Archivi per la categoria: città

CASA E CITTA’: MILANO VERSUS EUROPA, IERI E OGGI

Questo slideshow richiede JavaScript.

Oggetto di questo lavoro è una riflessione sulle recenti opere costruite a Milano, in particolare sui nuovi quartieri residenziali realizzati dalla metà degli anni novanta ad oggi. Si tratta di grandi comparti, spesso aree industriali dismesse, di rilevante consistenza, che sono state riconvertite alla città. La loro estensione ne fa oggetto di uno speciale interesse, per la ricchezza dei temi che avrebbe potuto suscitare, in contrasto con le soluzioni realizzate, spesso ripetitive e convenzionali. Quello che si vorrebbe mettere in evidenza, confrontando la nostra esperienza locale con altre realtà esterne all’Italia, è individuare una serie di temi su cui la città europea si sta interrogando, su cui sta lavorando con continuità, per valutarne l’impatto nelle recenti realizzazioni milanesi. Le variazioni sulla scala urbana, la conferma o la rottura della trama, il rapporto con la strada o il controllo dell’altezza non sono solo le strategie progettuali che le migliori esperienze europee attuali stanno mettendo in atto, ma in fondo sono sempre stati concetti su cui hanno lavorato anche i maestri milanesi della generazione del dopoguerra, il cui studio permette di scoprire ancora oggi molte interessanti soluzioni progettuali.

Gli elaborati grafici che accompagnano queste riflessioni sono stati redatti in occasione della pubblicazione, avvenuta nel 2009, del numero dedicato a Casa e città di QA24, la rivista del Dipartimento di Progettazione dell’Architettura, diretto allora da Massimo Fortis. Il tentativo intrapreso con il ridisegno dei nuovi quartieri, progettati e realizzati tra il 1997 e il 2007, non era solo quello di documentare in un’unica mappa tutti i recenti interventi, ma anche quello di rendere confrontabili, per realtà volumetrica, le planimetrie dei diversi comparti; una campagna fotografica, realizzata da Marco Introini, ne documentava inoltre la loro realtà fisica e costruttiva.

A una prima lettura era apparso subito evidente che vi erano numerosi tratti comuni tra i diversi interventi, quali ad esempio l’uso ripetuto del tipo della corte aperta o la serialità dell’edificio in altezza, piuttosto che un’indifferenza alle variazioni dei piani in altezza o all’altezza di gronda dell’edificio, che trasformavano ogni singolo intervento in un’occasione persa rispetto alla potenziale complessità che ogni contesto avrebbe potuto sollecitare. Ma una lettura più precisa oggi non può fare a meno di valutare questi interventi in un tempo più lungo, in una storia europea più complessa, dove la formalizzazione di alcune idee della modernità, la sperimentazione sul campo e la declinazione nei contesti, si è rivelata spesso molto feconda. Così come il razionalismo aveva trovato in terra lombarda un proprio carattere, così la città della contemporaneità europea è sicuramente stata un riferimento per le opere recenti.

Innanzitutto è utile chiarire l’attualità di quel felice momento della storia architettonica milanese che, a cavallo della seconda guerra mondiale, ha saputo interpretare i principi della città razionalista nord europea, con una adesione più immediata nei primi quartieri modello progettati tra il 1938 e il 1940 e successivamente interpretati nella maniera lenta con cui si costruirà la città del dopoguerra. Una maniera in cui la nuova architettura si integra e si coniuga con un particolare carattere “urbano” della città, solido e severo, già formato con la controriforma, e poi consolidato con il Piermarini e i progetti della Commissione d’Ornato nel periodo neoclassico.

La ricerca sull’urbanità, nel caso di architetti lombardi come Muzio, Gardella, Asnago e Vender, o Caccia Dominioni, era già una tradizione di lavoro quasi inconsapevole, con cui hanno ricostruito con naturalità la nuova città, dominando un ricco repertorio di strumenti compositivi, appresi in continuità con l’esperienza storica e rivisitati con gli occhi della modernità.

Un mondo, e soprattutto una professione, in gran parte scomparsa negli anni successivi, in cui le estremizzazioni della teoria e della politica ne hanno minato le basi. I discutibili esiti dei grandi interventi residenziali della Milano attuale non possono che essere riletti in questa prospettiva, ben consapevoli che il progetto della residenza in Europa è oggi il risultato di un’idea di città dove l’eredità del moderno ha trovato nella continuità del lavoro una sua lenta integrazione nella pratica professionale. Penso sicuramente alla Svizzera e alla Germania, ma anche ai paesi scandinavi e alla loro influenza sulla recente architettura iberica. Finiti i tempi delle sperimentazioni più ardite, la professione si è concentrata, nel caso della residenza in Europa, alla costruzione della reale architettura della città.

L’architettura della città[2] scritta da Aldo Rossi, si occupava in gran parte della definizione teorica e storica del valore della città, sapendo inserire il moderno nella continuità della storia urbana, ma proponeva poi solo architetture iconiche, oggetti ready made che difficilmente sapevano declinarsi, soprattutto sul tema dell’abitare collettivo, nei caratteri del contingente e del contemporaneo: la scelta dell’immagine dell’archetipo per la sua coerenza urbana sembrava sufficiente a risolvere la città e si poteva dimenticare la ricchezza della parola linguaggio. Il collage in fondo aveva proprio questo significato: l’intercambiabilità dell’oggetto architettonico, non la sua integrazione, declinazione, variazione, compromissione con l’ambiente, come proponeva invece negli stessi anni Maurice Cerasi[3].

La città italiana sta ancora pagando l’approccio troppo raffinato, afasico ed elitario di Rossi, come ben sottolinea Bernardo Secchi: «vorrei sottolineare il rapporto tra oggetto architettonico e architettura della città. Io parto dal presupposto che la seconda parte del secolo scorso è stata colpita da una grave forma di miopia critica; non ci si è resi conto che ciò che stava progressivamente venendo a mancare, era soprattutto l’architettura della città, che si costruivano nella città degli oggetti architettonici, e che l’affermare sempre più la loro individualità avrebbe cancellato il loro significato; essi si perdevano, come i quattromila grattacieli di Shanghai, nel camouflage collettivo dei metronomi [del Poème symphonique] di Ligeti. Si disponeva delle parole, ma non si riusciva a organizzare il discorso. »[4]

Forse possiamo azzardare l’ipotesi che la distanza degli esiti progettuali milanesi dai felici recenti interventi europei, dipenda da questa interruzione in una ricerca lunga sul linguaggio e sulle forme dell’urbanità. L’architetto torinese Carlo Mollino aveva già intuito questo rischio nel rapporto con la tradizione dell’architettura italiana quando ci ammoniva: «La decadenza dell’architettura comincia dal giorno in cui si volle parere anziché essere, in cui si volle evadere verso l’espressione orecchiata di un mondo che non era più il nostro, quando con astratta e presuntuosa cultura, a differenza di quanto era nel cuore del Rinascimento, si volle risalire una tradizione. Da quel giorno l’architettura non ebbe più un volto; incapace di interpretare il suo tempo, incapace di far rivivere trasfigurati da un attuale sentimento quelli con tanta sicumera invocati.»[5]

Mollino scrive queste parole nel 1946, negli stessi anni in cui Luigi Moretti dirigeva i pochi e fondativi numeri della rivista Spazio, e in cui sperimentava, come vedremo, sul corpo della città nuove spazialità. Carlo Mollino e Luigi Moretti, nei loro scritti, ci hanno lasciato le parole per capire l’evoluzione, le variazioni e le integrazioni di un’idea d’architettura vista sempre in continuità con la storia, fatta dall’interno, dal suo essere nell’attuale: un tempo pieno di attualità, diceva W. Benjamin. Tutti i migliori progetti realizzati a Milano in quegli anni hanno questo forte carattere sperimentale, in cui la tradizione e il moderno non cercano di differenziarsi, bensì si declinano nei caratteri dell’urbanità del proprio tempo.

Il vocabolario descrive il termine urbanità come «Modo di comportarsi civile e cortese nei normali rapporti con altre persone», mentre l’urbanista tedesco Sieverts ci spiega che il concetto di urbanità si fonda «su un’immagine idealizzata della città borghese europea, nella sua articolazione dei secoli XVIII e XIX. […] nelle città abitate da borghesia illuminata. »[6] E ancora, forse più precisa sui caratteri architettonici, è la definizione di Françoise Choay, «urbanità è l’adeguamento reciproco di una forma di città costruita, e della sua configurazione spaziale, e di una forma di convivialità».[7]

Nel caso della città di Milano e dell’architettura del Novecento, questa urbanità è sicuramente voluta in alcuni importanti esempi, come il fuori scala dell’isolato urbano della Ca’ Brutta di Giovanni Muzio, in cui il grande blocco del condominio residenziale si spacca ad accogliere un tratto di strada interna, uno dei primi esempi in cui l’edificio stesso si fa città.

Ma forse l’esempio più chiaro dell’integrazione dell’architettura del razionalismo nella tradizione è rappresentato dall’opera di Giuseppe Terragni; quando costruisce Casa Rustici in Corso Sempione a Milano nel 1936 si trova a confrontare due idee di città: da una parte l’idea della città razionalista tedesca, cui si devono i due corpi di fabbrica paralleli, che seguono le prescrizioni dell’asse eliotermico, dall’altra la città tradizionale, che vedeva il fronte principale, il basamento e il cortile come i temi urbani imposti dal regolamento edilizio: la disposizione dei corpi di fabbrica, perpendicolari al grande boulevard urbano, sembra rispondere con decisione ai principi dell’orientamento, ma la rotazione dei due corpi si stempera poi nella ricerca di un’unità, di una compattezza si direbbe oggi, che l’orizzontalità delle terrazze tiene insieme e ricompone.

Prima della guerra la cultura razionalista di Casabella si esprime nel disegno dei grandi quartieri satellite delle case popolari, ripresi in seguito nei progetti manifesto della Milano Verde o della Città Orizzontale di Diotallevi e Marescotti. Nel dopoguerra questa esperienza apparentemente astratta si articola invece sull’intera città, ricostruendo i grandi brani distrutti dalla guerra: proprio questi progetti dei maestri milanesi, la cui coralità non fa che consolidare l’immagine severa della città operosa, possono essere letti come una serie di temi architettonici che interpretano l’urbanità dell’abitare in città, primo fra tutti il tema dell’altezza, strumento di controllo del contesto tramite la scala urbana.

Basti pensare al Quartiere Harar, alla variazione di scala tra il tessuto omogeneo delle case a patio e alla contrapposizione degli edifici in linea che si sviluppano in altezza: in questo progetto è presente quella sensibilità per i rapporti spaziali, quella modulazione, come la chiamava lo scultore Fausto Melotti, che sembra invece mancare alle sistemazioni più recenti.

Modulazione e articolazione spaziale: ci ricorda nuovamente Thomas Sieverts che vi sono tre tipi di densità: quella edilizia, che indica il rapporto tra suolo ed edificato, la densità sociale, e la densità apparente, che misura il grado di apertura visuale dello spazio.[8]

La ricerca di nuove spazialità caratterizza proprio gli studi di Luigi Moretti, e si realizza al meglio nell’edificio di Corso Italia, costruito nel 1955 a Milano, architettura tutta risolta nel gesto espressivo del rifiuto della strada del corpo alto in contrapposizione al basamento su cui appoggia, che invece ne ribadiva la continuità.

La soluzione morfologica trova anche nel linguaggio architettonico, che ci piace confrontare con gli sfalsamenti e le rotazioni dei migliori progetti di Asnago e Vender a Milano, una sua adeguata risposta.

E il pensiero non può non correre ai fotogrammi del cinema di Antonioni, girati proprio in queste architetture moderne milanesi, di cui usava la bellezza per parlarci della modernità e del disagio, della nostra impossibilità di sfuggire al fascino di quell’urbanità non voluta, in un’accettazione rassegnata della nuova scala urbana. Così come fecero Asnago e Vender accettando la densità della città del dopoguerra e realizzando nell’edificio di via Lanzone il confronto tra la scala della città antica su strada e la libertà del corpo del moderno verso il giardino.

Ognuno di questi architetti ha dato una risposta precisa a questa idea di città che si andava configurando, ognuno ne ha dato una declinazione particolare, scegliendo di lavorare sui temi dell’urbanità come revisione del moderno dall’interno, fino ad articolare una lingua elegante e raffinata, urbana e domestica allo stesso tempo, vivibile dal cittadino e dall’abitante. Hanno cioè saputo tenere insieme due poli apparentemente così uniti, ma anche così diversi, se analizzati nei loro statuti. La città, con le sue crude realtà economiche e funzionali, e l’architettura, con il suo carattere, i suoi materiali, il suo linguaggio.

L’hanno saputo fare in molti modi, con quella naturalità costruttiva che li pone in continuità con il carattere severo ed efficace che questa città possiede, ma sempre sapendo confrontarsi con le nuove strade indicate dalle sperimentazioni loro contemporanee.

Tutti questi esempi ormai famosi ci permettono di affinare lo sguardo con cui osservare le sperimentazioni più recenti, in cui anche il tema della strada, e tutte le sue variazioni fino alla soglia, è divenuta occasione per rompere i limiti dell’edificato, per stabilire nuove relazioni tra interno ed esterno.

Non si può dire, infatti, che gli architetti che hanno progettato e costruito i comparti residenziali che s’insediano nelle antiche aree industriali non abbiano ripreso alcuni temi che fanno parte del dibattito internazionale contemporaneo: primo fra tutti l’esigenza di un ritorno a un’idea di struttura urbana su cui tessere la trama della residenza. Anche la grande dimensione dell’impianto, il suo preciso disegno spesso integrato con spazi pubblici o parchi urbani, consolidano un positivo carattere di riconoscibilità rispetto alla dispersione morfologica con cui si confrontano. La densità notevole dei nuovi interventi trova la sua espressione architettonica nel ritorno all’isolato urbano come una struttura consolidata, salvo poi tentare timidi ammiccamenti nella rottura della cortina sul quarto lato.

Gli anni recenti, la dismissione di grandi comparti industriali ha riportato all’attualità non solo i concetti di trama, isolato, maglia stradale, dimensione del lotto, ma anche la loro definizione architettonica e i loro caratteri, approfondendo i temi della cortina stradale, dello spazio interno a corte, e riconfermando spesso quella divisione tra interno ed esterno, che la città moderna aveva cercato di smantellare.

C’è una serie di esempi che hanno tracciato una genealogia della stato attuale: esperienze interessanti ed articolate, come l’obbligo del recupero dell’isolato ottocentesco a Berlino o, in anni più recenti, l’îlot ouvert di Portzamparc o il progetto delle città olandesi di “nuova fondazione”. Pensiamo alle grandi isole intorno a Rotterdam o Amsterdam, come Ijburg, che si è rivelata una ottima occasione per una verifica operativa: con la scelta consapevole di una scala e di una trama urbana e della sua applicazione al progetto si è infatti saputo alludere ad un’idea di città da cui questa deriva, in una sorta di sineddoche particolarmente esplicita per il cittadino e l’abitante.

In un momento in cui l’urgenza della densità ci obbliga alla compattezza, queste sperimentazioni, così come il fondamentale ruolo del contrasto di scala di cui abbiamo parlato, permettono di ricavare le giuste “misure” su cui il progetto doveva essere impostato, e di suggerirne le sue possibili declinazioni e variazioni.

Recentemente anche la città di Milano ha affrontato questo tema in maniera esplicita: la nuova Commissione per il Paesaggio ha redatto in una breve cartella alcune sensate norme, utili appunto a “fare più città”[9]; tra queste possiamo vedere enunciato e auspicato il ricorso all’idea dell’isolato, dello spazio interno, nel riconoscimento dei caratteri positivi che questa morfologia necessariamente richiede ed evoca.

Certamente tutte queste esperienze sono indagini sui caratteri di una nuova urbanità, decisamente più consapevole rispetto alla frammentazione che ha prodotto una delle città diffuse più ampie d’Europa, realizzata senza controllo e in sordina negli anni settanta e ottanta; tuttavia gli esiti architettonici dei nuovi quartieri residenziali non ci restituiscono una loro interpretazione nel linguaggio architettonico.

Non è il caso di infierire sulla limitatezza degli strumenti messi in atto nell’esperienza dei Piani di Recupero Urbano (PRU) milanesi, si è voluto piuttosto cercare di inquadrare le domande che sarebbe stato bene che fossero poste, per individuarne alcune risposte operative da un lato nelle parallele esperienze delle grandi città d’Europa, dall’altro in un recente passato che vede concretizzarsi nelle figure dei maestri degli anni cinquanta di Milano un ventaglio di esperienze molto ricche e articolate, che meritano ancora di essere riconosciute.

I migliori esempi europei si offrono all’abitante come evocazioni di idee di città, invarianti urbane verificate nelle variazioni della contemporaneità, tramite l’affinamento di strumenti progettuali ben chiari. Scala, trama, strada, altezza, caratteri del domestico sono mischiati e rintracciabili nell’intera storia della casa e possiamo riconoscere come ogni periodo ha preferito utilizzarli. La specificità del contemporaneo, forse, è quella di sapere accettare più di una visione, di preferire l’approfondimento di un ventaglio di soluzioni per operare scelte da adattare al contesto e alla situazione, come dimostrano gli esiti certamente più interessanti di una nuova urbanistica, che ha trovato espressione nella realizzazione dei concorsi Abitare a Milano o nel recente lavoro sulla Strategia d’Intervento Locale del PGT.


[1] Dipartimento di Progettazione dell’Architettura del Politecnico di Milano.

[2] Aldo Rossi, L’architettura della città, Marsilio, Padova, 1966.

[3] Nel testo di Cerasi erano contenuti alcuni passaggi sul rapporto tra lo spazio, i vuoti e i suoi caratteri architettonici: alcuni concetti, come ad esempio l’unità stilistica, cromatica e percettiva, la tensione e il movimento, si offrivano come strumenti progettuali operativi, che sapevano articolare l’oggetto architettonico nel suo contesto, nel suo ambiente urbano.  Maurice Cerasi, La lettura dell’ambiente, CLUP, Milano, 1966.

[4] Bernardo Secchi, Villes sans objet: La forme de la ville contemporaine, Conférence Mellon CCA, 4 settembre 2008, p.2.

[5] Carlo Mollino, “Vedere l’architettura”, in «Agorà», settembre – novembre 1946, ora in L’architettura di parole. Scritti 1933-1965, Bollati Boringhieri, Torino, 2007, p. 284.

[6] «… designava più una forma di vita sociale e culturale, che la qualità di una struttura urbana o spaziale ben definita. L’urbanità sta a segnalare il comportamento aperto e tollerante dei cittadini, sia tra di loro che nei confronti degli stranieri. […] Invariabilmente contrapposta al provincialismo, l’urbanità evoca la conoscenza del mondo, l’apertura dello spirito e la tolleranza, l’acutezza intellettuale e la curiosità. » Thomas Sieverts, Entre-ville, une lecture de la Zwischenstadt, Editions Parenthèses, Marsiglia, 2004, p. 35-37.

[7] Françoise Choay, Le règne de l’urbain et la mort de la ville, in AAVV, La ville, art et architecture en Europe 1870-1993, Centre Pompidou, Parigi, 1994.

[8] Thomas Sieverts, Op. Cit., p. 44.

[9] “Edifici: Un’attenzione speciale è riservata alle soluzioni dei piani terra e dell’attacco al suolo, sia per gli aspetti formali che per le attività ospitate. Si vuole favorire il mantenimento e la rivitalizzazione dello spazio stradale, il progetto degli spazi a verde quando presente, la relazione eventuale con le costruzioni contigue in un rapporto non necessariamente mimetico. I processi in corso di sostituzione edilizia obbligano anche in questo caso a un’interpretazione dei contesti e alla consapevolezza che ogni singolo edificio concorre a determinare le componenti del paesaggio pubblico della città. Complessi di più edifici: Anche in questo caso si vuole indurre a fare ‘più città’ cercando quanto possibile di costituire spazi stradali pubblici, isolati, giardini, ecc. caratterizzati da permeabilità e interconnessioni con i quartieri circostanti. Verranno apprezzate le proposte che propongono i valori di prossimità, convivenza, coesistenza nel contesto di un’architettura urbana.” Pierluigi Nicolin, Manifesto degli indirizzi e delle linee guida della Commissione per il Paesaggio del Comune di Milano, verbale della seduta del 4 febbraio 2010.

moneo_PQ_print 70indice moneo

intervista

Bruno Melotto e Orsina Simona Pierini
HOUSING PRIMER, Le forme della residenza nella città contemporanea
Maggioli Editore, novembre 2012

INTRODUZIONE

INVARIANZA E PERTURBAZIONI, Massimo Fortis

VERSO UN’URBANITA’ DIFFUSA, Orsina Simona Pierini

APPUNTI DAL BALCONE, Carmen Díez Medina

L’INQUIETUDINE DELL’ABITANTE, Bruno Melotto

ATLANTE URBANO DELLA RESIDENZA

VERSO UN’URBANITA’ DIFFUSA

 

oud anton

Se penso a casa e città, non posso fare a meno di associare queste parole a una immagine: una fotografia del 1927 del quartiere Kiefhoek, realizzato dall’architetto olandese JJP Oud alla periferia di Rotterdam. La fotografia ha un punto di vista molto particolare: il fotografo sceglie di occupare gran parte del negativo con l’ombra della pensilina sotto la quale scatta la fotografia; dall’altra parte della strada possiamo vedere come una identica pensilina si pieghi ad abbracciare la serie di case a schiera allineate in cui sappiamo riconoscere tutta la tradizione della casa olandese del lotto gotico[1]. La poesia del linguaggio architettonico ne fa sicuramente uno degli esempi più amati di un’idea di città-colonia che sembra anche raccogliere l’eredità dell’utopia della città giardino: la disposizione nella natura delle case basse in linea, l’orizzontalità dell’elemento decorativo e delle finestre, l’intonaco bianco corrispondono a tutti gli effetti all’immagine che ci siamo fatti della città del Moderno.

Un uomo ci fornisce anche la misura esigua della pensilina che stiamo osservando e, insieme alla maniglia della porta aperta in primo piano, ci riconduce con grazia alla dimensione domestica, coerente con il senso di protezione inconsciamente percepito sotto l’ombra. Una condizione duplice, dunque: il controllo della scala della città antica, della città a misura d’uomo e nello stesso tempo la modernità di una nuova urbanità disegnata nel dettaglio dall’architetto dell’avanguardia de Stijl.

In quello stesso anno 1927 August Sander[2] scatta a Colonia una fotografia a Anton Raederscheidt: il pittore ritratto con un severo cappotto nero, completo di accessori quali guanti, cappello, colletto inamidato e cravattino, elegante intellettuale, testimone di un’epoca, è l’unico inquietante abitante di una larghissima strada urbana, che sembra solo aspettare l’arrivo delle macchine. I marciapiedi, bianchi e vuoti, sono irrigiditi dalla ripetizione di alloggi montati nella figura della cortina stradale alta sei piani[3]. Gli infiniti blocchi residenziali della città ottocentesca tedesca sono rivestiti da basamenti e bugnati, che assumono lo stesso carattere rappresentativo del cappotto nero, allineati uno di fianco all’altro, quasi a negare una qualsiasi articolazione volumetrica e quindi nessun rapporto con spazialità interne all’isolato. Non vi è nessun disegno urbano, se non l’ossessiva sommatoria di appartamenti, ma il carattere metafisico della fotografia ci trasmette una sensazione di unità compiuta.

Da buoni architetti educati alla cultura del moderno, sappiamo istintivamente per chi tifare: Oud e la sua elegante, delicata declinazione dell’abitare. Ma se invece ci pensiamo cittadini, o anche solo turisti in arrivo a Parigi, non siamo forse attratti dalla vera scala della città moderna, così bene rappresentata dalla novità del ritratto di August Sander?

Quale è dunque la città moderna? Quella che ci ricorda i bei tempi del felice matrimonio, intonacato di bianco, tra lotto gotico e città mercantile o la cruda densità mostrata dalla foto di Sander[4]? Certo, si risponderà, l’uno è la negazione dell’altra, ma oggi, dopo un secolo di risposte realizzate, vissute, abitate e sofferte, da quale di questi esempi possiamo realmente ricavare il carattere di urbanità che ci serve a progettare la città contemporanea? Vogliamo essere cittadini o abitanti?

ARCHITETTURA DELLA CASA O ARCHITETTURA DELLA CITTÀ?

O ancora: ci vogliamo ancora rifugiare nell’architettura del villaggio o siamo costretti ad accettare solo l’architettura della metropoli? Queste le domande che il progetto della residenza contemporanea pone: i testi che seguono partono dal presupposto che la recente sperimentazione sia interessata a un’idea di città i cui caratteri ed elementi si sono andati affinando in un tempo lungo, dove il ruolo della casa è stato determinante. Finiti i tempi delle prese di posizione, passato sì – passato no, moderno sì – moderno no, o delle sperimentazioni più ardite, la professione si è concentrata, soprattutto nel resto d’Europa, alla costruzione della reale architettura della città.

L’atteggiamento che si è riscontrato nel periodo storico preso in considerazione, cioè nell’architettura dell’abitare del nuovo millennio, o quantomeno la posizione condivisa da un gruppo colto di figure che lavorano nell’ambito della residenza, è quello della conoscenza di un passato ampio, che non disdegna la tradizione, né la sperimentazione del moderno, bensì li coniuga con coerenza, perché ne controlla gli esiti con il linguaggio, con la scelta precisa degli elementi e con l’equilibrio della loro materializzazione attraverso la costruzione.

Si lavora da tempo su una base comune e condivisa, di cui possiamo ormai riconoscere una serie di temi, che vanno dallo spazio urbano, fino alle sperimentazioni sull’alloggio: la nostra ricerca nasce dall’esigenza di sistematizzare questo lavoro collettivo, di riconoscerne i tratti di continuità con il passato, ma soprattutto di cercarne la base comune, l’atteggiamento che li rende progetti del nostro tempo, nostri contemporanei.

Un aspetto curioso, forse mai riscontrato nella storia dell’architettura, è che la progettazione della residenza è diventata ambito di alcuni studi collettivi, non più intestati a cognomi famosi, ma ormai accomunati da sigle; l’esperienza più articolata di questo carattere collettivo è rappresentata dall’Olanda, non a caso il luogo dove si realizzano interi piani urbanistici e dove la proprietà comune dei terreni e il felice rapporto con le istituzioni ne fa un oggetto di speciale attenzione in queste pagine.

Come è noto l’architettura residenziale si differenzia dal resto della produzione architettonica sostanzialmente per due necessità che deve assolvere: la prima riguarda l’idea di pensarsi sempre in un contesto, in una coralità come tiene a precisare nel suo saggio introduttivo Massimo Fortis; la singola casa è uno dei tanti mattoni che costituiscono l’immagine della città, esattamente all’opposto dell’edificio pubblico, non a caso incasellato nello schematismo del positivismo ottocentesco, come rappresentativo. L’altro aspetto, in parte complementare, è quello che riguarda il ruolo di ridosso che la casa deve necessariamente assumere.

La sua condizione pubblica e collettiva, ma nello stesso tempo ripetuta e seriale, ne ha fatto oggetto di studio per tutto il secolo passato, come ben sottolinea Bernardo Secchi: “Due di queste tendenze mi sembrano essenziali: da un lato, l’affermazione sempre più forte del valore della diversità nelle sue declinazioni più svariate e, dall’altro, la ricerca continua dell’integrazione e della continuità. Durante il tutto il secolo scorso, architetti e urbanisti hanno lavorato per fornire una soluzione alla contrapposizione, tipicamente moderna, tra l’ideale della autodeterminazione e le esigenze di socializzazione.”[5]

Ed è proprio a partire da questo contradditorio problema compositivo, di continuità e frammento, che abbiamo provato a leggere le realizzazioni degli ultimi anni.

Attribuendo al periodo attuale la fortunata occasione di concentrarsi sulla costruzione, la ricerca parte infatti dai progetti costruiti, dalla realtà fisica e percettiva, dai loro materiali e dalle loro misure, per studiare la scrittura fine di questa contraddizione secondo alcuni precisi temi urbani, già tutti compresi nella storia della città, ma che assumono i tratti del contemporaneo per una certa disinvoltura tipologica, per la sapienza del controllo dei contrasti di scala, per un apparente ritorno alla scacchiera urbana, o per la ricerca aperta sull’altezza giusta, nella convinzione ormai genetica dell’importanza degli spazi dell’abitare, da ripensare nelle declinazioni della domesticità della disposizione urbana e dei caratteri costruttivi.

La nostra analisi sulla città contemporanea costruita ha dunque assunto il carattere di verifica delle urgenze del contemporaneo con gli strumenti di sempre, in un’idea di contemporaneo forse più pacata, più reale, dove si cercano le sperimentazioni più equilibrate, più complesse e forse meno programmatiche. Il contemporaneo cui ci piace fare riferimento, a cui si è guardato, non è il contemporaneo altisonante dei grandi numeri e delle grandi migrazioni, dei capovolgimenti epocali e del dominio delle infrastrutture. Certo, queste sono le condizioni oggettive del nostro vivere, ma il nostro interesse come ricercatori riguarda, ad esempio, la densità come strumento qualitativo, invece che quantitativo, per arrivare a porsi la domanda se costruire in altezza o per blocchi, invece di gridare forte le urgenze ecologiche che ci costringono alla densità. Questo è stato fatto da tempo ed è ormai diventato programma delle grandi municipalità: nel recente piano Le grand Paris, tra i principi fondamentali delle proposte sull’alloggio vi sono indicati Favorire Mixité e Prossimità, Legare densità e intensità, Nuove tipologie e Costruire sui tetti.[6]

L’EREDITÀ DELL’ARCHITETTURA MODERNA

Non più teorie astratte sulle metropoli, sulla sostenibilità, o ancora, discussioni sul senso della tradizione, ma un uso preciso e descrittivo dell’esperienza della storia, che la sappia scandagliare analiticamente nei suoi universali, e la sappia dunque vedere come sempre attuale e presente nelle nostre scelte di progetto. Questa posizione attribuisce un ruolo importante alla storia, facendo esplicito riferimento a una idea di storia senza tempo, un “tempo pieno di attualità” [7]. Qualcosa di molto simile a quello che faceva nel suo Atlante Aby Warburg: scardinare la linearità storica a favore dei temi. In questa ottica siamo obbligati a rimandare la bellezza del luogo ad altre indagini, per il carattere di eccezionalità che impone sulle scelte di progetto. Questo spiega, almeno in parte, perché sono stati lasciati indietro quegli esempi che trovano la loro ragione d’essere soltanto nel contesto.

Gli strumenti dunque per leggere le pagine che seguono sono pochi: occorre sapere e riconoscere che la città occidentale è formata da pochi elementi la cui declinazione si è costruita sulla concretezza delle tante diverse città che l’hanno realizzata[8]. La casa a corte antica, il lotto gotico della città mercantile nord europea, la misura dell’isolato compatto e la sua relazione con lo spazio pubblico, strada o piazza, come l’edificio in altezza della nuova città, non sono solo tipi edilizi, ma anche scale e idee di città, immagini di abitare che architetto e cittadino dovrebbero condividere, nella doppia vocazione che la casa ha, da un lato di protezione e intimità e dall’altro di portamento pubblico.

Proprio in riferimento all’idea della storia, preme ancora una volta precisare il ruolo che questa ha avuto nell’architettura moderna: così come possiamo riconoscere la scala della città medievale nelle misure e nella ripetizione del tipo abitativo della casa a schiera, così come conosciamo bene le battaglie contro la densità della città ottocentesca e la sua riduzione a blocco compatto, in cui i caratteri contrapposti di interno ed esterno hanno trovato la loro massima estremizzazione, e così come siamo ancora affascinati dalla nuova scala della città metropolitana, allo stesso modo siamo consapevoli che le opere del moderno hanno saputo scardinare questi schematismi, introducendo importanti variazioni che hanno costruito un’immagine di paesaggio urbano completamente diversa.

L’architettura del movimento moderno ha saputo infatti riconoscere, criticare e nello stesso tempo riutilizzare le idee di abitare cui questi modelli si rifacevano, l’individualismo della casa schiera, la densità ossessiva della città che a partire dalla metà dell’ottocento aveva demolito le mura urbane e debordava nella campagna e nello stesso tempo ha saputo offrire una nuova idea di spazio dell’alloggio e una scala urbana adeguata, fino a ipotizzare una nuova dimensione dell’abitare nell’edificio in altezza. Ci ha infine offerto una declinazione ricchissima di articolazioni sul suolo del corpo edilizio, di distribuzioni in edifici in linea che disegnano il paesaggio, la natura, che è così entrata a far parte in modo decisivo di un disegno urbano che non l’aveva mai compresa, se non nel caso di pochi, privilegiati, esempi.

Ma l’architettura del movimento moderno ha saputo anche ragionare su un’idea inedita di spazio interno dell’abitare, come il solo riferimento alle case unifamiliari di Mies van der Rohe o di Le Corbusier basterebbe a spiegare, ed ha disegnato ogni singolo dettaglio di questo nuovo mondo abitato, dove le porte d’ingresso, le scale, le finestre, gli elementi distributivi, fino ai materiali da costruzione, non solo partecipavano alla nuova immagine della casa, ma sapevano anche comunicare quei caratteri di protezione e rappresentatività di cui abbiamo parlato.

In un suo recente saggio[9], Rafael Moneo ha evidenziato le differenze tra la modernità, in particolare su alcuni concetti, e la contemporaneità: il suo raffinato e corposo ragionamento sulle analogie e le differenze nell’uso dello spazio, del linguaggio o della struttura ci è utile a comprendere il grado di disinvoltura del nostro momento attuale, ma anche a riconoscere per contro, nel caso della progettazione residenziale europea, una continuità di lavoro soprattutto nei paesi che ne hanno accettato senza soluzione di continuità la sua lenta integrazione nella pratica professionale. Penso sicuramente alla Svizzera e alla Germania, ma anche ai paesi scandinavi e alla loro influenza sulla recente architettura iberica. Il moderno con cui ci confrontiamo dunque è quello eroico, ma è certamente anche quello presente nelle integrazioni nella città storica e nelle sue molte declinazioni sperimentate nelle grandi città.

FERRI DEL MESTIERE

Chi si trova a progettare oggi non può dunque non confrontarsi con questa eredità, non tanto dal punto di vista teorico, ma con la curiosità di vedere come si costruisce lo spazio dell’abitare e di come la pluralità delle case possano diventare città nel loro insieme. Lo sguardo, se si vuole intenzionalmente ingenuo, che si propone è quello della lettura della città storica e moderna secondo alcune categorie progettuali, in modo da ricavare gli strumenti per la progettazione attuale: si potrebbero chiamare ferri del mestiere[10]. La nostra attenzione sarà dunque rivolta non solo agli elementi, ma ai caratteri d’uso degli elementi, non ai singoli manufatti, ma ai rapporti tra gli oggetti, al fine di ricostituire nuove sintassi, con la necessità di chiarire un linguaggio che parli attraverso le misure, le scale, le idee contenute nell’immediatezza delle diverse forme di città.

Il complesso rapporto che lega materialità dell’arte e linguaggio è stato ben espresso nel lavoro di Roman Jakobson, quando descrive “L’idea delle invarianti e variazioni, che accomuna le scienze odierne, deve essere applicata coerentemente […] Bisogna prestare la debita attenzione alle variazioni, ma senza per questo perdere di vista le invarianti universali che le sottendono. Sarebbe un errore metodologico, una semplificazione unilaterale, il trascurare uno dei due aspetti dell’analisi, ovvero trascurare la definizione dell’invariante o ignorare la variazione. Solo tenendo conto in modo vigile e costante delle invarianti potremmo superare un cieco empirismo e creare, invece di una tassonomia superficiale, una adeguata sistematizzazione delle strutture […] sui rapporti tra piano fisico e grammaticale della lingua.”[11]

Il linguista russo, che ci offre una struttura metodologica precisa su cui lavorare, ci riporta anche alla necessità di una attenzione alla fisicità e ai rapporti tra le parti, che abbiamo voluto chiamare apposta i ferri del mestiere, proprio per alludere al carattere artigianale[12] del fare, alla materialità del costruito, alla scommessa della durata[13].

Devo a Bruno Reichlin non solo la conoscenza dello studioso del linguaggio, ma soprattutto l’ostinata capacità di applicare questo metodo alle sole parole della nostra disciplina, in modo tale da riconoscere i “procedimenti” o “artifici compositivi” con occhi che vedono l’architettura.[14]

Ormai convinti della necessità di tornare a parlare con i soli ferri del mestiere della nostra disciplina, usiamo ancora il confronto con l’allusione al linguaggio comune e trasmissibile per riflettere sulla condizione vocale dell’architettura, sulla riconoscibilità dei suoi caratteri urbani, ma anche sulla ricerca di silenzio e anonimato, che è un altro tratto caratteristico della coralità urbana cui abbiamo accennato: forse non vi è architettura che maggiormente coinvolga l’essere umano quanto la residenza, nel suo duplice ruolo di cittadino ed abitante[15].

Nel 1968 Alison Smithson raccoglie una serie di saggi dei componenti del TEAM 10[16] per esortare un lavoro sensibile ai temi della città. Si è scelto il termine Primer nel titolo proprio per il suo carattere didattico, per sfuggire alla trattazione teorica e ritrovare nel carattere strumentale della descrizione la necessità di una educazione al progetto; nostro interesse è la descrizione analitica, anche grafica, dei procedimenti compositivi sulle parti, riconoscendo proprio nelle invarianti e nelle variazioni, e dunque nei processi di addizione, sovrapposizione e variazione, gli strumenti operativi con cui possiamo prima parlare e successivamente progettare.[17]

Ci scopriamo così a misurare un  allineamento, e, allo stesso modo, ci piace lasciare entrare un po’ di città nei nostri isolati, o ci sorprende con piacere l’intrusione nella severità della cortina stradale di una spazialità inaspettata o di un carattere domestico che alle volte la risolve.

DAL PROGETTO URBANO ALL’URBANITÀ

L’architettura della città[18] si occupava in gran parte della definizione teorica e storica del valore della città, sapendo inserire il moderno nella continuità della storia urbana, ma proponeva poi solo architetture iconiche, oggetti ready made che difficilmente sapevano declinarsi, soprattutto sul tema dell’abitare collettivo, nei caratteri del contingente e del contemporaneo: la scelta del tipo e la sua coerenza urbana sembravano sufficienti a risolvere la città e si poteva dimenticare la ricchezza della parola linguaggio. Il collage in fondo aveva proprio questo significato: l’intercambiabilità dell’oggetto architettonico, non la sua integrazione, declinazione, variazione, compromissione con l’ambiente, come proponeva invece negli stessi anni e nella stessa città Maurice Cerasi.

La città italiana sta ancora pagando l’approccio troppo raffinato, afasico ed elitario di Rossi, come ben sottolinea Bernardo Secchi: “vorrei sottolineare il rapporto tra oggetto architettonico e architettura della città. Io parto dal presupposto che la seconda parte del secolo scorso è stata colpita da una grave forma di miopia critica; non ci si è resi conto che ciò che stava progressivamente venendo a mancare, era soprattutto l’architettura della città, che si costruivano nella città degli oggetti architettonici, e che l’affermare sempre più la loro individualità avrebbe cancellato il loro significato; essi si perdevano, come i quattromila grattacieli di Shanghai, nel camouflage collettivo dei metronomi [del Poème symphonique] di Ligeti. Si disponeva delle parole, ma non si riusciva a organizzare il discorso.”[19]

Nel testo di Cerasi[20] erano invece contenuti alcuni passaggi significativi sul rapporto tra lo spazio, i vuoti ed i suoi caratteri architettonici: alcuni concetti, come ad esempio l’unità stilistica, cromatica e percettiva, la tensione e il movimento, si offrivano come strumenti progettuali operativi, che sapevano articolare l’oggetto architettonico nel suo contesto, nel suo ambiente urbano.

Oggi la sua proposta si rivela quanto mai attuale, in un momento in cui non si lavora più per grandi assiomi, ma nella ricerca di un affinamento, come aveva ben pronosticato già nel 1997 Hans Kollhoff nell’articolo di Lotus che accompagnava la presentazione del suo sorprendente “fuori scala” di Amsterdam. Ci ammoniva Kollhoff:  “Il problema cruciale è quindi di capire se operiamo per distruggere la tradizione della città o per sostenerla. […] Il problema è quello di una paziente ricerca di affinamento. […] Il nostro compito è quello di progettare e costruire la norma, e non l’eccezione.”[21]

Possiamo dunque tornare ai due uomini descritti all’inizio, il tranquillo abitante che controlla la misura delle casette di Oud e il cittadino inquieto della borghesia urbana europea, per riformulare la domanda del contemporaneo: possiamo parlare di un carattere di urbanità che la casa ricerca oggi?

Così come la voce del vocabolario Treccani spiega il termine urbanità come “Modo di comportarsi civile e cortese nei normali rapporti con altre persone”, l’urbanista tedesco Sieverts ci spiega che il concetto di urbanità si fonda “su un’immagine idealizzata della città borghese europea, nella sua articolazione dei secoli XVIII e XIX. […] nelle città abitate da borghesia illuminata. Designava più una forma di vita sociale e culturale, che la qualità di una struttura urbana o spaziale ben definita. L’urbanità sta a segnalare il comportamento aperto e tollerante dei cittadini, sia tra di loro che nei confronti degli stranieri […] Invariabilmente contrapposta al provincialismo, l’urbanità evoca la conoscenza del mondo, l’apertura dello spirito e la tolleranza, l’acutezza intellettuale e la curiosità.”[22]

Forse ancora più precisa sui caratteri fisici, architettonici, è la definizione di Françoise Choay, “urbanità è l’adeguamento reciproco di una forma di città costruita, e della sua configurazione spaziale, e di una forma di convivialità”.[23]

Come forse già intuito, lo sguardo richiesto al lettore sarà dunque quello di riconoscere queste doti dell’urbanità nelle recenti costruzioni della casa, consapevoli del ruolo che avrà la lettura “ritmica” dell’esperienza spaziale, proprio per la sua capacità di farci intuire il movimento della vita che vi si deve svolgere, così come la convivialità diviene presupposto di densità e mixitè, spaziale, tipologica e funzionale.

Come possiamo descrivere l’urbanità di questi nuovi spazi dell’abitare? Non possiamo che pensarci nel passeggiare in queste architetture, nello scoprire un ridosso inaspettato o nel percepire una dimensione domestica all’interno di una sequenza urbana; seguendo la traccia del possibile abecedario che abbiamo voluto sperimentare nelle pagine che seguono, ci scopriamo dunque a usare i termini apparentemente più banali, ma soprattutto disciplinari, per descrivere questi progetti: spazio, corpo di fabbrica, arretramento, strada, rotazione, limite, apertura, etc… In questo senso sono stati scelti quegli esempi in cui i caratteri dell’urbanità fossero ancora portatori di un significato e potessero quindi offrirsi all’abitante come evocazioni di idee di città, come invarianti urbane, da verificare nelle variazioni della contemporaneità.

Scala, trama, strada, altezza, caratteri del domestico sono mischiati e rintracciabili nell’intera storia della casa e possiamo riconoscere come ogni periodo ha preferito utilizzarli orientandoli verso differenti idee di città. La specificità del contemporaneo, forse, è quella di sapere accettare più di una visione, di preferire l’approfondimento di un ventaglio di soluzioni per operare scelte da adattare al contesto e alla situazione.

L’urbanità ricercata si scopre quindi strettamente correlata a un’idea di città compatta rivisitata con gli occhi di chi conosce le conquiste sullo spazio del moderno, arrivando forse ad ipotizzare non più un progetto urbano, con la coerenza e unità che il termine progetto obbliga a pieno titolo, bensì una diffusa urbanità, riconoscibile nelle diverse scale e caratteri dell’abitare. In quest’ottica, forse si può tornare alla domanda: architettura della casa o architettura della città?

Nel volume il testo prosegue con:
Variazioni sulla scala
Disinvoltura Tipologica
La scacchiera urbana
Nuove soglie urbane
Altezza Conforme
Domesticità esibita

Schermata 2013-01-24 a 09.28.00 Schermata 2013-01-24 a 09.28.38 Schermata 2013-01-24 a 09.29.12 Schermata 2013-01-24 a 09.27.40


[1]Una foto molto simile è stata scattata anche nell’altro quartiere bianco di Oud, Hoek van Holland. Interessante notare il ruolo che Oud attribuisce al carattere domestico di questo semplice elemento.

[2] August Sander, Lichtbildner in Köln come scriveva sul biglietto da visita, ci ha lasciato un prezioso patrimonio documentale della nostra civiltà all’inizio del novecento, documentando innumerevoli tipologie umane e profondità infinite di paesaggi, ma raramente le città; questo è uno dei pochissimi scatti.

[3] Su questa misura avremo occasione di tornare nel capitolo sull’altezza.

[4] Non è certo questo il luogo per aprire al complesso discorso sulla modernità, che ha già trovato nella letteratura europea, da Charles Baudelaire e Walter Benjamin in poi, perfette descrizioni ed interpretazioni.

[5] Bernardo Secchi, Villes sans objet: La forme de la ville contemporaine, Conférence Mellon CCA, 4 settembre 2008, p.2.

[6] Le Grand Paris è il documento che raccoglie il Piano per il riassetto della Regione Parigina, legge adottata il 5 giugno 2010. I temi per “Costruire città sulla città” sono pochi ed espressi in poche pagine manifesto, accompagnate dalle proposte morfologiche redatte dai grandi nomi che operano sulla città. Jean Philippe Vassal & Anne Lacaton scrivono: “Dobbiamo costruire DI PIÙ costruire più grande, costruire CON, costruire MEGLIO e più economico. Dobbiamo andare verso il massimo invece di definire un minimo. Dovrebbe essere incoraggiato il cambiamento, invece di bloccare tutto. Si deve aggiungere anziché demolire. Densificare invece di disperdere.” Roland Castro propone di passare “Dal rinnovamento urbano al rimodellamento”, e Ateliers Christian de Portzamparc riprende il concetto degli “îlots ouverts e dei quartieri in evoluzione”.

[7] “L’origine è la meta”, il famoso aforisma di Kark Krauss, citato da Benjamin come incipit alla XIV tesi di filosofia della storia, presuppone che in ogni istante sia compresa la totalità del tempo. In Walter Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino, 1997, p.45.

[8] Si rimanda alla precisione del testo di Eric Firley e Caroline Stahl, The urban Housing Handbook, Wiley, Chichester, 2009, perché entra nella descrizione delle differenze, attraverso la misura e il ridisegno di confronto, di una serie di esempi che declinano queste poche idee di città nella complessità delle tante realtà urbane che le hanno costruite.

[9] Rafael Moneo, «L’altra modernità», in L’altra modernità, considerazioni sul futuro dell’architettura, Christian Marinotti, Milano, 2012, p. 83.

[10] Fruttero e Lucentini, I ferri del mestiere, Einaudi, Torino, 2003.

[11] Roman Jakobson, Dialoghi con Krystyna Pomorska, Laterza 1980, Castelvecchi, Roma, 2009, p. 77-78.

[12] Richard Sennet, ne L’uomo Artigiano, Feltrinelli Milano, 2008, spiega nel dettaglio l’importanza della pratica del fare e della sua descrizione e trasmissibilità.

[13] “gli edifici devono invecchiare bene per testimoniare nel futuro una memoria collettiva e poter divenire parte della storia di una città.” Hans Kollhoff, Costruzione urbana contro alloggio, in Lotus international, n° 94, 1997, pag. 101.

[14] “distinguere i diversi approcci estrinseci all’ architettura da quello intrinseco […] circoscrivere l’oggetto di una critica e di una storia intrinseca dell’ architettura e definirne i metodi e gli strumenti di indagine. Seguendo l’esempio dei formalisti par lecito preconizzare uno studio dell’ architettonicità dell’ architettura.” Bruno Reichlin, Prefazione, in Annalisa Viati Navone, La Saracena di Moretti, tra suggestioni mediterranee, barocche e informali, Mendrisio Academy Press, Mendrisio, 2012, p. 8-9.

[15] “La casa deve piacere a tutti. A differenza dell’opera d’arte, che non ha bisogno di piacere a nessuno. L’opera d’arte è una faccenda privata dell’artista. La casa no. L’opera d’arte viene messa al mondo senza che ce ne sia bisogno. La casa invece soddisfa un bisogno. L’opera d’arte non è responsabile verso nessuno, la casa verso tutti.” Adolf Loos, «Architettura», in Parole nel vuoto, Adelphi, Milano, 1980, p. 253.

[16] Team 10 Primer, a cura di Alison Smithson, Studio Vista, Londra, 1968.

[17] Vedi il capitolo Il concetto di trasformazione in architettura, in Carlos Martí, Arís, Le variazioni dell’identità. Il tipo in architettura. Clup, Milano, 1993, p. 102.

[18] Aldo Rossi, L’architettura della città, Marsilio, Padova, 1966.

[19] Bernardo Secchi, Villes sans objet: La forme de la ville contemporaine, Conférence Mellon CCA, 4 settembre 2008, p.2.

[20] Maurice Cerasi, La lettura dell’ambiente, CLUP, Milano, 1966.

[21] Hans Kollhoff, Costruzione urbana contro alloggio, in Lotus international, n° 94, 1997, pag. 101.

[22] Thomas Sieverts, Entre-ville, une lecture de la Zwischenstadt, Editions Parenthèses, Marsiglia, 2004, p. 35-37.

[23] Françoise Choay, Le règne de l’urbain et la mort de la ville, in AAVV, La ville, art et architecture en Europe 1870-1993, Centre Pompidou, Parigi, 1994.

materia

Il giovane critico americano, che nel 1931 stava girando per l’Europa a raccogliere i documenti per quella che sarebbe divenuta la famosa mostra sull’International Style, rimase colpito dalla visita compiuta a Berlino all’esposizione L’abitare del nostro tempo, dove Mies van der Rohe aveva esposto una serie di pannelli con le lamine delle venature di differenti legni, appese, ci racconta, come allora si faceva solo con «i quadri nelle regge»[1]. Per chi conosce l’architettura di Mies non è certo una sorpresa associare al suo nome l’eloquenza dei materiali, ma quello che stupisce è che questo interesse possa diventare il tramite per affrontare il tema della casa popolare e della sua realizzazione alla grande scala della metropoli moderna, tema allora pressante nel dibattito internazionale.
Mies espone lamine di legno, mostra sezioni di alberi, spaccati che esibiscono in ogni venatura un anno dopo l’altro, una storia lunga, così lunga da diventare senza misura di tempo, di nuovo primordiale. Mies allude all’importanza della scelta, sapendo come ogni taglio sia diverso dall’altro, per tipo, per materia, per colore, per durezza, per età: sarà la semplice scelta dell’artista che ne porterà uno solo in casa Tugendhat; ma è anche vero che ogni lamina è esposta come un quadro: viene considerata un capolavoro, è bella come un’opera d’arte.
In queste opere Mies van der Rohe non è interessato alla tradizione costruttiva di un materiale, cancella la complessità della storia della costruzione per tornare al carattere primordiale della materia pura, quasi a suggerire una teoria[2] fondata sulla sensibilità.
Anche le grandi lastre di marmo e di onice esposte a Barcellona, le scelte uniche, irripetibili, del figlio dello scalpellino diventate pareti, si esibiscono come sezioni tirate a lucido di una cava antica e sono affiancate agli sfuggenti riflessi[3] del nuovissimo acciaio cromato: da questo ossimoro temporale poteva nascere l’architettura moderna.

Sulla mostra di Berlino e su Mies il raffinato e sensibile critico Philip Johnson tornerà più volte, forse proprio perché intuiva il coraggio del raccontare il valore estetico della materia, la volontà di metterla in mostra come unico strumento efficace per liberarsi dall’obbligo convenzionale, figurativo, della forma, delle forme storiche. Materia come semplice scelta dell’artista.
Anche in Asplund la materia ha un ruolo importante: il progetto per l’ampliamento del Municipio di Göteborg, le cui prime proposte datano già nel 1913, viene sviluppato più volte nei suoi tratti essenziali fino al 1935-37, gli anni della realizzazione; i temi del progetto, il grande spazio centrale e il ruolo attribuito al basamento che determina il nuovo piano nobile, sono chiari e perseguiti fin dai primi studi, e trovano sintesi nel grande vuoto della hall, illuminata dall’alto e aperta verso la corte dell’attiguo palazzo. Se è oggi possibile studiare la sequenza delle molte e diversificate varianti al progetto fino al momento della stesura definitiva[4], e constatarne la continuità del linguaggio classicista, affinato con basamenti in pietra, pilastri e colonne, non si può non restare colpiti dalla soluzione realizzata, completamente diversa proprio nel linguaggio. Dopo il viaggio in Europa in occasione del suo incarico per l’Esposizione Internazionale di Stoccolma del 1930 – abbiamo testimonianza delle visite a Brno e a Parigi – Asplund trasforma completamente il linguaggio dell’edificio, sostituendo una composizione fatta di elementi con un movimento dello spazio ottenuto grazie alle curvature delle grandi superfici in legno. Materia come linguaggio.
Potremmo elencare diversi momenti di crisi in cui si fa ricorso alla materia, come nel crollo di certezze del secondo dopoguerra e ricordare come anche Ernesto Nathan Rogers si senta nuovamente in dovere di educare alla sensibilità, pubblicando con insistenza sulla sua Casabella-continuità le belle fotografie di Werner Bischof dei particolari materici dei grandi monumenti arcaici[5]. Di nuovo ritroviamo la concretezza della pietra, e nello stesso tempo la forte astrazione della materia portata alla luce, ma nel caso di Rogers ogni momento è «inserito nel dramma dell’esistenza» e non può essere considerato entità astratta: per lui la materia è lo strumento per la rappresentazione di un momento storico attraverso la sua realtà costruttiva. Ed è proprio la concretezza della costruzione nella materia a liberare la forma dalla banalità della sua ripetizione e a obbligare ogni artista a scoprire relazioni inedite tra materia e costruzione.
Possiamo quindi azzardare che nei momenti di cambiamento, nelle fasi di passaggio e di riflessione operativa sull’architettura vi sia un ritorno alla materia: questo è avvenuto per il moderno, e questo avviene oggi, anche se in forma diversa. La bellezza della cruda materia in Mies, la materia come linguaggio in Asplund, materia e realtà costruttiva per Rogers. Sempre la libera scelta della materia in contrapposizione all’obbligo della forma. Materia versus forma.

Queste riflessioni preliminari ci introducono al cuore del libro, Madre Materia, il cui autore, già noto in Italia per un volume in parte complementare a questo, Il vuoto, ci ha già iniziato ad una modalità di scrittura fatta di riflessioni che inseguono un tema attraverso le molte interpretazioni, anche extradisciplinari, che questo può suggerire. Fernando Espuelas indaga, infatti, in questo saggio i termini che incidono sul concetto di Materia secondo una modalità di montaggio del testo anch’esso, potremmo dire, materico: una serie di concetti mostrati nella loro naturale complessità, affiancati l’uno all’altro come le lamine delle venature di Mies, dove il lettore può scegliere e rimontare le questioni, senza l’imposizione di una tesi e di una sequenza predeterminata. Vi è una componente fortemente progettuale in questo punto di vista: la possibilità cioè di scegliere l’idea del progetto a partire dalla materia e non dalla forma.
L’autore del libro si colloca dunque in continuità con quella corrente del pensiero contemporaneo, già assestata nella cultura spagnola con il libro di Iñaki Abalos La buena vida, in cui sensibilità e percezione diventano parte attiva di un pensiero soggettivo sulle scelte artistiche: il volume offre una serie di parole chiave per ripensare i valori primari dell’architettura, allontanandoci dalle forme precostituite. In questo senso si offre come un atlante, un inventario, che ben si inserisce nel panorama della poetica contemporanea, abituata a lavorare sulla breccia, sulla rovina, sul frammento e la sua sineddoche, aprendo alla fantasia di ogni possibile tutto, ma che rimanda all’intero solo con l’allusione. Proprio nel saggio su frammentazione e compattezza Rafael Moneo ha analizzato in maniera lucida questa condizione del contemporaneo che rifugge la forma: «La forma è legata a ciò che è permanente, ostacolando il potenziale racchiuso nel futuro, ed è perciò caduta in disgrazia»[6].
In questa condizione del contemporaneo, la materia torna a essere un utile strumento di lavoro. Nelle librerie oggi è ormai possibile trovare sugli scaffali libri interi fatti di immagini, dove, sfogliando patinate pagine a colori, si entra nei mondi personali degli autori[7], la cui comunicazione prevalente è quella materica; spesso si riconoscono alcuni dettagli, si intuisce una familiarità con la nostra memoria di studiosi di architettura: in mezzo ai più sconosciuti reperti di un mondo materico anonimo, si scopre un frammento di Zumthor, un pezzo di Asplund, ma anche uno spigolo di Le Corbusier o una texture di Lewerentz, ritrovando i maestri solo perché osservati a lungo, perché non si è potuto fare a meno di andarli a conoscere nella loro matericità.
Queste pubblicazioni hanno una genealogia nobile nell’opera scritta e costruita dagli architetti svizzeri Herzog & de Meuron. Già negli anni Ottanta, in un momento in cui l’architettura in Italia veniva fatta con i pantone e in Spagna Rafael Moneo sentiva l’esigenza di costruire gli imbotti profondi di Bankinter, gli allievi zurighesi di Aldo Rossi, con le loro opere costruite hanno saputo spostare l’interesse degli architetti più sensibili dalle ormai sterili forme storiche alla potenzialità della materia; solo recentemente questo approccio ha trovato esito compiuto in un catalogo pubblicato[8] dal CCA sulla loro opera giustamente intitolato Natural History. Il volume, che non appartiene più alla categoria dei testi teorici da leggere dall’inizio alla fine, si presenta invece come una raccolta di materiali: in questo caso scritti di autori diversi e interviste sono intrecciati con i frammenti materici e visivi cari alla loro poetica. L’atteggiamento progettuale e artistico degli autori non a caso rende esplicito il riferimento alle infinite pagine che compongono l’affascinante Atlas di Gerhard Richter[9], in cui le pennellate, la loro materia, il loro colore sono scelte dall’artista e montate in serie, in campionature sperimentali. Anche le infinite foto dei cieli, così come gli acquarelli di Venezia di Turner, non sono altro che prove, centinaia di prove di colori, prove di accostamenti, prove di definizione di una massa, di una materia non ancora riconducibile a forma. Ma l’aspetto più interessante dell’opera di Herzog & de Meuron è forse il fatto che questa liberazione dalle forme del passato permette di tornare a riflettere sui concetti operativi propri della disciplina, ragionare nella pratica sul significato di alcune operazioni compositive strettamente vincolate dalla sensibilità dell’artista, come la scelta dell’uniformità, della ripetizione, della compatezza, ma anche della frammentazione, del non-finito, del montaggio.
E così, proprio nell’indice di Natural History, riacquistano senso parole come trasformazione e straniamento, appropriatezza e variazione, accumulo e compressione, permettendo al lavoro dell’uomo sulla materia di dimostrarsi come imprescindibile per compiere il passaggio obbligato dalla natura alla materia.
Se da un lato infatti l’uso immediato della materia ci riporta all’idea della natura, bisogna osservare in verità che la materia usata in architettura si trova all’interno delle montagne, nei boschi, nelle miniere, che non si dà senza il lavoro dell’uomo. «Queste materie, sorte dalla natura ma non naturali, [sono] prodotti dalla fatica umana e il racconto della loro lavorazione… affiora attraverso i segni della cultura materiale… Si ha l’impressione che questi oggetti, apparentemente elementari, contengano, proprio per questo processo di accumulo, una sequenza di tempo condensato»[10].
Una condizione temporale eccezionale si dice: da un lato senza tempo, e dall’altra sempre in contatto, tramite il lavoro dell’uomo sui materiali, con gli avanzamenti più attuali della tecnica della costruzione. Anche questo doppio aspetto è una declinazione nel tempo dell’immediatezza della materia.
Un’immediatezza in verità utile al progetto contemporaneo, che si trova oggi in una fase di ripensamento e ha trovato nuovamente nella materia il punto da cui ricominciare, riscoprendo e facendo proprio alcuni caratteri specifici dei singoli materiali.

La materia, le poche materie di base dell’architettura, naturali e fabbricate, aprono i Quattro libri dell’Architettura di Andrea Palladio: le pietre, quelle naturali e quelle cotte dall’uomo (i mattoni) i legnami, le arene e i metalli, a cui possiamo aggiungere in epoca moderna il vetro. Da queste poche materie possiamo ottenere i molti materiali da costruzione e i diversi caratteri che alla nostra architettura vogliamo dare: ci sono le famiglie della durata e dell’accoglienza, ma anche quelle dell’ambiguità e dell’aggressività, della trasparenza o dell’opacità, purché si conoscano le proprietà specifiche di ogni materia, come ad esempio la proprietà di diffusione o di riflessione della luce. Se l’intuizione palladiana del potenziale scultoreo delle arene, si trasforma in epoca moderna nei grandi getti del cemento armato, acquistando la dignità di una nuova materia nel raggiungimento dei suoi valori scultoreo-plastici, in realtà è solo il vetro che cambia profondamente la consistenza materica dell’architettura recente.
Il carattere sovversivo della nozione di smaterializzazione era già stata utilizzato da Mies van Rohe nei progetti degli anni venti per il grattacielo per la Friedrichstraße, dove la scelta del vetro è espressa proprio per attenuare l’impatto del nuovo tipo edilizio, il grattacielo appunto, sulla città antica[11].
Anche le sperimentazioni contemporanee più interessanti sullo spazio, come le opere della giapponese Sejima, sono tutte fondate sull’ambiguità nell’uso dei materiali: riflessi e sovrapposizioni di vetri, ma anche l’uniformità della materia come nuova soluzione progettuale.
Se caratteristica dell’architettura è quella di non poter negare, la materia permette anche di giocare sui paradossi: così la vernice lucida spennellata sulle grandi superfici in cemento armato delle opere di MVRDV o la finezza del rivestimento ceramico della splendida casa di Perret in rue Franklin.
Abbiamo già detto che la materia diventa linguaggio, in realtà si sostituisce alla complessità del linguaggio con la sua fisicità. Ferdinando Scianna ricordava proprio questo come uno dei caratteri della fotografia[12], del suo distinguersi dalla pittura: nel secondo caso l’immagine è creata dall’uomo, mentre nel primo viene trovata dall’uomo. Questa condizione di ritrovamento, dove la componente casuale assume una sua importanza è da associare con un’altra condizione del contemporaneo che ben è rappresentata da quell’objet trouvé che Rem Koolhaas costruisce come Casa della Musica a Oporto: in questo caso sembra addirittura che l’architetto olandese voglia rappresentare un frammento di materia caduto sulla terra.
L’immediatezza della materia sembra dunque assolvere, in epoca contemporanea, alle tematiche dell’architettura che non possono essere eluse, ai suoi caratteri fondativi, ma che non si possono più affrontare con gli strumenti disciplinari e compositivi tradizionali. È così possibile, ad esempio, parlare di un luogo semplicemente con la scelta della sua materia, così come alludere alla memoria con la sensibilità di una materia in contrapposizione all’imposizione di una figura, che spesso assume tratti caricaturali.
In questo modo l’architettura può anche rendere esplicite le influenze delle altre arti, basti pensare alla strettissima relazione che lega progetti recenti alla Land art o ad una determinata corrente del minimalismo, fondata sulla comune comprensione delle possibilità che la materia offre.
Senza il controllo del tempo, dello spazio e della misura, l’architettura sceglie dunque l’immediatezza della materia: la fiducia della solida pietra, il ritmo inesorabile degli infiniti mattoni, l’accoglienza delle morbide curve del legno, l’astrazione dei riflessi del vetro, la forza del ferro sono ready made per la sensibilità dell’architetto, ma anche per quell’abitante del quotidiano che la deve vivere. Ci dice André Breton, nel suo Dictionnaire abrégé du surréalisme nel 1924, che il ready made è: «oggetto usuale, promosso alla dignità di oggetto artistico dalla semplice scelta dell’artista». Semplice scelta dell’artista. Semplice!

Luglio 2012


[1] Philip Johnson and the Museum of Modern Art, MOMA, New York, 1998, p. 42.

[2] Nelle poche righe scritte che Mies van der Rohe ci ha lasciato, nelle stesse pagine della rivista « G » da cui aveva scagliato l’anatema contro la forma, riscatta il materiale tra i temi fondativi della nuova architettura, vedi Ludwig Mies van der Rohe, “Costruire” e “Costruire industrialmente”, in Mara De Benedetti, Attilio Pracchi, Antologia dell’Architettura Moderna, Zanichelli, Bologna, 1988, p. 399-401. Cfr. anche Fritz Neumeyer, Mies van der Rohe. Le architetture, gli scritti, Skira, Milano, 1996.

[3] Bruno Reichlin, “Conjectures à propos des colonnes réfléchissantes de Mies van der Rohe” in La colonne, nouvelle histoire de la construction, sous la direction de Roberto Gargiani, PPUR, Losanna, 2008.

[4] José Manuel López-Peláez, La arquitectura de Gunnar Asplund, Fundacíon Caja Arquitectos, Barcellona, 2002.

[5] «Gli oggetti diventano antichi quando hanno superato di essere vecchi, ma questa è qualità di pochi esempi selezionati. Quando diventano antichi ridiventano patrimonio attuale e possiamo farne uso pratico e quotidiana consumazione culturale». Questo l’incipit dell’articolo del 1964 “Le Corbusier”, in Ernesto Nathan Rogers, Editoriali di Architettura, Einaudi, Torino, 1968.

[6] Rafael Moneo, “Paradigmi di fine secolo: frammentazione e compattezza nell’architettura recente”, in L’altra modernità, Considerazioni sul futuro dell’architettura, Christian Marinotti, Milano, 2012, p. 59.

[7] Cfr. John Pawson, A visual inventory, Phaidon, Londra, 2011.

[8] Philip Ursprung, a cura di, Herzog & de Meuron: natural history, CCA, Montreal, 2003.

[9] Gerhard Richter, Atlas der Fotos, Collagen und Skizzen, Oktagon, Colonia, 1998.

[10] Massimo Fortis, “Materia e forma”, in Ghitti, memoria del ferro, Mazzotta, Milano, 2006, p. 57.

[11] Bruno Reichlin, “Quant’è trasparente il vetro?”, in Franz Graf e Francesca Albani, a cura di, Il vetro nell’architettura del 20° secolo: conservazione e restauro, Mendrisio Academy Press, Mendrisio, 2011, p. 162.

[12] «Perché la natura specifica della fotografia, e in questo risiede la sua straordinaria, gigantesca rivoluzione, è che per la prima volta non dà conto di un’ immagine “fatta” dall’ uomo, ma “trovata” dall’ uomo: nella realtà, nel mondo», Ferdinando Scianna, Le trovate d’artista non bastano più. L’estetica è nella necessità dell’opera, in « la Repubblica », 26 giugno 2012.

Viaggio a Madrid e Porto

Questo slideshow richiede JavaScript.

 

Viaggio nei Paesi Baschi

Questo slideshow richiede JavaScript.

Alzuza

Arantzazu

Donostia

Indice

Introduzione alla ricerca
La facciata tra tipologia e città

Tipo, ordini, proporzioni
Città
Tipo e città
Scala e misura
Archetipi
Permanenza, trasformazioni, principi
“Roma quanta fuit ipsa ruina docet”
Arco di trionfo: unità e ritmo
Porta urbana: tripartizione e misura
Sett izonio: reticolo strutt urale e rappresentatività
Acquedott o: ripetizione e fuoriscala
 Principi compositivi
Continuità dell’antico
Colosseo
La facciata del palazzo italiano
“Modernaccia per accomodare le storie”
Conclusioni compositive
Usi possibili
Composizione di parti
Composizione di principi diversi
Parti, montaggio, geometria
Manierismo
Contaminatio, unità
Continuità o crisi del Moderno

Questo slideshow richiede JavaScript.

Premessa

Chaque époque se fabrique mentalement sa représentation du passé historique

Lucien Febvre

Questo libro si occupa di un tema che sembra appartenere ad un altro tempo: la facciata. Si tratta in gran parte di riflessioni scaturite dallo scontro con la realtà progettuale negli anni successivi alla laurea, quando cercavo di interpretare un metodo che consideravo ricco di possibilità, soprattutto per le scelte che un progettista compie nel mondo delle forme dell’architettura. Un metodo fondato su un’idea di architettura che riconosce, ancora oggi, nella continuità dell’esperienza storica il senso stesso del progetto, e dove l’attenzione analitica permette un’astrazione dalle forme utile a comprendere il mondo delle relazioni che attraversa tutta la storia dell’architettura.

Successivamente questa idea di continuità storica, sperimentata in nuovi contesti, è diventata un tema costante della mia ricerca, fino a sviluppare in modo più coerente una questione qui solamente accennata: il rapporto dell’architettura moderna e contemporanea con la storia.

Mi rendo conto oggi che questo studio è stato un solfeggio importante nella mia formazione ed è questo il motivo principale che mi spinge a pubblicarlo. Nel lavoro di allora avevo avuto spesso la sensazione di lavorare in un mondo arcaico, ma negli anni la necessità di riconoscere i principi del progetto che si intrecciano nel tempo si è resa sempre più evidente, fino a confermarne, direi quasi paradossalmente, una maggiore urgenza proprio nella complessità del linguaggio dell’architettura attuale.

E non mi riferisco a una posizione di retroguardia, bensì proprio all’opposto: alla volontà di cercare oltre le forme, di esplorare un versante teorico che vede nelle relazioni, nell’unità e nello spazio il senso del progetto. Ripensata oggi, mi rendo conto che scopo della ricerca era infatti la liberazione dalla meccanicità nell’uso di forme precostituite, a favore della consapevole costruzione di uno sguardo disincantato sulla contemporaneità, in grado di distinguere con chiarezza quanto appartiene stabilmente alla disciplina e quanto può essere variato nel contaminarsi con la storia, con il luogo, con la cultura e con l’arte.

Questo percorso è stato lungo e faticoso, per certi aspetti doloroso, ma credo possa essere ancora utile testimoniare un apprendimento dell’architettura condotto sul campo, ripercorrendo i viaggi dei grandi architetti, immergendosi nelle architetture e nelle città, con la curiosità sorretta da un’ingenuità non ancora mediata dalla critica, fino a rilevare le rovine con i maestri del rinascimento o a ridisegnare Roma con Letarouilly e Berlino con Schinkel senza il filtro del tempo.

Il testo riprende gran parte delle riflessioni svolte come tesi nel corso di dottorato di ricerca in composizione architettonica coordinato da Gianugo Polesello, che ricordo per la passione e l’originalità del pensiero, con relatore Giorgio Grassi e controrelatore Gianni Fabbri, presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia.

Milano, maggio 2008.

CONTESTO: STORIA VERSUS LUOGO

Questo slideshow richiede JavaScript.

Nel visitare il Museo degli Uffizi a Firenze ci si imbatte in un grande quadro, una Venere di Tiziano. Si tratta di un dipinto in cui la figura della donna nuda, in particolare la precisa curva del suo corpo, si stagliano su uno sfondo diviso in due parti. Una metà è completamente nera: possiamo ipotizzare anche che sia una tenda, ma la sua realtà è solo quella di un astratto e scuro impedimento alla vista, privo di profondità. Nella parte attigua, l’altra metà del campo visivo, succede esattamente l’opposto: allo scuro si sostituisce la luce, alla vicinanza ridotta la profondità di campo, all’astrazione un mondo figurato, al bianco e nero il colore, fino al piccolo cane che diventa punto di fuga della prospettiva.

La descrizione di quel dipinto sembra coincidere con la descrizione di un’opera architettonica di Le Corbusier: l’unione degli opposti è quello che tiene insieme il pittore con l’architetto, si potrebbe sinteticamente dire. E non a caso, sfogliando i carnet del viaggio in Italia del giovane architetto svizzero nel 1911, si trova il resoconto della visita agli Uffizi, completa di uno schizzo di quel dipinto, legittimandoci a pensare che ciò che rese degno il quadro di essere annotato nei famosi carnet sia proprio la rappresentazione di quell’unione dei contrasti.

Questa vera e propria idea di architettura, che vede nel concetto di unità la sintesi compositiva di sistemi più complessi e opposti, sembra essere oggi tra le più ricche per il progetto contemporaneo sulla città. È infatti quella che ci permette di leggere la complessità dei tessuti urbani, ma anche l’organismo architettonico come montaggio di elementi che trovano un loro senso nella loro relazione. È ormai da tempo che il sistema delle relazioni tra le parti, e non più la definizione formale delle parti, è diventata il vero e proprio momento di acquisizione di consapevolezza del progetto, potremmo dire la sua attualità: si vede il contemporaneo come occasione particolare di definizione di nuovi rapporti.

Ma la Venere di LC ci parla anche di un’altra cosa: ci racconta degli occhi degli architetti che cercano e che pescano nel passato il loro futuro, in continuità.

(Il bellissimo concetto di Eliot, secondo cui ogni nuova opera modifica il passato.)

Rendere attuale il passato, la storia. Dobbiamo parlare di attualità perché, come vedremo, il rapporto che l’architetto stabilisce con il tempo è proprio uno dei nodi teorici fondamentali su cui basare un discorso sul progetto contemporaneo nei contesti storici. Contemporaneo dunque, nella doppia accezione di poter riconoscere i temi dell’attualità, ma anche la ricerca di quanto al contemporaneo è oggi necessario.

Si è provato ad utilizzare la potenzialità dell’architettura di tenere insieme opposti, complessità diverse e complementari, sotto un’unità, verificando come opposti i due concetti fondamentali della progettazione nel contesto: il Luogo e la Storia.

In questo senso riconosciamo al concetto di Luogo tutta l’oggettività dell’architettura, quasi a farlo coincidere con l’architettura stessa. Alla Storia, anzi alle tante storie possibili, riconosciamo invece il concetto di soggettività.

Al luogo accostiamo il progetto, mentre alla storia il progettista che la sceglie, in questo senso oggetto e soggetto.

Ci ricorda Lucien Febvre: ogni epoca si costruisce mentalmente la sua rappresentazione del passato storico. La sua Roma e la sua Atene, il suo Medioevo e il suo Rinascimento […] La storia si scrive per il presente.

Prima di entrare nel specifico dello scontro nel contesto, occore prima ricollocare brevemente i due termini: il Luogo è presenza, mentre la storia si scrive per il presente. (Borges ogni scrittore si costruisce i suoi predecessori)

Questo presuppone due atteggiamenti opposti per la storia: l’uso soggettivo della storia che si fa nel progetto e l’uso oggettivo della storia che si deve fare nella ricerca storica. A noi interessa quello del progetto.

Faccio esplicito riferimento ad una idea di storia senza tempo.

Qualcosa di molto simile a quello che faceva nel suo Atlante Aby Warburg: scardinare la linearità storica a favore dei temi. L’origine è la meta, il famoso aforisma di Kark Krauss, citato da W. Benjamin nelle tesi di filosofia della storia, presuppone che in ogni istante è compresa la totalità del tempo, e sono quindi comprese in ogni istante, l’origine e la fine. Un tempo pieno di attualità.

(John Berger individuava nella rivoluzione francese un cambio della storia: da guardiano del passato a promotrice del futuro. Si è smesso di parlare dell’immutabile per gettarsi nelle leggi implacabili del cambio. Da quel momento la storia si intende come progresso.)

Siamo dunque interessati a storici che riprogettano un’opera, o ad architetti che fanno i loro progetti con le opere del passato (vedi Aldo Rossi e Boullè)

Il Luogo nella cultura italiana ha invece un significato preciso: non credo sia necessario oggi ripercorrere il senso della ricerca sulla morfologia urbana, sembra invece più utile cogliere i punti di aridità di una teoria che vedeva coincidere Luogo e Storia, non riconoscendo alla storia il suo vero significato soggettivo.

Nella storia occorre intervenire con scelte soggettive.

Ma quando si parla di Luogo, occorre prima precisare, nel confronto con il contesto,  se si è interessati a conoscere il luogo o a costruire un luogo.

Basti pensare alla bella definizione che da Cacciari sulla differenza tra Polis e urbs, l’una tesa a mantenere la tradizione di una nazione, l’altra alla fondazione di una legge utile a costruire un futuro che tenga insieme cose diverse.

(memoria deve essere immaginativa, mai clinica di ricordi. Pericolo per i centri storici è memoria come museo).

Hejduk citando Pasolini si auspica l’avvento di un’architettura che cessi di riprodurre la realtà attraverso la sua evocazione, ma stando in continuità con questa. Non un uso della storia e una lettura del luogo nostalgico, dunque, ma un uso riattualizzato del tema progettuale.

Il luogo si offre dunque tutto nella sua realtà, nella sua oggettività. Mi ricorda quanto diceva JNB su Brancusi: inventario di forme e di archetipi in evidente presenza, in cerca di un contenuto. E solo la soggettività, la continua attualità della storia ci permette di sceglierne una, sia questa appartente a quel luogo come una data, un’idea tipologica, un assetto morfologico, sia questa catapultata da un altro mondo, ma scelta per la sua capacità di compiere un tema, per costruire il nuovo luogo.

Ricordiamo che il contrasto funziona solo su un inciso germinale già iniziato (vedi Adorno su Schoenberg), in questo senso il luogo come base architettonica su cui si può variare (vedi Gardella a Genova). E se la città è il luogo per eccellenza in architettura, si è pensato di indagare due contesti urbani, e le diverse soluzioni architettoniche che su questi luoghi hanno confluito, proprio a partire dalla contrapposizione di Luogo e Storia.

Si tratta di un tratto di Corso Italia a Milano, dove si trovano tre architetture molto diverse, dello studio BBPR, di Luigi Moretti e di Luigi Caccia Dominioni, ciascuna esponente di una storia particolare, tutta dimostrata nella continua lotta della città tra la sua vocazione a griglia regolare e la sua realtà monocentrica;

L’apertura di Corso Italia alla fine dell’ottocento a Milano può essere letta come una violenza nella forma urbis di quel luogo, il secondo esempio è invece a Genova, in quella collina di Castello dove si confrontano il progetto del Museo di Sant’Agostino di Franco Albini, con la Facoltà di Architettura di Gardella; dove il primo affronta il luogo nella totale adesione tipologica e ne affronta il solo avanzamento linguistico, mentre l’altro obbliga il tipo astratto, che potremmo assimilare ad un momento storico, a ripensare il suo uso nel luogo.

Poznan, 22 maggio 2009

Viaggio studio con gli studenti del Laboratorio di Progettazione dell’Architettura 1
febbraio 2010

Questo slideshow richiede JavaScript.