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intervista

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Il giovane critico americano, che nel 1931 stava girando per l’Europa a raccogliere i documenti per quella che sarebbe divenuta la famosa mostra sull’International Style, rimase colpito dalla visita compiuta a Berlino all’esposizione L’abitare del nostro tempo, dove Mies van der Rohe aveva esposto una serie di pannelli con le lamine delle venature di differenti legni, appese, ci racconta, come allora si faceva solo con «i quadri nelle regge»[1]. Per chi conosce l’architettura di Mies non è certo una sorpresa associare al suo nome l’eloquenza dei materiali, ma quello che stupisce è che questo interesse possa diventare il tramite per affrontare il tema della casa popolare e della sua realizzazione alla grande scala della metropoli moderna, tema allora pressante nel dibattito internazionale.
Mies espone lamine di legno, mostra sezioni di alberi, spaccati che esibiscono in ogni venatura un anno dopo l’altro, una storia lunga, così lunga da diventare senza misura di tempo, di nuovo primordiale. Mies allude all’importanza della scelta, sapendo come ogni taglio sia diverso dall’altro, per tipo, per materia, per colore, per durezza, per età: sarà la semplice scelta dell’artista che ne porterà uno solo in casa Tugendhat; ma è anche vero che ogni lamina è esposta come un quadro: viene considerata un capolavoro, è bella come un’opera d’arte.
In queste opere Mies van der Rohe non è interessato alla tradizione costruttiva di un materiale, cancella la complessità della storia della costruzione per tornare al carattere primordiale della materia pura, quasi a suggerire una teoria[2] fondata sulla sensibilità.
Anche le grandi lastre di marmo e di onice esposte a Barcellona, le scelte uniche, irripetibili, del figlio dello scalpellino diventate pareti, si esibiscono come sezioni tirate a lucido di una cava antica e sono affiancate agli sfuggenti riflessi[3] del nuovissimo acciaio cromato: da questo ossimoro temporale poteva nascere l’architettura moderna.

Sulla mostra di Berlino e su Mies il raffinato e sensibile critico Philip Johnson tornerà più volte, forse proprio perché intuiva il coraggio del raccontare il valore estetico della materia, la volontà di metterla in mostra come unico strumento efficace per liberarsi dall’obbligo convenzionale, figurativo, della forma, delle forme storiche. Materia come semplice scelta dell’artista.
Anche in Asplund la materia ha un ruolo importante: il progetto per l’ampliamento del Municipio di Göteborg, le cui prime proposte datano già nel 1913, viene sviluppato più volte nei suoi tratti essenziali fino al 1935-37, gli anni della realizzazione; i temi del progetto, il grande spazio centrale e il ruolo attribuito al basamento che determina il nuovo piano nobile, sono chiari e perseguiti fin dai primi studi, e trovano sintesi nel grande vuoto della hall, illuminata dall’alto e aperta verso la corte dell’attiguo palazzo. Se è oggi possibile studiare la sequenza delle molte e diversificate varianti al progetto fino al momento della stesura definitiva[4], e constatarne la continuità del linguaggio classicista, affinato con basamenti in pietra, pilastri e colonne, non si può non restare colpiti dalla soluzione realizzata, completamente diversa proprio nel linguaggio. Dopo il viaggio in Europa in occasione del suo incarico per l’Esposizione Internazionale di Stoccolma del 1930 – abbiamo testimonianza delle visite a Brno e a Parigi – Asplund trasforma completamente il linguaggio dell’edificio, sostituendo una composizione fatta di elementi con un movimento dello spazio ottenuto grazie alle curvature delle grandi superfici in legno. Materia come linguaggio.
Potremmo elencare diversi momenti di crisi in cui si fa ricorso alla materia, come nel crollo di certezze del secondo dopoguerra e ricordare come anche Ernesto Nathan Rogers si senta nuovamente in dovere di educare alla sensibilità, pubblicando con insistenza sulla sua Casabella-continuità le belle fotografie di Werner Bischof dei particolari materici dei grandi monumenti arcaici[5]. Di nuovo ritroviamo la concretezza della pietra, e nello stesso tempo la forte astrazione della materia portata alla luce, ma nel caso di Rogers ogni momento è «inserito nel dramma dell’esistenza» e non può essere considerato entità astratta: per lui la materia è lo strumento per la rappresentazione di un momento storico attraverso la sua realtà costruttiva. Ed è proprio la concretezza della costruzione nella materia a liberare la forma dalla banalità della sua ripetizione e a obbligare ogni artista a scoprire relazioni inedite tra materia e costruzione.
Possiamo quindi azzardare che nei momenti di cambiamento, nelle fasi di passaggio e di riflessione operativa sull’architettura vi sia un ritorno alla materia: questo è avvenuto per il moderno, e questo avviene oggi, anche se in forma diversa. La bellezza della cruda materia in Mies, la materia come linguaggio in Asplund, materia e realtà costruttiva per Rogers. Sempre la libera scelta della materia in contrapposizione all’obbligo della forma. Materia versus forma.

Queste riflessioni preliminari ci introducono al cuore del libro, Madre Materia, il cui autore, già noto in Italia per un volume in parte complementare a questo, Il vuoto, ci ha già iniziato ad una modalità di scrittura fatta di riflessioni che inseguono un tema attraverso le molte interpretazioni, anche extradisciplinari, che questo può suggerire. Fernando Espuelas indaga, infatti, in questo saggio i termini che incidono sul concetto di Materia secondo una modalità di montaggio del testo anch’esso, potremmo dire, materico: una serie di concetti mostrati nella loro naturale complessità, affiancati l’uno all’altro come le lamine delle venature di Mies, dove il lettore può scegliere e rimontare le questioni, senza l’imposizione di una tesi e di una sequenza predeterminata. Vi è una componente fortemente progettuale in questo punto di vista: la possibilità cioè di scegliere l’idea del progetto a partire dalla materia e non dalla forma.
L’autore del libro si colloca dunque in continuità con quella corrente del pensiero contemporaneo, già assestata nella cultura spagnola con il libro di Iñaki Abalos La buena vida, in cui sensibilità e percezione diventano parte attiva di un pensiero soggettivo sulle scelte artistiche: il volume offre una serie di parole chiave per ripensare i valori primari dell’architettura, allontanandoci dalle forme precostituite. In questo senso si offre come un atlante, un inventario, che ben si inserisce nel panorama della poetica contemporanea, abituata a lavorare sulla breccia, sulla rovina, sul frammento e la sua sineddoche, aprendo alla fantasia di ogni possibile tutto, ma che rimanda all’intero solo con l’allusione. Proprio nel saggio su frammentazione e compattezza Rafael Moneo ha analizzato in maniera lucida questa condizione del contemporaneo che rifugge la forma: «La forma è legata a ciò che è permanente, ostacolando il potenziale racchiuso nel futuro, ed è perciò caduta in disgrazia»[6].
In questa condizione del contemporaneo, la materia torna a essere un utile strumento di lavoro. Nelle librerie oggi è ormai possibile trovare sugli scaffali libri interi fatti di immagini, dove, sfogliando patinate pagine a colori, si entra nei mondi personali degli autori[7], la cui comunicazione prevalente è quella materica; spesso si riconoscono alcuni dettagli, si intuisce una familiarità con la nostra memoria di studiosi di architettura: in mezzo ai più sconosciuti reperti di un mondo materico anonimo, si scopre un frammento di Zumthor, un pezzo di Asplund, ma anche uno spigolo di Le Corbusier o una texture di Lewerentz, ritrovando i maestri solo perché osservati a lungo, perché non si è potuto fare a meno di andarli a conoscere nella loro matericità.
Queste pubblicazioni hanno una genealogia nobile nell’opera scritta e costruita dagli architetti svizzeri Herzog & de Meuron. Già negli anni Ottanta, in un momento in cui l’architettura in Italia veniva fatta con i pantone e in Spagna Rafael Moneo sentiva l’esigenza di costruire gli imbotti profondi di Bankinter, gli allievi zurighesi di Aldo Rossi, con le loro opere costruite hanno saputo spostare l’interesse degli architetti più sensibili dalle ormai sterili forme storiche alla potenzialità della materia; solo recentemente questo approccio ha trovato esito compiuto in un catalogo pubblicato[8] dal CCA sulla loro opera giustamente intitolato Natural History. Il volume, che non appartiene più alla categoria dei testi teorici da leggere dall’inizio alla fine, si presenta invece come una raccolta di materiali: in questo caso scritti di autori diversi e interviste sono intrecciati con i frammenti materici e visivi cari alla loro poetica. L’atteggiamento progettuale e artistico degli autori non a caso rende esplicito il riferimento alle infinite pagine che compongono l’affascinante Atlas di Gerhard Richter[9], in cui le pennellate, la loro materia, il loro colore sono scelte dall’artista e montate in serie, in campionature sperimentali. Anche le infinite foto dei cieli, così come gli acquarelli di Venezia di Turner, non sono altro che prove, centinaia di prove di colori, prove di accostamenti, prove di definizione di una massa, di una materia non ancora riconducibile a forma. Ma l’aspetto più interessante dell’opera di Herzog & de Meuron è forse il fatto che questa liberazione dalle forme del passato permette di tornare a riflettere sui concetti operativi propri della disciplina, ragionare nella pratica sul significato di alcune operazioni compositive strettamente vincolate dalla sensibilità dell’artista, come la scelta dell’uniformità, della ripetizione, della compatezza, ma anche della frammentazione, del non-finito, del montaggio.
E così, proprio nell’indice di Natural History, riacquistano senso parole come trasformazione e straniamento, appropriatezza e variazione, accumulo e compressione, permettendo al lavoro dell’uomo sulla materia di dimostrarsi come imprescindibile per compiere il passaggio obbligato dalla natura alla materia.
Se da un lato infatti l’uso immediato della materia ci riporta all’idea della natura, bisogna osservare in verità che la materia usata in architettura si trova all’interno delle montagne, nei boschi, nelle miniere, che non si dà senza il lavoro dell’uomo. «Queste materie, sorte dalla natura ma non naturali, [sono] prodotti dalla fatica umana e il racconto della loro lavorazione… affiora attraverso i segni della cultura materiale… Si ha l’impressione che questi oggetti, apparentemente elementari, contengano, proprio per questo processo di accumulo, una sequenza di tempo condensato»[10].
Una condizione temporale eccezionale si dice: da un lato senza tempo, e dall’altra sempre in contatto, tramite il lavoro dell’uomo sui materiali, con gli avanzamenti più attuali della tecnica della costruzione. Anche questo doppio aspetto è una declinazione nel tempo dell’immediatezza della materia.
Un’immediatezza in verità utile al progetto contemporaneo, che si trova oggi in una fase di ripensamento e ha trovato nuovamente nella materia il punto da cui ricominciare, riscoprendo e facendo proprio alcuni caratteri specifici dei singoli materiali.

La materia, le poche materie di base dell’architettura, naturali e fabbricate, aprono i Quattro libri dell’Architettura di Andrea Palladio: le pietre, quelle naturali e quelle cotte dall’uomo (i mattoni) i legnami, le arene e i metalli, a cui possiamo aggiungere in epoca moderna il vetro. Da queste poche materie possiamo ottenere i molti materiali da costruzione e i diversi caratteri che alla nostra architettura vogliamo dare: ci sono le famiglie della durata e dell’accoglienza, ma anche quelle dell’ambiguità e dell’aggressività, della trasparenza o dell’opacità, purché si conoscano le proprietà specifiche di ogni materia, come ad esempio la proprietà di diffusione o di riflessione della luce. Se l’intuizione palladiana del potenziale scultoreo delle arene, si trasforma in epoca moderna nei grandi getti del cemento armato, acquistando la dignità di una nuova materia nel raggiungimento dei suoi valori scultoreo-plastici, in realtà è solo il vetro che cambia profondamente la consistenza materica dell’architettura recente.
Il carattere sovversivo della nozione di smaterializzazione era già stata utilizzato da Mies van Rohe nei progetti degli anni venti per il grattacielo per la Friedrichstraße, dove la scelta del vetro è espressa proprio per attenuare l’impatto del nuovo tipo edilizio, il grattacielo appunto, sulla città antica[11].
Anche le sperimentazioni contemporanee più interessanti sullo spazio, come le opere della giapponese Sejima, sono tutte fondate sull’ambiguità nell’uso dei materiali: riflessi e sovrapposizioni di vetri, ma anche l’uniformità della materia come nuova soluzione progettuale.
Se caratteristica dell’architettura è quella di non poter negare, la materia permette anche di giocare sui paradossi: così la vernice lucida spennellata sulle grandi superfici in cemento armato delle opere di MVRDV o la finezza del rivestimento ceramico della splendida casa di Perret in rue Franklin.
Abbiamo già detto che la materia diventa linguaggio, in realtà si sostituisce alla complessità del linguaggio con la sua fisicità. Ferdinando Scianna ricordava proprio questo come uno dei caratteri della fotografia[12], del suo distinguersi dalla pittura: nel secondo caso l’immagine è creata dall’uomo, mentre nel primo viene trovata dall’uomo. Questa condizione di ritrovamento, dove la componente casuale assume una sua importanza è da associare con un’altra condizione del contemporaneo che ben è rappresentata da quell’objet trouvé che Rem Koolhaas costruisce come Casa della Musica a Oporto: in questo caso sembra addirittura che l’architetto olandese voglia rappresentare un frammento di materia caduto sulla terra.
L’immediatezza della materia sembra dunque assolvere, in epoca contemporanea, alle tematiche dell’architettura che non possono essere eluse, ai suoi caratteri fondativi, ma che non si possono più affrontare con gli strumenti disciplinari e compositivi tradizionali. È così possibile, ad esempio, parlare di un luogo semplicemente con la scelta della sua materia, così come alludere alla memoria con la sensibilità di una materia in contrapposizione all’imposizione di una figura, che spesso assume tratti caricaturali.
In questo modo l’architettura può anche rendere esplicite le influenze delle altre arti, basti pensare alla strettissima relazione che lega progetti recenti alla Land art o ad una determinata corrente del minimalismo, fondata sulla comune comprensione delle possibilità che la materia offre.
Senza il controllo del tempo, dello spazio e della misura, l’architettura sceglie dunque l’immediatezza della materia: la fiducia della solida pietra, il ritmo inesorabile degli infiniti mattoni, l’accoglienza delle morbide curve del legno, l’astrazione dei riflessi del vetro, la forza del ferro sono ready made per la sensibilità dell’architetto, ma anche per quell’abitante del quotidiano che la deve vivere. Ci dice André Breton, nel suo Dictionnaire abrégé du surréalisme nel 1924, che il ready made è: «oggetto usuale, promosso alla dignità di oggetto artistico dalla semplice scelta dell’artista». Semplice scelta dell’artista. Semplice!

Luglio 2012


[1] Philip Johnson and the Museum of Modern Art, MOMA, New York, 1998, p. 42.

[2] Nelle poche righe scritte che Mies van der Rohe ci ha lasciato, nelle stesse pagine della rivista « G » da cui aveva scagliato l’anatema contro la forma, riscatta il materiale tra i temi fondativi della nuova architettura, vedi Ludwig Mies van der Rohe, “Costruire” e “Costruire industrialmente”, in Mara De Benedetti, Attilio Pracchi, Antologia dell’Architettura Moderna, Zanichelli, Bologna, 1988, p. 399-401. Cfr. anche Fritz Neumeyer, Mies van der Rohe. Le architetture, gli scritti, Skira, Milano, 1996.

[3] Bruno Reichlin, “Conjectures à propos des colonnes réfléchissantes de Mies van der Rohe” in La colonne, nouvelle histoire de la construction, sous la direction de Roberto Gargiani, PPUR, Losanna, 2008.

[4] José Manuel López-Peláez, La arquitectura de Gunnar Asplund, Fundacíon Caja Arquitectos, Barcellona, 2002.

[5] «Gli oggetti diventano antichi quando hanno superato di essere vecchi, ma questa è qualità di pochi esempi selezionati. Quando diventano antichi ridiventano patrimonio attuale e possiamo farne uso pratico e quotidiana consumazione culturale». Questo l’incipit dell’articolo del 1964 “Le Corbusier”, in Ernesto Nathan Rogers, Editoriali di Architettura, Einaudi, Torino, 1968.

[6] Rafael Moneo, “Paradigmi di fine secolo: frammentazione e compattezza nell’architettura recente”, in L’altra modernità, Considerazioni sul futuro dell’architettura, Christian Marinotti, Milano, 2012, p. 59.

[7] Cfr. John Pawson, A visual inventory, Phaidon, Londra, 2011.

[8] Philip Ursprung, a cura di, Herzog & de Meuron: natural history, CCA, Montreal, 2003.

[9] Gerhard Richter, Atlas der Fotos, Collagen und Skizzen, Oktagon, Colonia, 1998.

[10] Massimo Fortis, “Materia e forma”, in Ghitti, memoria del ferro, Mazzotta, Milano, 2006, p. 57.

[11] Bruno Reichlin, “Quant’è trasparente il vetro?”, in Franz Graf e Francesca Albani, a cura di, Il vetro nell’architettura del 20° secolo: conservazione e restauro, Mendrisio Academy Press, Mendrisio, 2011, p. 162.

[12] «Perché la natura specifica della fotografia, e in questo risiede la sua straordinaria, gigantesca rivoluzione, è che per la prima volta non dà conto di un’ immagine “fatta” dall’ uomo, ma “trovata” dall’ uomo: nella realtà, nel mondo», Ferdinando Scianna, Le trovate d’artista non bastano più. L’estetica è nella necessità dell’opera, in « la Repubblica », 26 giugno 2012.

JORGE OTEIZA: DALL’ASTRAZIONE ALLA STORIA

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Non vi è scritto, interpretazione, citazione, saggio o riferimento a Jorge Oteiza che non riporti con stupore la brusca interruzione del Proposito Sperimentale che lo scultore basco, nel momento del massimo riconoscimento del suo fare artistico, ha attuato alla fine degli anni cinquanta. Ma chi era e cosa stava facendo Jorge Oteiza? E soprattutto cosa avrebbe poi fatto?

Possiamo davvero parlare dell’opera scultorea, della sperimentazione formale di questo artista senza tener conto della profondità della sua cultura, quella basca peraltro così particolare, del suo mondo di riferimenti artistici, che scandaglia la storia antica e recente alla ricerca disperata di “famiglie spirituali” e del suo pensiero più intimo, nel confronto continuo con la vita e con la morte, con la realtà dell’attualità e con l’arcaico[1]?

Al momento della sua clamorosa decisione Oteiza aveva già percorso un tragitto estremamente lineare all’interno della scultura: ci ricorda con precisione Maite Muñoz come, rientrato dall’esilio in Sudamerica nel 1948, “Oteiza cerca di introdurre lo spazio nella scultura bucando il blocco originale, cerca di far convivere il vuoto con il pieno fino a far diventare lo spazio il protagonista delle sue opere”[2]. Si applicherà allo svuotamento delle figure umane, e nello stesso tempo si metterà in gioco nell’astrazione geometrica, con una ricerca sulle forme che subirà nel corso di pochi anni (la decina che si chiude nel 1958) un’evoluzione chiarissima, che possiamo riassumere in una sua frase del 1947, dove anticipava che “il vuoto deve essere oggetto di un nuovo ragionamento plastico. Il vuoto dovrà costituire il transito da una statua-massa tradizionale alla statua-energia del futuro. Dalla Statua pesante e chiusa alla Statua leggera e aperta.”[3]  Nello stesso scritto annunciava anche che il significato dell’opera, “la soluzione, si trova fuori da se stessa” e che lo spettatore deve venir coinvolto attivamente nella composizione. Brevi testimonianze che anticipano il programma di vita che avrebbe affrontato solo dieci anni dopo, alla conclusione della sua fase di sperimentazione.

Ben sintetizzate nella serie dei titoli che compongono il Proposito Sperimentale del 1956/57, suddivise nei capitoli delle Dis-occupazioni di Cilindro, Sfera, e Cubo, Conclusione ed efficacemente descritte come Solidi aperti, Moduli di Luce, Aperture di poliedri, Definizione lineare di poliedro vuoto, Fusione di due Cuboidi Aperti, Associazione di blocchi di pietra (secondo la matrice Malevitch), Apertura lenta, Costruzioni vuote con unità positivo – negativo, Espansioni, Fusioni di elementi curvi, Casse vuote e Casse metafisiche, le pratiche operative si concretizzano nelle sculture da tavolo realizzate in pietra, marmo, cemento e, soprattutto, in ferro.

Le prime opere indagano i rapporti tra più forme geometriche, attraverso la loro fusione o il loro movimento nello spazio, procedimento presto criticato dallo stesso Oteiza a favore di una tensione tra le parti da generare dinamicamente e non meccanicamente; sperimentano inoltre, con le ritenzioni di luce, il lavoro con la luce come generatrice di vuoto. “Lo spazio – affermerà Oteiza nel 1957 – non si produce con lo svuotamento fisico della massa, risulta bensì dalla fusione di unità formali leggere, dinamiche o aperte, con cui si ottiene la rottura della neutralità dello spazio libero della statua.”[4] Con il concetto di fusione, con la scoperta della tensione tra le parti, si produce l’allontanamento dallo svuotamento della materia di Henry Moore e si chiarisce la portata della sua definizione di spazio vuoto.

 Più tardi, sempre attraverso i titoli delle opere, Oteiza ci presenta la sua genealogia poetica: come ogni artefice, il maestro basco sente la necessità di collocare il suo lavoro in continuità con antichi e nuovi maestri; i primi, anonimi, affondano le radici nella vastità della cultura europea, come l’arcaico dei cromlech, per arrivare, attraverso Velázquez, al moderno delle esperienze astratte, prima fra tutte quella costruttivista russa. Las Meninas (il concavo e il convesso, il cane e lo specchio) Omaggio a Mallarmé, Conclusione sperimentale A per Mondrian, Omaggio a Paul Klee, sono solo alcuni dei titoli che si spingono fino all’individuazione dell’Unità Malevitch, un “quadrato irregolare con capacità di movimento diagonale.”[5]  Alla sua operatività scultorea non corrisponde dunque una vita isolata dal mondo, bensì un costante approfondimento e aggiornamento sull’arte contemporanea che ha lo scopo di collocare la sua riflessione teorica in un mondo di relazioni preciso, complementare agli studi di storia dell’arte da sempre dettati dai problemi incontrati sul tavolo di lavoro.

Le ultime opere di questa serie, come le Casse vuote e le Casse metafisiche, sono così descritte dall’autore: “La mia conclusione del 1958 si realizzò con uno spazio vuoto puramente ricettivo che mi ha lasciato senza scultura nelle mani.”[6] o ancora “ho terminato in uno spazio negativo, in uno spazio solo e vuoto […] tutto il processo dell’arte preistorica europea finisce nel vuoto trascendente dello spazio vuoto del cromlech neolitico basco. […] Questo vuoto finale significa che l’arte non ha più bisogno di esplorare, che ha già elaborato una sensibilità attuale per la vita.”[7]

La cultura filtrata dagli occhi dell’artefice, prima plasmata sulla materia, serve ora a costruire l’artista stesso e il suo mondo. Oteiza lascia la sperimentazione artistica a favore della vita: intuita la logica e la potenzialità della forma, ne percepisce il fascino e il pericolo, e sceglie di limitarsi a ripetere quel linguaggio che lui stesso aveva modellato fino a attribuirgli significati diversi. Nell’abbandono graduale della funzione espressiva si esplicita il carattere di servizio che doveva prendere la sperimentazione.[8]

Gran parte del suo lavoro successivo sarà, infatti, scrivere saggi, poesia, articoli, utili a forgiare un’estetica basca, a inventarne un’origine e costruirne il futuro, usando l’esperienza formale acquisita; lo farà in molti modi, con i libri[9], sui giornali, attraverso il cinema, ma anche, ancora, con la scultura.

I temi del Proposito Sperimentale vengono selezionati, alcuni acquistano nomi eroici, espressivi del loro rapporto con il territorio – Guerriero, Odisseo – ma soprattutto subiscono un salto di scala importante e si trasformano in monumenti politici.

L’uomo pubblico si esprime a voce alta, mentre l’uomo privato, il creatore di forme chiuso nel suo atelier, non può comunque smettere di lavorare sulla materia; in quello che diventerà il suo famoso Laboratorio di gessi, le forme si confrontano e si moltiplicano alla scala più minuta, intima, in una sorta di ossessiva e cumulativa ricerca sui rapporti tra le parti. Ai due estremi della sua attività possiamo vedere il continuo ritorno ai risultati formali raggiunti nel 1958: alla scala della miniatura e alla scala immensa della sua madre terra, arroccando grandi monumenti in quella natura così pagana, costellandola di memorie di prigionieri e di manifesti politici, di guerrieri che difendono il territorio del popolo basco.

Nel gesto della disposizione di questi manufatti sulla terra si stabiliscono necessariamente rapporti complementari con il sito, si crea una tensione tra gli elementi che riempie di significato il sentirsi in un luogo, attraverso la riappropriazione del cosmo. Nel 1952 Oteiza scrive: “L’architettura e la scultura hanno in comune la creazione dello spazio. In questo caso si tratta del risultato ultimo in cui lo sviluppo dello spazio nel senso plastico si ottiene attraverso l’uso di strumenti architettonici. In contraddizione con l’idea di scultura tradizionale, che quasi sempre – compresa l’arte moderna – è una forma collocata in uno spazio esteriore, questa volta, consciamente, si è cercato di ottenere che la scultura fosse lo spazio interiore, in modo tale che entrambi gli spazi, interiore e esteriore, si integrassero”[10]. Non sta forse descrivendo la famosa scultura La Piazza dove, proprio in quegli anni, Alberto Giacometti metteva in atto il medesimo ribaltamento dello spazio?[11]

Ovviamente gli occhi attenti degli architetti spagnoli hanno colto per primi queste potenzialità della sua ricerca. Il lavoro sulla respirazione spaziale, aperta e chiusa, sulla modulazione della luce e sul cambio di scala hanno interessato non solo gli amici baschi e navarri di una vita, come Sáenz de Oiza e Fullaondo, che con lui costruirono santuari, musei e riviste, ma anche i futuri maestri della cultura iberica. Rafael Moneo già nel 1967 scriveva come Jorge Oteiza arquitecto[12] avrebbe potuto riscattare, attraverso una nuova ricerca sullo spazio, un momento difficile della cultura architettonica, involuta su questioni linguistiche, mentre il pittore, scultore e architetto Juan Navarro Baldeweg, nei suoi saggi Un oggetto è una sezione e La geometria complementare, ci fornisce gli indizi per scoprirne un’eredità nella propria poetica.

Ma la sua eredità è stata colta nella giusta profondità o è stata indagata fondamentalmente come sperimentazione formale? Come possiamo comprendere il passaggio da Fusione di due Cuboidi Aperti a Ritratto di un guerriero armato chiamato Odisseo? Come possiamo muoverci nella complessità del lavoro del grande scultore senza analizzare gli strumenti concettuali e culturali sui quali è fondata? Questo volume s’incarica, attraverso la dettagliata lettura dei molti strumenti di comunicazione utilizzati da Oteiza, di riempire di significato il vuoto delle Casse di Oteiza, inserendo il discorso formale in una prospettiva di valori più ampia.

Lo scritto di Gillermo Zuaznabar sembra essere ben consapevole del fascino e del rischio che la bellezza delle forme ci offre, così come dell’impossibilità di rinunciarvi. E scegliendo di entrare nel vivo della descrizione delle opere pubbliche principali, quali ad esempio gli apostoli della basilica di Arantzazu o il monumento al Padre Donosti, ne fornisce una rilettura che inanella quei temi e quei concetti che Oteiza aveva nascosto nella vastità della sua produzione cartacea.

Persino la costruzione della casa-atelier di Oteiza a Irun o la collocazione di una pietra scolpita sul ponte del confine con la Francia possono allora diventare parte attiva del processo di definizione dell’animo basco, e insegnare a conoscere la particolare prospettiva con cui Oteiza ha interpretato la storia della sua terra e il suo paesaggio, attraverso la vita e la morte, l’arcaico e il contemporaneo, il tempo e lo spazio. Un lascito che i giovani artisti con il cappello alla Beuys, che si aggiravano nel padiglione centrale dell’ultima edizione di Documenta a Kassel, hanno percepito inconsapevolmente nell’ammirare stupiti la gigantografia del Laboratorio di gessi.


[1] “La contemporaneità s’iscrive, infatti, nel presente segnandolo innanzitutto come arcaico e solo chi percepisce nel più moderno e recente gli indici e le segnature dell’arcaico può essere contemporaneo. Arcaico significa: prossimo all’arké, cioè all’origine. Ma l’origine non è situata soltanto in un passato cronologico: essa è contemporanea al divenire storico e non cessa di operare in questo […] Lo scarto, e insieme la vicinanza, che definiscono la contemporaneità hanno il loro fondamento in questa prossimità con l’origine, che in nessun punto pulsa con più forza che nel presente.” Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, Roma, 2008, p. 39.

[2] María Teresa Muñoz, Prólogo. Arte, ciencia y mito, nell’edizione critica di Jorge Oteiza, Interpretación estética de la estatuaria megalítica americana, 2007, p.45, T.d.A.

[3] Jorge Oteiza, “Del Escultor Oteiza por el mismo”, in Cabalgata, Buenos Aires, 1947, T.d.A.

[4] Jorge Oteiza, Propósito Experimental, presentato a São Paulo do Brasil, 1956-57, T.d.A.

[5] “Malevitch rappresenta l’unico fondamento vivo delle nuove realtà spaziali. Nel vuoto del piano ci ha lasciato una piccola superficie, la cui natura formale leggera, dinamica, instabile, fluttuante occorre capire in tutta la sua portata. Io la chiamo Malevitch”. Jorge Oteiza, Propósito Experimental, Op. cit., T.d.A.

[6] Jorge Oteiza, “Pobreza aparente de mi escultura », in Cartas al principe, Zarautz, 1988, p.65, T.d.A.

[7] Jorge Oteiza, Quosque tandem …! Ensayo de interpretación estética del alma vasca, Auñamendi, Donostia, p. 77, T.d.A.

[8] Daniel Fullaondo, in Nueva Forma, n° 28, maggio 1968, p.21, T.d.A.

[9] “Per Oteiza la pagina bianca è campo di operazioni simile al blocco di pietra o a qualsiasi altro materiale, perché gli serve per scegliere alcuni elementi, stabilire relazioni tra questi, introdurre metafore e, a partire da tutto questo, creare una nuova entità.” María Teresa Muñoz, Op. cit. p.58, T.d.A.

[10] Memoria del proyecto del escultor Oteiza presentada al concurso international para el monumento al prisonero politico desconoscido y protesta ante el jurado, Londra 1952, in RNA, 1952, T.d.A.

[11] Oteiza ha sempre mostrato un’attenzione particolare all’artista svizzero, riconoscendo nella sua opera un’analogia con la sua ricerca sullo spazio. In Quosque tandem …! dice Oteiza sulla scultura di Giacometti: “Dimagrimento della figura della rappresentazione o disoccupazione spaziale della statua come necessità spirituale di un vuoto recettivo figurato”.

[12] Rafael Moneo, “Jorge Oteiza arquitecto”, in Forma Nueva, n° 16, maggio 1967, p.22, T.d.A.