JORGE OTEIZA: DALL’ASTRAZIONE ALLA STORIA

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Non vi è scritto, interpretazione, citazione, saggio o riferimento a Jorge Oteiza che non riporti con stupore la brusca interruzione del Proposito Sperimentale che lo scultore basco, nel momento del massimo riconoscimento del suo fare artistico, ha attuato alla fine degli anni cinquanta. Ma chi era e cosa stava facendo Jorge Oteiza? E soprattutto cosa avrebbe poi fatto?

Possiamo davvero parlare dell’opera scultorea, della sperimentazione formale di questo artista senza tener conto della profondità della sua cultura, quella basca peraltro così particolare, del suo mondo di riferimenti artistici, che scandaglia la storia antica e recente alla ricerca disperata di “famiglie spirituali” e del suo pensiero più intimo, nel confronto continuo con la vita e con la morte, con la realtà dell’attualità e con l’arcaico[1]?

Al momento della sua clamorosa decisione Oteiza aveva già percorso un tragitto estremamente lineare all’interno della scultura: ci ricorda con precisione Maite Muñoz come, rientrato dall’esilio in Sudamerica nel 1948, “Oteiza cerca di introdurre lo spazio nella scultura bucando il blocco originale, cerca di far convivere il vuoto con il pieno fino a far diventare lo spazio il protagonista delle sue opere”[2]. Si applicherà allo svuotamento delle figure umane, e nello stesso tempo si metterà in gioco nell’astrazione geometrica, con una ricerca sulle forme che subirà nel corso di pochi anni (la decina che si chiude nel 1958) un’evoluzione chiarissima, che possiamo riassumere in una sua frase del 1947, dove anticipava che “il vuoto deve essere oggetto di un nuovo ragionamento plastico. Il vuoto dovrà costituire il transito da una statua-massa tradizionale alla statua-energia del futuro. Dalla Statua pesante e chiusa alla Statua leggera e aperta.”[3]  Nello stesso scritto annunciava anche che il significato dell’opera, “la soluzione, si trova fuori da se stessa” e che lo spettatore deve venir coinvolto attivamente nella composizione. Brevi testimonianze che anticipano il programma di vita che avrebbe affrontato solo dieci anni dopo, alla conclusione della sua fase di sperimentazione.

Ben sintetizzate nella serie dei titoli che compongono il Proposito Sperimentale del 1956/57, suddivise nei capitoli delle Dis-occupazioni di Cilindro, Sfera, e Cubo, Conclusione ed efficacemente descritte come Solidi aperti, Moduli di Luce, Aperture di poliedri, Definizione lineare di poliedro vuoto, Fusione di due Cuboidi Aperti, Associazione di blocchi di pietra (secondo la matrice Malevitch), Apertura lenta, Costruzioni vuote con unità positivo – negativo, Espansioni, Fusioni di elementi curvi, Casse vuote e Casse metafisiche, le pratiche operative si concretizzano nelle sculture da tavolo realizzate in pietra, marmo, cemento e, soprattutto, in ferro.

Le prime opere indagano i rapporti tra più forme geometriche, attraverso la loro fusione o il loro movimento nello spazio, procedimento presto criticato dallo stesso Oteiza a favore di una tensione tra le parti da generare dinamicamente e non meccanicamente; sperimentano inoltre, con le ritenzioni di luce, il lavoro con la luce come generatrice di vuoto. “Lo spazio – affermerà Oteiza nel 1957 – non si produce con lo svuotamento fisico della massa, risulta bensì dalla fusione di unità formali leggere, dinamiche o aperte, con cui si ottiene la rottura della neutralità dello spazio libero della statua.”[4] Con il concetto di fusione, con la scoperta della tensione tra le parti, si produce l’allontanamento dallo svuotamento della materia di Henry Moore e si chiarisce la portata della sua definizione di spazio vuoto.

 Più tardi, sempre attraverso i titoli delle opere, Oteiza ci presenta la sua genealogia poetica: come ogni artefice, il maestro basco sente la necessità di collocare il suo lavoro in continuità con antichi e nuovi maestri; i primi, anonimi, affondano le radici nella vastità della cultura europea, come l’arcaico dei cromlech, per arrivare, attraverso Velázquez, al moderno delle esperienze astratte, prima fra tutte quella costruttivista russa. Las Meninas (il concavo e il convesso, il cane e lo specchio) Omaggio a Mallarmé, Conclusione sperimentale A per Mondrian, Omaggio a Paul Klee, sono solo alcuni dei titoli che si spingono fino all’individuazione dell’Unità Malevitch, un “quadrato irregolare con capacità di movimento diagonale.”[5]  Alla sua operatività scultorea non corrisponde dunque una vita isolata dal mondo, bensì un costante approfondimento e aggiornamento sull’arte contemporanea che ha lo scopo di collocare la sua riflessione teorica in un mondo di relazioni preciso, complementare agli studi di storia dell’arte da sempre dettati dai problemi incontrati sul tavolo di lavoro.

Le ultime opere di questa serie, come le Casse vuote e le Casse metafisiche, sono così descritte dall’autore: “La mia conclusione del 1958 si realizzò con uno spazio vuoto puramente ricettivo che mi ha lasciato senza scultura nelle mani.”[6] o ancora “ho terminato in uno spazio negativo, in uno spazio solo e vuoto […] tutto il processo dell’arte preistorica europea finisce nel vuoto trascendente dello spazio vuoto del cromlech neolitico basco. […] Questo vuoto finale significa che l’arte non ha più bisogno di esplorare, che ha già elaborato una sensibilità attuale per la vita.”[7]

La cultura filtrata dagli occhi dell’artefice, prima plasmata sulla materia, serve ora a costruire l’artista stesso e il suo mondo. Oteiza lascia la sperimentazione artistica a favore della vita: intuita la logica e la potenzialità della forma, ne percepisce il fascino e il pericolo, e sceglie di limitarsi a ripetere quel linguaggio che lui stesso aveva modellato fino a attribuirgli significati diversi. Nell’abbandono graduale della funzione espressiva si esplicita il carattere di servizio che doveva prendere la sperimentazione.[8]

Gran parte del suo lavoro successivo sarà, infatti, scrivere saggi, poesia, articoli, utili a forgiare un’estetica basca, a inventarne un’origine e costruirne il futuro, usando l’esperienza formale acquisita; lo farà in molti modi, con i libri[9], sui giornali, attraverso il cinema, ma anche, ancora, con la scultura.

I temi del Proposito Sperimentale vengono selezionati, alcuni acquistano nomi eroici, espressivi del loro rapporto con il territorio – Guerriero, Odisseo – ma soprattutto subiscono un salto di scala importante e si trasformano in monumenti politici.

L’uomo pubblico si esprime a voce alta, mentre l’uomo privato, il creatore di forme chiuso nel suo atelier, non può comunque smettere di lavorare sulla materia; in quello che diventerà il suo famoso Laboratorio di gessi, le forme si confrontano e si moltiplicano alla scala più minuta, intima, in una sorta di ossessiva e cumulativa ricerca sui rapporti tra le parti. Ai due estremi della sua attività possiamo vedere il continuo ritorno ai risultati formali raggiunti nel 1958: alla scala della miniatura e alla scala immensa della sua madre terra, arroccando grandi monumenti in quella natura così pagana, costellandola di memorie di prigionieri e di manifesti politici, di guerrieri che difendono il territorio del popolo basco.

Nel gesto della disposizione di questi manufatti sulla terra si stabiliscono necessariamente rapporti complementari con il sito, si crea una tensione tra gli elementi che riempie di significato il sentirsi in un luogo, attraverso la riappropriazione del cosmo. Nel 1952 Oteiza scrive: “L’architettura e la scultura hanno in comune la creazione dello spazio. In questo caso si tratta del risultato ultimo in cui lo sviluppo dello spazio nel senso plastico si ottiene attraverso l’uso di strumenti architettonici. In contraddizione con l’idea di scultura tradizionale, che quasi sempre – compresa l’arte moderna – è una forma collocata in uno spazio esteriore, questa volta, consciamente, si è cercato di ottenere che la scultura fosse lo spazio interiore, in modo tale che entrambi gli spazi, interiore e esteriore, si integrassero”[10]. Non sta forse descrivendo la famosa scultura La Piazza dove, proprio in quegli anni, Alberto Giacometti metteva in atto il medesimo ribaltamento dello spazio?[11]

Ovviamente gli occhi attenti degli architetti spagnoli hanno colto per primi queste potenzialità della sua ricerca. Il lavoro sulla respirazione spaziale, aperta e chiusa, sulla modulazione della luce e sul cambio di scala hanno interessato non solo gli amici baschi e navarri di una vita, come Sáenz de Oiza e Fullaondo, che con lui costruirono santuari, musei e riviste, ma anche i futuri maestri della cultura iberica. Rafael Moneo già nel 1967 scriveva come Jorge Oteiza arquitecto[12] avrebbe potuto riscattare, attraverso una nuova ricerca sullo spazio, un momento difficile della cultura architettonica, involuta su questioni linguistiche, mentre il pittore, scultore e architetto Juan Navarro Baldeweg, nei suoi saggi Un oggetto è una sezione e La geometria complementare, ci fornisce gli indizi per scoprirne un’eredità nella propria poetica.

Ma la sua eredità è stata colta nella giusta profondità o è stata indagata fondamentalmente come sperimentazione formale? Come possiamo comprendere il passaggio da Fusione di due Cuboidi Aperti a Ritratto di un guerriero armato chiamato Odisseo? Come possiamo muoverci nella complessità del lavoro del grande scultore senza analizzare gli strumenti concettuali e culturali sui quali è fondata? Questo volume s’incarica, attraverso la dettagliata lettura dei molti strumenti di comunicazione utilizzati da Oteiza, di riempire di significato il vuoto delle Casse di Oteiza, inserendo il discorso formale in una prospettiva di valori più ampia.

Lo scritto di Gillermo Zuaznabar sembra essere ben consapevole del fascino e del rischio che la bellezza delle forme ci offre, così come dell’impossibilità di rinunciarvi. E scegliendo di entrare nel vivo della descrizione delle opere pubbliche principali, quali ad esempio gli apostoli della basilica di Arantzazu o il monumento al Padre Donosti, ne fornisce una rilettura che inanella quei temi e quei concetti che Oteiza aveva nascosto nella vastità della sua produzione cartacea.

Persino la costruzione della casa-atelier di Oteiza a Irun o la collocazione di una pietra scolpita sul ponte del confine con la Francia possono allora diventare parte attiva del processo di definizione dell’animo basco, e insegnare a conoscere la particolare prospettiva con cui Oteiza ha interpretato la storia della sua terra e il suo paesaggio, attraverso la vita e la morte, l’arcaico e il contemporaneo, il tempo e lo spazio. Un lascito che i giovani artisti con il cappello alla Beuys, che si aggiravano nel padiglione centrale dell’ultima edizione di Documenta a Kassel, hanno percepito inconsapevolmente nell’ammirare stupiti la gigantografia del Laboratorio di gessi.


[1] “La contemporaneità s’iscrive, infatti, nel presente segnandolo innanzitutto come arcaico e solo chi percepisce nel più moderno e recente gli indici e le segnature dell’arcaico può essere contemporaneo. Arcaico significa: prossimo all’arké, cioè all’origine. Ma l’origine non è situata soltanto in un passato cronologico: essa è contemporanea al divenire storico e non cessa di operare in questo […] Lo scarto, e insieme la vicinanza, che definiscono la contemporaneità hanno il loro fondamento in questa prossimità con l’origine, che in nessun punto pulsa con più forza che nel presente.” Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, Roma, 2008, p. 39.

[2] María Teresa Muñoz, Prólogo. Arte, ciencia y mito, nell’edizione critica di Jorge Oteiza, Interpretación estética de la estatuaria megalítica americana, 2007, p.45, T.d.A.

[3] Jorge Oteiza, “Del Escultor Oteiza por el mismo”, in Cabalgata, Buenos Aires, 1947, T.d.A.

[4] Jorge Oteiza, Propósito Experimental, presentato a São Paulo do Brasil, 1956-57, T.d.A.

[5] “Malevitch rappresenta l’unico fondamento vivo delle nuove realtà spaziali. Nel vuoto del piano ci ha lasciato una piccola superficie, la cui natura formale leggera, dinamica, instabile, fluttuante occorre capire in tutta la sua portata. Io la chiamo Malevitch”. Jorge Oteiza, Propósito Experimental, Op. cit., T.d.A.

[6] Jorge Oteiza, “Pobreza aparente de mi escultura », in Cartas al principe, Zarautz, 1988, p.65, T.d.A.

[7] Jorge Oteiza, Quosque tandem …! Ensayo de interpretación estética del alma vasca, Auñamendi, Donostia, p. 77, T.d.A.

[8] Daniel Fullaondo, in Nueva Forma, n° 28, maggio 1968, p.21, T.d.A.

[9] “Per Oteiza la pagina bianca è campo di operazioni simile al blocco di pietra o a qualsiasi altro materiale, perché gli serve per scegliere alcuni elementi, stabilire relazioni tra questi, introdurre metafore e, a partire da tutto questo, creare una nuova entità.” María Teresa Muñoz, Op. cit. p.58, T.d.A.

[10] Memoria del proyecto del escultor Oteiza presentada al concurso international para el monumento al prisonero politico desconoscido y protesta ante el jurado, Londra 1952, in RNA, 1952, T.d.A.

[11] Oteiza ha sempre mostrato un’attenzione particolare all’artista svizzero, riconoscendo nella sua opera un’analogia con la sua ricerca sullo spazio. In Quosque tandem …! dice Oteiza sulla scultura di Giacometti: “Dimagrimento della figura della rappresentazione o disoccupazione spaziale della statua come necessità spirituale di un vuoto recettivo figurato”.

[12] Rafael Moneo, “Jorge Oteiza arquitecto”, in Forma Nueva, n° 16, maggio 1967, p.22, T.d.A.