen a la que parece natural asociar sus propias palabras: “Los objetos pasan a ser antiguos cuando han superado el hecho de ser viejos, pero se trata de una cualidad de unos pocos ejemplos seleccionados. Cuando pasan a ser antiguos, vuelven a convertirse en patrimonio actual y podemos hacer un uso práctico y un consumo cultural cotidiano”.[24]

Cierre de la experiencia

Parece ya delineado el recorrido que llevó a los temas de las imágenes que aparecen en el libro La experiencia de la arquitectura, algunas de las cuales ya son familiares. Rogers ya ha anticipado algunos resortes aquí y allá —como la querida arquitectura urbana de los Uffizi en el famoso artículo sobre la decoración que se publicó en el número siete de Quadrante, o el jarrón arcaico persa o la escultura de Brancusi publicados en Domus—, pero en este caso las encontramos montadas finalmente en un discurso completo. Análogamente a su teoría construida a trozos, a base de textos escritos ya preparados, en el aparato iconográfico Rogers también utiliza imágenes cargadas de significado. Si es posible intuir que se utiliza lo arcaico para narrar la materialidad de la arquitectura, Oriente para subrayar la lentitud de los procesos evolutivos y los detalles para enseñarnos las técnicas constructivas, ahora puede entreverse la estructura del tratado construido con las imágenes.[25]

Es así como se cierra el círculo. En 1958 sale a las librerías italianas el libro Esperienza dell’architettura, el mismo año en que se acaban las obras de la torre Velasca y en que la revista Casabella-Continuità da un cambio de dirección decisivo con una periodicidad mensual, la inclusión de imágenes en portada y los números monográficos, pero sobre todo con el nuevo papel que se otorga a los jóvenes redactores jefe Aldo Rossi y Francesco Tentori.[26] La nueva revista será igualmente fascinante y algunos de sus números marcarán el paso de la cultura arquitectónica italiana. Tentori llevará adelante el discurso sobre las imágenes con un corte completamente personal; basta pensar en las tres actrices que aparecen en el número 251 —el mordisco de Anna Magnani en Rosselini, la fuga de Alida Valli en Visconti y la crisis de Monica Vitti en Antonioni— para acercar Alberto Burri a Vittoriano Viganò y Giuseppe Capogrossi a Gio Ponti. No obstante, los intereses son otros: las demandas de la nueva sociedad y el redescubrimiento de la complejidad de la idea de ciudad de Aldo Rossi o Guido Canella. Volvemos a leer hoy la lúcida interpretación que nos ha facilitado Ezio Bonfanti[27] de aquel momento e intuimos que la completa, impredecible y sorprendente apertura de Rogers se ha acabado;[28] esta se cierra con la selección de una forma para la ciudad, la torre Velasca, con la mitificación de su pensamiento en un libro, con la aceptación de la violencia formal de los alumnos, con la ocupación de su Casabella por parte del centro de estudios. Rogers se sacrifica para que otros crezcan.

Quien conoció a Rogers después de este fatídico año no tuvo el honor de estar en contacto y de aprender, pues, de esta mente abierta. Algunos se retirarían a las tierras vénetas, otros acabarían aprovechándose de esta enseñanza para la propia poética personal, aunque no del método didáctico privado de formas impositivas que Rogers había valorado de Walter Gropius.

Nadie puede decir cómo Rogers vivió esos últimos años. Por última vez, podemos mirar juntos otra imagen que nos ha dejado, la fotografía de su casa,[29] un pequeño apartamento en el corazón de Milán donde una concatenación de estancias alejaba al huésped del estudio privado. Sobre el escritorio de trabajo había materiales diversos —una pluma Parker, libros y recolecciones de pensamiento europeo—, pero también, sobre todo, utensilios atemporales venidos de lejos, de China o de Japón.[30] Ya se ha mencionado la importante cantidad de imágenes dedicadas a Oriente que acompañan su libro; en este caso volvemos a encontrar el carácter de continuidad y utilidad de pinceles, cuadernos, tijeras y cuencos lacados que forman la casa del hombre.


[1] ¿No serán quizás el campo santo de Pisa y la Acrópolis de Atenas un homenaje a los ojos de los viajes de juventud de Le Corbusier, a su capacidad de, a través de los bocetos y las fotografías, ver en lo arcaico la gran lección de la arquitectura?

[2] “Deben establecerse las relaciones entre la tradición espontánea (popular) y la culta para soldarlas en una única tradición”. Rogers, Ernesto Nathan, “La responsabilità verso la tradizione”, en Esperienza dell’architettura, Einaudi, Turín, 1958 (versión castellana: “La responsabilidad frente a la tradición”, en La experiencia de la arquitectura, Nueva Visión, Buenos Aires, 1965).

[3] Así completó la presentación de sus cuatro maestros “oficiales” —Frank Lloyd Wright, Mies van der Rohe, Le Corbusier y Walter Gropius—, este último presente por la ausencia de imágenes, en el papel de educador que Rogers le reserva, le impone. “De Gropius he sacado los rasgos del planeamiento pedagógico, que es de carácter metodológico. En arquitectura no existe un punto terminal; solo existe una mutación ininterrumpida”. Rogers, Ernesto Nathan, “Elogio dell’architettura”, en Nel centenario del Politecnico di Milano. Conferimento delle lauree honoris causa ad Aalto, Kahn e Tange, Milán, 4 de abril de 1964.

[4] Así reza el largo pie de la fotografía de la torre Velasca, que en este caso se encuentra en la página precedente. Bajo el título de “Testimonianza concreta” [“Testimonio concreto”], Rogers habla de síntesis cultural, de carácter y expresión decorativa de su arquitectura, de “lenguaje actual, insertado como una imagen en la continuidad de la tradición; es decir, completamente creado”. Una ocasión más que confirma el papel de la palabra ‘imagen’ como instrumento para contextualizar el pensamiento proyectual en su tiempo preciso. Rogers, Ernesto Nathan, La experiencia de la arquitectura, op. cit.

[5] De hecho, esta fue la primera propuesta de título que se hizo a la editorial Einaudi en 1951, título que coincidía con el del pabellón que el propio Rogers comisarió en la IX Trienal de Milán de ese mismo año, una pequeña exposición que constaba únicamente de fotografías. La única traza que queda del título original es el diseño de la cubierta que representa una serie de secciones horizontales de la figura humana.

[6] “En 1903, en un viaje por Grecia y por el Mediterráneo, la belleza de los templos hace que vea claramente la importancia del mundo de las formas de época pasadas cuando estas no se retoman como elementos ya resueltos, sino como elementos vitales susceptibles de desarrollo. Más adelante desarrollará este concepto de la vitalidad de la tradición en oposición al academicismo en los libros Vom neuen Stil (1907) y Essays (1910)”. Rogers, Ernesto Nathan, “Henry van de Velde, o dell’evoluzione”, Casabella-Continuità, núm. 237, marzo de 1960.

[7] Stile fue un interesante fascículo ilustrado editado por los jóvenes recién licenciados Lodovivo Belgioioso, Gian Luigi Banfi, Enrico Peressutti y Ernesto Nathan Rogers en 1936 para la revista Domus. Rogers fue director de Domus entre 1946 y 1947, y de Casabella-Continuità entre 1953 y 1965.

[8] Nos referimos a la edición del libro publicada en italiano por la editorial Einaudi en 1958.

[9] Resulta difícil resistirse a la tentación de una comparación con el Bilderatlas Mnemosyne de Aby Warburg y de la libertad de asociación que proponía en sus famosas láminas recorrido por los temas de la Antigüedad y su continuidad en el mundo occidental.

[10] Parafraseando el título del libro de Michael Baxandall, Words for Picture: Seven Papers on Renaissance Art and Criticism (Yale University Press, New Haven/Londres, 2003; versión italiana: Parole per le immagini. L’arte rinascimentale e la critica, Bollati Boringhieri, Turín, 2009), el autor sostiene: “Palabras referidas a las obras de arte, palabras que las representan, palabras que hablan en su nombre, que constituyen el fundamento o que en algunos casos las sustituyen”.

[11] Tentori, Francesco, “Il concetto di continuità”, en Ernesto Nathan Rogers: testimonianze e studi – QA15, Clup CittàStudi, Milán, 1993.

[12] “Se cree que nuestra formación, aun siendo posromántica, coloca al creador como uno de los factores de la obra, de la que el otro es usufructuario. En cada gesto nuestro se abre una actividad dialéctica inacabada, pero necesariamente indefinida, que cada uno debe cumplir, de la que servirse o a la que venerar”. Rogers, Ernesto Nathan, “Elogio dell’architettura”, op. cit.

[13] “Un proceso de formas posibles que se abren a nuevas relaciones”. Paci, Enzo, Relazioni e significati, Lampugnani Nigri Editore, Milán, 1965. Es conocida la influencia que tuvo en Rogers el pensamiento fenomenológico de su amigo Enzo Paci.

[14] Veca, Salvatore, “In ricordo di Enzo Paci, il filosofo e l’architetto”, en QA15, op. cit.

[15] “Esta es la palestra de opiniones: se presentan las manifestaciones del fenómeno arquitectónico como propuestas, no como conclusiones que hay que aceptar o rechazar”. Rogers, Ernesto Nathan, “Necessità dell’immagine”, en Casabella-Continuità, núm. 282, 1963.

[16] “La arquitectura por la arquitectura no tiene sentido, como tampoco lo tiene ninguna acción humana que se cierre en una tautología”. Rogers, Ernesto Nathan, “Elogio dell’architettura”, op. cit.

[17] Como es sabido, en aquellos años Ernesto Nathan Rogers cultivó sus primeras ideas al asistir a las clases de filosofía que Antonio Banfi impartía en el Liceo Classico Parini de Milán.

[18] “El estilo es el modo en que se expresa el carácter”. Rogers, Ernesto Nathan, “Carácter y estilo”, en La experiencia de la arquitectura, op. cit.

[19] Matilde Baffa las ha llamado “formas alusivas”. Dada la extensión de la intervención, me ha parecido natural oír las voces de Cesare Macchi Cassia y de Matilde Baffa, personajes cercanos a Rogers por aquellos años. Por otro lado, Giovanni Marras las define como “formas en proceso”, en La città come testo. Autonomia del linguaggio architettonico e figurazione della città, tesis doctoral, IUAV, Venecia, 1992.

[20] “El problema de imprimir formalidad a la arquitectura, proyectando contra el formalismo”. Canella, Guido, “Per Ernesto Rogers”, en L’insegnamento di Ernesto N. Rogers, tesis doctoral, IUAV, Venecia, 1984.

[21] Si las primeras dos expresivas portadas de la revista se muestran el edificio Seagram de Mies van der Rohe y un boceto de Le Corbusier; en la tercera, una elección de Mario Ridolfi, se anuncia el enfrentamiento con la nueva arquitectura italiana.

[22] “Aquello que distingue la obra de Werner Bischof es esta cualidad de desvelar a través de los detalles el significado universal de las cosas en la acepción humana más densa: la continua participación del acto estético con la simpatía de todos los sentimientos, de modo que esa no es solo un álbum de hermosas imágenes, sino un documento de la historia de los hombres”. Rogers, Ernesto Nathan, “Architettura e fotografia”, en Casabella-Continuità, núm. 205, abril/mayo de 1955.

[23] Así lo confirma Matilde Baffa al describir el período en el que ayudó a Rogers a reunir el aparato iconográfico del libro que publicó la editorial Einaudi en 1958. La joven colaboradora estaba preocupada porque cada mañana Rogers la tranquilizaba con una sonrisa diciendo que no había cambiado nada, mientras que en realidad había dado la vuelta al orden establecido el día anterior. De hecho, todas las tardes Rogers volvía a cambiar, a añadir y a corregir las imágenes por sus palabras.

[24] Este es el incipit de Rogers en el artículo de 1964 “Le Corbusier”, en Editoriali di architettura, Einaudi, Turín, 1968. La recopilación de los editoriales apareció publicado cuando Rogers estaba ya muy enfermo, razón por la cual el libro carece de ilustraciones.

[25] En la solapa de la portada aparece: “En la selección de las ilustraciones, ellas mismas quieren ser discurso, diálogo con el lector, cultura que se convierte en imágenes”.

[26] Vittorio Gregotti, quien había trabajado durante muchos años junto a Rogers en Casabella, pasó a ser el director de la revista Edilizia Moderna.

[27] Bonfanti, Ezio, “Una rivista”, en Bonfanti, Ezio y Porta, Marco, Città, museo e architettura, Vallecchi, Florencia, 1973.

[28] “De él hemos aprendido a eludir pretender decir de una forma unívoca el ser […], que hay que buscar y amar”. Tintori, Silvano, “Rogers ovvero l’elogio dell’incertezza”, en QA15, op. cit.

[29] Spinelli, Luigi, “Milanese Singles. L’appartamento privato di Ernesto Nathan Rogers”, Domus, núm. 925, mayo de 2009.

[30] “En el mundo clásico […], la figuración se perfecciona como la forma de una piedra pulida por el agua. Lo mismo puede decirse de las arquitecturas china y japonesa, que evolucionan más por un refinamiento secular de los signos que por una marcada mutación de las imágenes”. Rogers, Ernesto Nathan, “Mutazioni collettive e individuali”, en Elementi del fenomeno architettonico, Marinotti, Milán, 2006. En la edición original de 1961, las imágenes se reúnen de una forma estéril bajo “láminas”.

Indice

Introduzione alla ricerca
La facciata tra tipologia e città

Tipo, ordini, proporzioni
Città
Tipo e città
Scala e misura
Archetipi
Permanenza, trasformazioni, principi
“Roma quanta fuit ipsa ruina docet”
Arco di trionfo: unità e ritmo
Porta urbana: tripartizione e misura
Sett izonio: reticolo strutt urale e rappresentatività
Acquedott o: ripetizione e fuoriscala
 Principi compositivi
Continuità dell’antico
Colosseo
La facciata del palazzo italiano
“Modernaccia per accomodare le storie”
Conclusioni compositive
Usi possibili
Composizione di parti
Composizione di principi diversi
Parti, montaggio, geometria
Manierismo
Contaminatio, unità
Continuità o crisi del Moderno

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Premessa

Chaque époque se fabrique mentalement sa représentation du passé historique

Lucien Febvre

Questo libro si occupa di un tema che sembra appartenere ad un altro tempo: la facciata. Si tratta in gran parte di riflessioni scaturite dallo scontro con la realtà progettuale negli anni successivi alla laurea, quando cercavo di interpretare un metodo che consideravo ricco di possibilità, soprattutto per le scelte che un progettista compie nel mondo delle forme dell’architettura. Un metodo fondato su un’idea di architettura che riconosce, ancora oggi, nella continuità dell’esperienza storica il senso stesso del progetto, e dove l’attenzione analitica permette un’astrazione dalle forme utile a comprendere il mondo delle relazioni che attraversa tutta la storia dell’architettura.

Successivamente questa idea di continuità storica, sperimentata in nuovi contesti, è diventata un tema costante della mia ricerca, fino a sviluppare in modo più coerente una questione qui solamente accennata: il rapporto dell’architettura moderna e contemporanea con la storia.

Mi rendo conto oggi che questo studio è stato un solfeggio importante nella mia formazione ed è questo il motivo principale che mi spinge a pubblicarlo. Nel lavoro di allora avevo avuto spesso la sensazione di lavorare in un mondo arcaico, ma negli anni la necessità di riconoscere i principi del progetto che si intrecciano nel tempo si è resa sempre più evidente, fino a confermarne, direi quasi paradossalmente, una maggiore urgenza proprio nella complessità del linguaggio dell’architettura attuale.

E non mi riferisco a una posizione di retroguardia, bensì proprio all’opposto: alla volontà di cercare oltre le forme, di esplorare un versante teorico che vede nelle relazioni, nell’unità e nello spazio il senso del progetto. Ripensata oggi, mi rendo conto che scopo della ricerca era infatti la liberazione dalla meccanicità nell’uso di forme precostituite, a favore della consapevole costruzione di uno sguardo disincantato sulla contemporaneità, in grado di distinguere con chiarezza quanto appartiene stabilmente alla disciplina e quanto può essere variato nel contaminarsi con la storia, con il luogo, con la cultura e con l’arte.

Questo percorso è stato lungo e faticoso, per certi aspetti doloroso, ma credo possa essere ancora utile testimoniare un apprendimento dell’architettura condotto sul campo, ripercorrendo i viaggi dei grandi architetti, immergendosi nelle architetture e nelle città, con la curiosità sorretta da un’ingenuità non ancora mediata dalla critica, fino a rilevare le rovine con i maestri del rinascimento o a ridisegnare Roma con Letarouilly e Berlino con Schinkel senza il filtro del tempo.

Il testo riprende gran parte delle riflessioni svolte come tesi nel corso di dottorato di ricerca in composizione architettonica coordinato da Gianugo Polesello, che ricordo per la passione e l’originalità del pensiero, con relatore Giorgio Grassi e controrelatore Gianni Fabbri, presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia.

Milano, maggio 2008.

CONTESTO: STORIA VERSUS LUOGO

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Nel visitare il Museo degli Uffizi a Firenze ci si imbatte in un grande quadro, una Venere di Tiziano. Si tratta di un dipinto in cui la figura della donna nuda, in particolare la precisa curva del suo corpo, si stagliano su uno sfondo diviso in due parti. Una metà è completamente nera: possiamo ipotizzare anche che sia una tenda, ma la sua realtà è solo quella di un astratto e scuro impedimento alla vista, privo di profondità. Nella parte attigua, l’altra metà del campo visivo, succede esattamente l’opposto: allo scuro si sostituisce la luce, alla vicinanza ridotta la profondità di campo, all’astrazione un mondo figurato, al bianco e nero il colore, fino al piccolo cane che diventa punto di fuga della prospettiva.

La descrizione di quel dipinto sembra coincidere con la descrizione di un’opera architettonica di Le Corbusier: l’unione degli opposti è quello che tiene insieme il pittore con l’architetto, si potrebbe sinteticamente dire. E non a caso, sfogliando i carnet del viaggio in Italia del giovane architetto svizzero nel 1911, si trova il resoconto della visita agli Uffizi, completa di uno schizzo di quel dipinto, legittimandoci a pensare che ciò che rese degno il quadro di essere annotato nei famosi carnet sia proprio la rappresentazione di quell’unione dei contrasti.

Questa vera e propria idea di architettura, che vede nel concetto di unità la sintesi compositiva di sistemi più complessi e opposti, sembra essere oggi tra le più ricche per il progetto contemporaneo sulla città. È infatti quella che ci permette di leggere la complessità dei tessuti urbani, ma anche l’organismo architettonico come montaggio di elementi che trovano un loro senso nella loro relazione. È ormai da tempo che il sistema delle relazioni tra le parti, e non più la definizione formale delle parti, è diventata il vero e proprio momento di acquisizione di consapevolezza del progetto, potremmo dire la sua attualità: si vede il contemporaneo come occasione particolare di definizione di nuovi rapporti.

Ma la Venere di LC ci parla anche di un’altra cosa: ci racconta degli occhi degli architetti che cercano e che pescano nel passato il loro futuro, in continuità.

(Il bellissimo concetto di Eliot, secondo cui ogni nuova opera modifica il passato.)

Rendere attuale il passato, la storia. Dobbiamo parlare di attualità perché, come vedremo, il rapporto che l’architetto stabilisce con il tempo è proprio uno dei nodi teorici fondamentali su cui basare un discorso sul progetto contemporaneo nei contesti storici. Contemporaneo dunque, nella doppia accezione di poter riconoscere i temi dell’attualità, ma anche la ricerca di quanto al contemporaneo è oggi necessario.

Si è provato ad utilizzare la potenzialità dell’architettura di tenere insieme opposti, complessità diverse e complementari, sotto un’unità, verificando come opposti i due concetti fondamentali della progettazione nel contesto: il Luogo e la Storia.

In questo senso riconosciamo al concetto di Luogo tutta l’oggettività dell’architettura, quasi a farlo coincidere con l’architettura stessa. Alla Storia, anzi alle tante storie possibili, riconosciamo invece il concetto di soggettività.

Al luogo accostiamo il progetto, mentre alla storia il progettista che la sceglie, in questo senso oggetto e soggetto.

Ci ricorda Lucien Febvre: ogni epoca si costruisce mentalmente la sua rappresentazione del passato storico. La sua Roma e la sua Atene, il suo Medioevo e il suo Rinascimento […] La storia si scrive per il presente.

Prima di entrare nel specifico dello scontro nel contesto, occore prima ricollocare brevemente i due termini: il Luogo è presenza, mentre la storia si scrive per il presente. (Borges ogni scrittore si costruisce i suoi predecessori)

Questo presuppone due atteggiamenti opposti per la storia: l’uso soggettivo della storia che si fa nel progetto e l’uso oggettivo della storia che si deve fare nella ricerca storica. A noi interessa quello del progetto.

Faccio esplicito riferimento ad una idea di storia senza tempo.

Qualcosa di molto simile a quello che faceva nel suo Atlante Aby Warburg: scardinare la linearità storica a favore dei temi. L’origine è la meta, il famoso aforisma di Kark Krauss, citato da W. Benjamin nelle tesi di filosofia della storia, presuppone che in ogni istante è compresa la totalità del tempo, e sono quindi comprese in ogni istante, l’origine e la fine. Un tempo pieno di attualità.

(John Berger individuava nella rivoluzione francese un cambio della storia: da guardiano del passato a promotrice del futuro. Si è smesso di parlare dell’immutabile per gettarsi nelle leggi implacabili del cambio. Da quel momento la storia si intende come progresso.)

Siamo dunque interessati a storici che riprogettano un’opera, o ad architetti che fanno i loro progetti con le opere del passato (vedi Aldo Rossi e Boullè)

Il Luogo nella cultura italiana ha invece un significato preciso: non credo sia necessario oggi ripercorrere il senso della ricerca sulla morfologia urbana, sembra invece più utile cogliere i punti di aridità di una teoria che vedeva coincidere Luogo e Storia, non riconoscendo alla storia il suo vero significato soggettivo.

Nella storia occorre intervenire con scelte soggettive.

Ma quando si parla di Luogo, occorre prima precisare, nel confronto con il contesto,  se si è interessati a conoscere il luogo o a costruire un luogo.

Basti pensare alla bella definizione che da Cacciari sulla differenza tra Polis e urbs, l’una tesa a mantenere la tradizione di una nazione, l’altra alla fondazione di una legge utile a costruire un futuro che tenga insieme cose diverse.

(memoria deve essere immaginativa, mai clinica di ricordi. Pericolo per i centri storici è memoria come museo).

Hejduk citando Pasolini si auspica l’avvento di un’architettura che cessi di riprodurre la realtà attraverso la sua evocazione, ma stando in continuità con questa. Non un uso della storia e una lettura del luogo nostalgico, dunque, ma un uso riattualizzato del tema progettuale.

Il luogo si offre dunque tutto nella sua realtà, nella sua oggettività. Mi ricorda quanto diceva JNB su Brancusi: inventario di forme e di archetipi in evidente presenza, in cerca di un contenuto. E solo la soggettività, la continua attualità della storia ci permette di sceglierne una, sia questa appartente a quel luogo come una data, un’idea tipologica, un assetto morfologico, sia questa catapultata da un altro mondo, ma scelta per la sua capacità di compiere un tema, per costruire il nuovo luogo.

Ricordiamo che il contrasto funziona solo su un inciso germinale già iniziato (vedi Adorno su Schoenberg), in questo senso il luogo come base architettonica su cui si può variare (vedi Gardella a Genova). E se la città è il luogo per eccellenza in architettura, si è pensato di indagare due contesti urbani, e le diverse soluzioni architettoniche che su questi luoghi hanno confluito, proprio a partire dalla contrapposizione di Luogo e Storia.

Si tratta di un tratto di Corso Italia a Milano, dove si trovano tre architetture molto diverse, dello studio BBPR, di Luigi Moretti e di Luigi Caccia Dominioni, ciascuna esponente di una storia particolare, tutta dimostrata nella continua lotta della città tra la sua vocazione a griglia regolare e la sua realtà monocentrica;

L’apertura di Corso Italia alla fine dell’ottocento a Milano può essere letta come una violenza nella forma urbis di quel luogo, il secondo esempio è invece a Genova, in quella collina di Castello dove si confrontano il progetto del Museo di Sant’Agostino di Franco Albini, con la Facoltà di Architettura di Gardella; dove il primo affronta il luogo nella totale adesione tipologica e ne affronta il solo avanzamento linguistico, mentre l’altro obbliga il tipo astratto, che potremmo assimilare ad un momento storico, a ripensare il suo uso nel luogo.

Poznan, 22 maggio 2009

IMMAGINI PER PAROLE

Intervento al seminario su Ernesto Nathan Rogers e BBPR del 03.12.2009

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Arcaico o moderno?

La prima è una fotografia della corte del Camposanto di Pisa, che accompagna il frontespizio. Delle altre cinquantuno immagini che vengono pubblicate a pagina intera in Esperienza dell’architettura, altre tre rappresentano lo stesso soggetto, il Campo dei Miracoli di Pisa; con i quattro scatti dell’Acropoli[1] compongono il nucleo centrale di un gruppo più ampio, composto dalle sedici immagini dedicate alla tradizione colta, i monumenti dell’arcaico, oltre a Torcello o alla Certosa di Pavia. Possiamo infatti suddividere le numerose immagini del libro in pochi temi: tradizione colta, tradizione spontanea, altre culture, vita personale e Moderno, per constatare subito che sono sedici anche le raffigurazioni della tradizione spontanea[2], dettagli di fragili costruzioni di legno, decori artigianali, intonaci graffiti in modo infantile, piccole case immerse nei prati scozzesi, una scaletta e un polpaccio scolpiti dal lavoro in campagna. Ad intervallare gli scritti vi sono poi nove immagini dedicate all’Oriente e alle terre lontane, cinque riferimenti personali, ivi compresa la linea volitiva dell’amico Steinberg, e solo quattro figure sono dedicate al moderno, due foto dall’alto di New York e due opere, di Frank Lloyd Wright e di Ludwig Mies van der Rohe[3]. Un’ultima immagine chiude il racconto fotografico di una vita: la Torre Velasca nell’atmosfera di Milano[4]. Tra queste immagini molte inquadrature di dettaglio, particolari scelti e qualche viso: l’autoritratto di Giuseppe Pagano, un bimbo giapponese, gli occhi e la bocca di un Buddha cambogiano che affiora tra liane scolpite nella pietra. Per molti anni il titolo ipotizzato da Rogers per questo libro era stato La conquista della misura umana[5].

 Arcaico o Moderno? Il più importante divulgatore del dopoguerra del Movimento Moderno in Italia, l’amico dei maestri del CIAM, l’intellettuale che ci ha insegnato ad apprezzare la Nuova Architettura, sceglie di illustrare il volume che raccoglie il corpus dei suoi scritti più importanti con queste immagini così particolari, scatti di luoghi senza autore e senza tempo[6], inquadrature amate e usate, che lo hanno accompagnato attraverso le esperienze di «Stile», «Domus», e «Casabella Continuità»[7]. L’osservatorio astronomico più bello realizzato da Jai Singh si mostra nella scala universale della sua chiarezza geometrico formale, senza bisogno di altri commenti. L’iconologia del moderno si completa invece nel secondo livello, quello più esplicito, delle pagine verso, composte da più immagini, didascalie e testi esplicativi, dove ritroviamo le scelte precise compiute da Rogers sul Moderno: i grandi, ma anche, soprattutto, i precursori, i primordiali.

Torniamo ancora tra le immagini a tutta pagina dell’Esperienza e riscontriamo che le illustrazioni sopra descritte non sono affiancate da didascalie e le legende compaiono nella pagina successiva, si direbbero nascoste; è come se Rogers volesse darci il tempo di stabilire con l’oggetto rappresentato una relazione immediata, pura, non filtrata da condizionamenti culturali[8].

Immagini per le parole

Muovendosi tra la vasta produzione editoriale di Rogers, si osserva come in ogni testo l’uso delle illustrazioni è costruito a favore di un discorso più ampio, una sorta di repertorio subliminale che offre diversi gradi di lettura, a partire da un primo significato esplicito, attraverso l’allusivo, fino a svelare la trama delle relazioni che si stabiliscono tra più immagini.

La libertà interpretativa di una presentazione forte solo della regola del buon vicinato[9] allude al processo creativo progettuale che non può essere detto. Immagini per parole[10], appunto, per svelare il discorso segreto, il lavoro parallelo condotto attraverso l’iconologia.

Le opere scritte o dirette, come le riviste, da Rogers sono composte da materiali eterogenei, nati soprattutto da occasioni specifiche. Anche il testo più importante, Esperienza dell’architettura, è una raccolta di saggi; come ha ben sottolineato Francesco Tentori[11], non è nelle corde di Rogers l’idea di scrivere un testo teorico a tutto tondo, un trattato. È piuttosto più consona al suo carattere l’aspirazione di trasmettere documenti per la formazione di un pensiero: fotografie, architetture, disegni, materiali scelti dal raffinato gusto dell’autore, che nel loro insieme tracciano una precisa idea d’architettura, pronti per essere offerti e reinterpretati, ad uso del lettore[12].

Nella rilettura comparata dell’apparato iconografico di appunti, libri e riviste, si rendono evidenti i molteplici modi di Rogers di usare le immagini: possono essere le carte stampate in bicromia dei sommari di «Casabella Continuità», textures grafiche che si trasformano in gentili educatori del gusto, ma possono anche essere immagini simbolo, usate negli anni ad accompagnare testi diversi, come accade per la scultura di Costantin Brancusi,  Le commencement du monde.

Il loro montaggio vuole suggerire e non imporre: relazioni e significati[13] che il soggetto saprà cogliere, come ha ben descritto Salvatore Veca, allievo di Paci, quando conferma questa doppia marcia rogersiana tra personale, soggettivo e razionale, oggettivo[14]. Se la parola scritta, nella sua univocità, obbliga a dirigersi verso il pensiero oggettivo, la libertà delle immagini compensa l’aspetto soggettivo[15].

E così eleganti fotografie in bianco e nero possono urlare la loro sofferenza e la loro appartenenza a un mondo che cambia, con l’obbligo di viverlo che l’intelligenza impone, ma con una esplicita voglia di altri tempi. L’intima consapevolezza di essere un uomo del suo tempo lo obbliga a parlare del movimento moderno, ma il suo gusto per la rivoluzione delle forme lo riporta alle sue vere passioni[16].

Occhi che vedono

Gli occhi del giovane Ernesto nel 1927, anno in cui si iscrive al Politecnico di Milano, sono costretti a confrontarsi ogni giorno, sotto casa, nella via Serbelloni in cui allora viveva, con il cantiere di una delle più incredibili case di Milano, quella finita di costruire proprio in quell’anno da Aldo Andreani nel complesso di via Mozart: un edificio anomalo, in cui la forza della materia dell’architettura, qui espressa dal massiccio bugnato del rivestimento in marmo, diventa, nel suo lacerarsi e smontarsi, una sorta di testimonianza ad alta voce della sofferenza del corpo edilizio, una decostruzione  ante-litteram della forma classica, che nella parte alta dell’edificio si presenta ormai nuda, quasi a dimostrare la liberazione dal codice del linguaggio compiuta dal moderno; questa è l’immagine che il giovane Rogers ha negli occhi nel momento in cui si trova sui banchi di scuola a studiare il nuovo razionalismo[17] e decide di iscriversi alla facoltà di architettura. Ed è proprio questa una delle prime immagini che rappresenta un tema che vedremo essere tanto caro a Rogers: questa architettura descrive infatti, nella sua fisicità concreta, il tema delle forme non finite, delle forme in transizione, delle nuove forme del moderno che lottano con forza contro la bellezza antica per trovare la loro espressività. Il giovane triestino, maestro nel dopoguerra del manierismo del moderno, è maturato confrontandosi con uno dei migliori esempi in cui l’ambiguità del fascino del linguaggio antico si scontra con l’obbligo del suo superamento.

Ancora studente Rogers si trova a stendere una propria tesina sull’architettura: è interessante notare che sceglie di accompagnare la parte scritta con un racconto fotografico, dove raccoglie pochi e scarni commenti a penna su pagine in cui due o più fotografie venivano associate tra loro. Il valore simbolico che viene attribuito alle illustrazioni si dichiara in uno dei primi fogli, laddove troviamo un riquadro bianco, in cui l’immagine deve ancora essere reperita, e la cui didascalia recita: questa locomotiva ci fa sorridere; così commenta il giovane studente, mostrandoci come l’immagine – una qualsiasi locomotiva, può anche non esserci, in fondo – serve a spiegare la felice intuizione, quasi inconsapevole, della fondamentale importanza dello stretto rapporto della tecnica con il suo tempo, del suo destino fugace, in contrapposizione alla continuità della costruzione nella storia.

Nei primi articoli di Rogers su «Quadrante» fanno capolino alcune illustrazioni che formeranno negli anni a venire una costellazione di riferimenti, come il frammento di un antico soffitto ligneo, ma forse è nel fascicolo Stile che il controllo delle immagini, e delle loro relazioni, è ormai maturo. La figura umana, inizialmente arcaica, diviene moltitudine che abita lo spazio dell’architettura pubblica, mostrandosi come tema dominante. Tra l’eleganza della sovrapposizione delle immagini stampate su carta da lucido, la cui sommatoria ottiene una nuova sintesi iconografica, compare lo spaccato assonometrico del Colosseo, una delle figure che lo accompagnerà fino al volume Gli elementi del fenomeno architettonico del 1961. L’uomo, misura e proporzione, la materia costruttiva dell’architettura e il rapporto con la natura trovano la loro rappresentazione in Stile[18], un fascicolo praticamente senza testo, dove le immagini sono protagoniste.

Dopo l’Anonimo

Nel momento in cui Rogers, alla fine della guerra, assume la direzione della rivista «Domus» fondata da Gio Ponti, l’entusiasmo e la verve del giovane architetto sono stati spazzati via dalla vita vissuta. Di nuovo la scelta delle immagini ci racconta la personalità del nuovo direttore, il suo impegno, la consapevolezza e nello stesso tempo la concretezza di imbastire un discorso fatto di questioni, di temi raccontati tramite un’immagine: la “scalcagnata” mongolfiera che mostra la fragilità del progresso della tecnica, ma anche il vaso arcaico e le due righe, per introdurre il tema del decoro. Rogers scrive: «cosa sono quelle due righe? Diventeranno intrichi incomplessi, volute, rigonfi, foglie, draghi, mostri […] sì da trasformare l’accidentale in sostanziale». Questo ridicolo piccolo vaso persiano di cinquemila anni fa, usato per citare ornamento e delitto di Adolf Loos, fa coppia con l’uovo di Costantin Brancusi, con il prima della forma.

Cesare Macchi Cassia[19] ha definito la passione di Rogers per le forme del primo Novecento, per il movimento della linea del Liberty e dell’Art Nouveau o per le incertezze del protorazionalismo, come l’attenzione a un momento preciso, a quando c’è la rivoluzione delle forme, mettendo in evidenza la libertà e le potenzialità di apprendere da figure ancora indecise, in formazione, non ancora ghiacciate in splendide icone inutilizzabili per pensare il nuovo, l’altro. Possiamo parlare di forme e formazione perché lo stesso Rogers è interessato alla didattica dell’atto creativo, nel suo aspetto metodologico trasmesso dalle grandi scuole europee: sui suoi pochi numeri di «Domus. La casa dell’uomo», troviamo Gropius e Max Bill, come rappresentanti del Bauhaus e della Scuola di Ulm e di una pedagogia delle arti plastiche, dove si parla di metodo in opposizione alla forma[20], ma senza rinunciare alla bellezza della continuità formale delle sculture di Bill, le cui illustrazioni accompagnano il testo.

I primi anni di «Casabella Continuità»

Rogers dirige «Casabella» dal 1953 al 1964. Undici anni e una importante sperimentazione sulla composizione del materiale illustrativo: si passa da una copertina bianca a una copertina di denuncia. Mentre si leggevano i contenuti della rivista, che spaziavano dagli argomenti teorici della disciplina fino alle sezioni di dettaglio degli ultimi edifici realizzati in città, un commento decorativo ci accompagnava silenziosamente.

I primi ventiquattro numeri non hanno nessuna immagine in copertina, unica variazione il colore della nuova coppia di parole, nelle possibili variazioni dell’incastro di Casabella con Continuità[21]. La carica anticipatrice di contenuti era dunque assunta dal frontespizio così che la carta su cui veniva stampato il sommario portava impressa un’immagine, spesso astratta e ridotta a forte segno grafico, frammento irriconoscibile di un riferimento amato, un dettaglio di Sullivan o un decoro tradizionale norvegese, poco importa. Altri tipi di carta componevano il fascicolo: la carta patinata degli articoli in bianco e nero, la povertà della carta colorata di recensioni e rubriche, il prezioso cartoncino a colori, omaggio asportabile, staccabile, per portare personaggi amati, quali Perret o Antonelli, ad animare gli studi degli architetti.

Sarebbe troppo lungo riportare i tanti racconti che le immagini di «Casabella» ci sussurrano, e forse lo stesso Rogers non accetterebbe la riduzione della loro messa in mostra, mi permetto quindi di soffermarmi solo sugli aspetti più evidenti.

È noto che «Casabella» era il luogo dove venivano pubblicati i maestri del moderno, la loro declinazione nella cultura nobile della professione italiana, così come l’accorata documentazione di tradizioni e culture in estinzione: Rogers, soprattutto nei primi anni, sceglie il suo moderno, e sceglie di raccontarcelo con un particolare punto di vista.

Le immagini mostrano edifici inseriti nello scorcio del contesto così come zoomate sulle partiture di facciata dove l’intero dell’architettura non è più leggibile. Ancora il dettaglio costruttivo, il particolare e nello stesso tempo l’universale, il contesto: per comprendere i raffinati spessori di Perret o di Sullivan, per farci intuire il fascino dell’informe di Gaudì, ma anche per comunicare la realtà costruttiva della consuetudine architettonica di un muro antico, lo strumento è il particolare. E il pensiero corre alle magnifiche fotografie di Werner Bischof[22], a quella quantità di cloruro d’argento utilizzata per esaltare l’uso del dettaglio a spiegare il generale, per non cadere nella mancanza di prospettiva, nell’assenza di futuro dell’unicità dell’intero. Sarà il carattere astratto di questi frammenti di architettura a lasciare figurare il loro possibile montaggio in una nuova architettura.

Ma la fotografia non è disegno grafico, e ci si rende conto vieppiù che Rogers usa i particolari fotografici soprattutto per il loro aspetto materico. «Ogni momento è inserito nel dramma dell’esistenza e non può essere considerato entità astratta» e la materia è lo strumento per la rappresentazione di un momento storico. Così quando dice che «nel caso del moderno, possiamo parlare di processo di stilizzazione» vuole sottolineare la fase in cui il carattere, attraverso la materia, trova espressione formale in una precisa cultura, in un tempo e nella personalità che li interpreta. Sarà proprio la concretezza della specificità della costruzione nella materia a liberare la forma dall’assurda banalità della sua ripetizione e a obbligare ogni nuovo artista a scoprire relazioni inedite tra forma, materia e significato.

Rogers architetto attento, preciso studioso di forme e scale del progetto e delle loro possibilità materico-costruttive, ma soprattutto un pensatore che offre i materiali della storia alle poetiche dei futuri architetti: non è un caso che sia spesso protagonista dei suoi saggi una immagine molto amata da Rogers[23], una foto di un muro dell’Acropoli di Atene, presente sia in «Casabella» che in Esperienza dell’architettura, a cui sembra naturale associare ancora le parole di Rogers: «gli oggetti diventano antichi quando hanno superato di essere vecchi, ma questa è qualità di pochi esempi selezionati. Quando diventano antichi ridiventano patrimonio attuale e possiamo farne uso pratico e quotidiana consumazione culturale»[24].

Chiusura dell’Esperienza

Sembra ormai delineato il percorso che ha portato alla scelta dei temi delle immagini di Esperienza dell’architettura. Alcune di queste ci sono familiari, Rogers ci ha già anticipato qualche scatto qua e là, come l’amata architettura urbana degli Uffizi nel famoso articolo sulla decorazione nel numero 7 di «Quadrante», o il vaso arcaico persiano o la scultura di Brancusi in «Domus», ma qui li ritroviamo finalmente montati in un discorso completo: in analogia alla sua teoria fatta di pezzi, scritti già pronti, così anche per l’apparato iconografico usa immagini già cariche di significato. Se è possibile intuire che l’arcaico è usato per raccontare la materialità dell’architettura, l’Oriente per sottolineare la lentezza dei processi evolutivi e i particolari ci insegnano la tecnica della costruzione, si può ora intravedere l’orditura del trattato costruito con le immagini[25].

Così il cerchio si chiude. Nel 1958 esce in libreria Esperienza dell’architettura, nello stesso anno termina la costruzione della Torre Velasca e la rivista «Casabella Continuità» cambia decisamente direzione, con le uscite mensili, l’introduzione delle immagini in copertina e dei numeri monografici, ma soprattutto con il nuovo ruolo dei giovani, Aldo Rossi e Francesco Tentori come caporedattori[26]. La nuova rivista sarà altrettanto affascinante, alcuni numeri segneranno la cultura architettonica italiana, Tentori porterà avanti il discorso sulle immagini con un taglio del tutto personale, basti pensare alle tre attrici che compaiono nel numero 251: il morso di Anna Magnani in Rossellini, la fuga di Alida Valli in Visconti e la crisi di Monica Vitti in Antonioni, per affiancare Burri a Viganò e Capogrossi a Gio Ponti. Ma gli interessi saranno altri: le domande della nuova società e la riscoperta della complessità dell’idea di città in Rossi o Canella. Rileggiamo oggi la lucida interpretazione che ci ha fornito Ezio Bonfanti[27] di quel momento e intuiamo che l’intera, imprendibile, sorprendente apertura di Rogers[28] è finita: si chiude con la scelta di una forma per la città, la Torre Velasca, con la mitizzazione del suo pensiero in un libro, con l’accettazione della violenza formale degli allievi, con l’occupazione della sua «Casabella» da parte del centro studi: Rogers si ritira affinché altri crescano.

Chi lo conoscerà dopo questo momento non avrà l’onore di essere in contatto e dunque di imparare, da questa mente aperta. Alcuni rientreranno nella terra veneta, altri riusciranno a ricavare da quest’insegnamento la propria poetica personale, ma non certo quel metodo didattico privo di forme da imporre che Rogers aveva tanto apprezzato in Gropius.

Nessuno può dire come Rogers abbia vissuto questi ultimi anni, possiamo ancora, per un’ultima volta, guardare insieme un’altra immagine che ci ha lasciato, la fotografia[29] della sua casa: un piccolo appartamento, nel cuore di Milano, dove un’infilata di stanze allontanava l’ospite dallo studiolo privato. Sulla scrivania di lavoro materiali diversi, una Parker per scrivere, libri e raccolte di pensiero europeo, ma anche, soprattutto, utensili senza tempo venuti da lontano, dalla Cina o dal Giappone[30]. Abbiamo già detto del numero importante di immagini dedicate all’Oriente che ci accompagnano nel suo libro, ora qui ritroviamo tutto il carattere di continuità e utilità di pennelli, quaderni, forbici e ciotole laccate che formano la casa dell’uomo.


[1] Pisa e l’Acropoli non sono forse un omaggio agli occhi dei viaggi giovanili di Le Corbusier, alla loro capacità di vedere nell’arcaico, tramite schizzi e fotografie, la più grande lezione d’architettura?

[2] «Si debbono stabilire, inoltre, le relazioni tra la tradizione spontanea (popolare) e la tradizione colta per saldarle in un’unica tradizione». E.N. Rogers, La responsabilità verso la tradizione, in Id., Esperienza dell’architettura, Einaudi, Torino 1958, p. 297.

[3] Ha così completato la presentazione dei suoi quattro maestri “ufficiali”, Wright, Mies, Le Corbusier e Gropius, presente per assenza di immagine, come il ruolo di educatore, che Rogers gli riserva, impone. Scrive Rogers: «Da Walter Gropius ho tratto i lineamenti dell’impostazione pedagogica, che è di carattere metodologico». E cita Gropius: «Non esiste un punto terminale in architettura; c’è solo mutamento ininterrotto». E.N. Rogers, Elogio dell’architettura, in Nel centenario del Politecnico di Milano. Conferimento delle lauree honoris causa a Aalto, Kahn e Tange, Milano, 4 aprile 1964.

[4] Come recita la lunga didascalia, in questo caso addirittura anticipata nella pagina antecedente; sotto il titolo Testimonianza concreta, Rogers parla di sintesi culturale, di carattere ed espressione decorativa della sua architettura, di «linguaggio attuale, inserito come immagine nella continuità della tradizione: cioè interamente creato». Come immagine ci dice, come disegno fissato in un tempo e per questo appositamente creato. E.N. Rogers, Esperienza dell’architettura, cit., tav. 151.

[5] La prima proposta a Einaudi del 1951 porta infatti questo titolo, coincidente con il titolo del padiglione da lui curato alla IX Triennale nello stesso anno, piccola esposizione composta da sole fotografie. Unica traccia rimasta del titolo originale è il disegno della copertina.

[6] «Nel 1903, in un viaggio in Grecia e nel Mediterraneo, la bellezza dei templi gli rende chiara l’importanza del mondo delle forme delle epoche passate quando queste non sono riprese come elementi già risolti ma come elementi vitali capaci di essere sviluppati. Questo concetto della vitalità della tradizione in opposizione all’accademismo lo svilupperà più tardi nei due libri Vom

Neuen Stil, del 1907 e Essays del 1910». E.N. Rogers, Henry van de Velde o dell’evoluzione, in «Casabella Continuità», 237, marzo 1960.

[7]Stile è un interessante fascicolo  illustrato curato dai giovani neolaureati Belgioioso, Banfi, Peressutti e Rogers nel 1936 per «Domus». Rogers sarà direttore di «Domus» dal 1946 al 1947 e di «Casabella-Continuità» dal 1953 al 1965.

[8] Stiamo ovviamente parlando della prima edizione del volume per Einaudi del 1958.

[9] Difficile resistere alla tentazione di un confronto con il Bilderatlas Mnemosyne di Aby Warburg e della libertà di associazione proposta nelle sue famose tavole-percorso attraverso i temi dell’antico e la loro continuità nel mondo occidentale.

[10] Parafrasando il titolo di Michael Baxandall, Parole per le immagini. L’arte rinascimentale e la critica, Bollati Boringhieri, Torino 2009, dove l’autore indaga le «Parole rivolte alle opere d’arte, parole che le rappresentano, parole che parlano a nome loro, che ne costituiscono il fondamento o che in taluni casi ne prendono il posto».

[11] F. Tentori, Il concetto di continuità, in Ernesto Nathan Rogers: testimonianze e studi, «Quaderni del Dipartimento di Progettazione dell’Architettura del Politecnico di Milano», 15, 1993, pp. 86-87.

[12] «Si pensi che la nostra formazione, essendo postromantica, pone il creatore come uno dei fattori dell’opera, di cui l’altro è chi ne usufruisce. S’apre in ogni nostro gesto un’attività dialettica non conchiusa, ma necessariamente indefinita, e da compiere da ognuno, che se ne serva o la ammiri». E.N. Rogers, Elogio dell’architettura, cit.

[13] «Un processo di forme possibili che si aprono a nuove relazioni», in E. Paci, Relazioni e Significati, Lampugnani Nigri Editore, Milano 1965.

[14] S. Veca, In ricordo di Enzo Paci, il filosofo e l’architetto, in Ernesto Nathan Rogers: testimonianze e studi, cit., pp. 48-50.

[15] «Questa è una palestra di opinioni: le manifestazioni del fenomeno architettonico vengono descritte come proposte, non come conclusioni da accettare o rifiutare». E.N. Rogers, Necessità dell’immagine, in «Casabella Continuità», 282, dicembre 1963.

[16] «L’architettura per l’architettura non ha senso, come non ha senso nessuna azione umana che si chiude in una tautologia». E.N. Rogers, Elogio dell’architettura, cit.

[17] Com’è noto, Ernesto Nathan Rogers in questi anni coltiva i suoi primi pensieri frequentando le lezioni di filosofia di Antonio Banfi al liceo classico Parini.

[18] «Lo stile è il modo essere del carattere». E.N. Rogers, Carattere e stile, in Id., Esperienza dell’architettura, cit., p. 218.

[19] Matilde Baffa le ha chiamate forme allusive. Per la stesura dell’intervento mi è sembrato naturale sentire le voci di Cesare Macchi Cassia e di Matilde Baffa, che erano vicini a Rogers proprio in quegli anni. O ancora forme in processo, come le definisce Giovanni Marras in La città come testo. Autonomia del linguaggio architettonico e figurazione della città, Dottorato in Composizione Architettonica, IUAV, Venezia 1992. SI TRATTA DI UNA PUBBLICAZIONE A STAMPA DEL DOTTORATO? NO, è solo la tesi dattilografata…

[20] «Il problema di imprimere formalità all’architettura, progettando contro il formalismo». G. Canella, Per Ernesto Rogers, in L’insegnamento di Ernesto N. Rogers, Dottorato in Composizione Architettonica, IUAV, Venezia 1984. SI TRATTA DI UNA PUBBLICAZIONE A STAMPA DEL DOTTORATO? SI!

[21] Se le prime due copertine parlanti rappresentano il Seagram building e uno schizzo di Le Corbusier, la terza annuncia, nella scelta di Ridolfi, il confronto con il farsi della nuova architettura italiana.

[22] «Ciò che distingue l’opera di Werner Bischof è questa qualità di rivelare, attraverso i particolari, il significato universale delle cose nella più densa accezione umana: la continua partecipazione all’atto estetico con la simpatia di tutti sentimenti, sicché essa non è soltanto un album di belle immagini ma un documento della storia degli uomini». E.N. Rogers, Architettura e Fotografia, in «Casabella Continuità», 205, aprile-maggio 1955.

[23] Come confermato da Matilde Baffa quando mi ha descritto con la precisione di un segno scolpito nella memoria, il periodo in cui ha aiutato Rogers a mettere insieme l’apparato iconografico del libro per Einaudi nel 1958. La giovane collaboratrice era in ansia nell’incontrare ogni mattina l’autore, che l’accoglieva sorridente tranquillizzandola sul fatto di non aver cambiato nulla; lei trovava invece ribaltato l’ordine ottenuto il giorno prima: ogni sera, l’autore tornava infatti a cambiare, integrare e correggere le immagini per le sue parole.

[24] Questo l’incipit di E.N. Rogers dell’articolo del 1964 su Le Corbusier, in E.N. Rogers, Editoriali di Architettura, Einaudi, Torino 1968. La raccolta degli editoriali esce quando Rogers è già molto malato: non ha illustrazioni.

[25] Dal risvolto della quarta di copertina: «la scelta delle illustrazioni, che vogliono essere esse stesse discorso, dialogo con il lettore, cultura diventata immagine».

[26] Gregotti, che aveva affiancato Rogers per molti anni a «Casabella», diventa direttore di «Edilizia moderna».

[27] [E. Bonfanti], Una rivista, in E. Bonfanti, M. Porta, Città, museo e architettura. Il gruppo BBPR nella cultura architettonica italiana 1932-1970, Vallecchi, Firenze 1973, pp. 218-223.

[28] «Da lui abbiamo imparato a sottrarci alla pretesa di dire univocamente l’essere […] a cercare e ad amare». S. Tintori, Rogers ovvero l’elogio dell’incertezza, in Ernesto Nathan Rogers: testimonianze e studi, cit.

[29] L. Spinelli, Milanese Singles. L’appartamento privato di Ernesto Nathan Rogers, in «Domus», 925, maggio 2009.

[30] Nel mondo classico «la figuratività si perfeziona come la forma di una pietra che l’acqua levighi […] Lo stesso si può dire per le architetture cinesi o giapponesi, che evolvono per raffinamento secolare dei segni più che per un marcato mutamento dell’immagine». E.N. Rogers, Mutazioni collettive e individuali, in Id., Elementi del fenomeno architettonico, Guida, Napoli 1981, p. 83. Nel volume, pubblicato per la prima volta nel 1961, le immagini sono sterilmente radunate sotto il titolo di Tavole.