Indice
Prefazione di Carlos Martí Arís
Da Cerdà a Llinás, la costruzione lenta della città moderna
Josep Maria Sostres, il moderno come passato
Josè Antonio Coderch e il Team X
Rafael Moneo e la scuola di Barcellona attraverso le riviste degli anni settanta
Siza nella città di Schinkel
Alberto Campo Baeza, ricerca dell’unità
Alejandro de la Sota, astrazione e materia
Juan Navarro Baldeweg e il vuoto
Premessa
Quando arrivai a Barcellona nel giugno del 1998, grazie a una borsa di studio per l’estero del CNR, avevo da poco terminato la mia tesi di dottorato sulla facciata, tema di progetto sviluppato tra architettura classica e moderna, tra tipologia e forma urbana. Obiettivo del viaggio, lo sviluppo di una nuova ricerca, sotto la direzione di Carlos Martí Arís, di cui questa raccolta è uno dei frutti. Il volume, infatti, raccoglie alcuni saggi sull’architettura spagnola del Novecento: nati in occasioni diverse, spero possano dimostrarsi, nel loro insieme, un contributo alla ricostruzione di un passato recente dell’architettura iberica che influenza la situazione attuale.
Malgrado io possa attribuire questi scritti a un periodo circoscritto, è opportuno precisare le origini e il contesto di ognuno.
Il primo scritto rielabora la memoria della prima ricerca e testimonia soprattutto la scoperta dell’architettura degli anni cinquanta in Spagna, tema che avrei avuto successivamente occasione di sviluppare proprio grazie alla proposta di Carlos Martí e di Antonio Armesto di partecipare alla realizzazione di una mostra e di un catalogo sull’opera del loro maestro, Josep Maria Sostres. In quel contesto ebbi anche occasione di frequentare l’archivio di Sostres, conservato alla Scuola di Architettura presso lo studio di Pep Quetglas.
Nel maggio del 1999 la mostra fu inaugurata e il lavoro su Sostres fu sostituito da un nuovo interesse nei confronti dell’architetto madrileno Alejandro de la Sota. Nell’opera di de la Sota ritrovavo infatti la relazione stretta che lega spazio architettonico e figuratività, consapevolezza costruttiva e immediatezza dell’immagine, un tema che in modo molto diverso aveva focalizzato gli interessi della mia tesi di dottorato. Il palazzo del Gobierno Civil, la sua stretta relazione con l’arte figurativa e la storia della città antica di Tarragona, si trasformò presto nell’occasione per lavorare concretamente su un’opera, sperimentando anche un’attività di ricerca vista come approfondimento su una singola opera, dove scandagliare fasi e temi del progetto nella sua realtà, e non come confronto su temi o personalità artistiche.
Il continuo scambio tra storia e progetto, che nel frattempo avevo scherzosamente messo in gioco nell’interpretazione un po’ personale di Siza, cercava di definirsi come strumento di ricerca.
La mia formazione di progettista mi portava a riconoscere, di volta in volta, le molteplici ripercussioni di quei momenti felici sul divenire dell’architettura contemporanea. Per questo motivo, cominciai a studiare le riviste che erano state fondate e dirette dagli amici e compagni di lavoro incontrati durante l’intermezzo spagnolo: «Carrer de la Ciudad» e «2C», ma anche «Arquitecturas Bis» e «Quaderns».
Le figure di Rafael Moneo e di Juan Navarro Baldeweg, indagati all’inizio per le loro architetture, si rivelarono fondamentali per diversi motivi. Nel mosaico che stava cominciando a configurarsi mi resi conto del ruolo fondamentale che questi maestri hanno avuto: eredi dei grandi architetti degli anni cinquanta, de la Sota, Saenz de Oiza, Fisac, ne hanno acquisito la consapevolezza della costruzione, coniugandola con un atteggiamento intellettuale forse più strutturato e raffinato. Uscivano in quegli anni le riflessioni artistiche di Navarro Baldeweg e si potevano leggere, finalmente raccolti, i più importanti saggi di Moneo.
Nell’estate del 2003 feci un viaggio in Scandinavia, come i maestri spagnoli studiati avevano fatto, e ritrovai in quei luoghi molte delle immagini che avevo accumulato negli anni spagnoli. Mi resi così conto che ero andata a Barcellona attenta al pieno e ne ero tornata curiosa del vuoto, cioè della “sospensione tra le cose[1]”, come viene spesso definito lo spazio. Se ho deciso di radunare questi scritti è anche perché coloro con cui sono solita parlare d’architettura, primi fra tutti i miei studenti, siano incoraggiati a viaggiare, a confrontarsi con altri mondi, a camminare dentro le architetture immerse nella loro realtà storica e spaziale.
Mi permetto una nota autobiografica. Mia nonna porta il nome di un quartiere di Barcellona, Sempere, dal momento che nacque nel 1911 al numero uno di calle Hospital, un incrocio importante dove finisce la Rambla de Sant Josep e inizia la Rambla de Caputxins, dove la demolizione delle prime mura urbane ha dato origine, con il Raval, alla lunga storia degli ampliamenti della città, ma anche a pochi metri da uno dei luoghi pubblici più affascinanti della città, l’antico ospedale, la cui imponente struttura urbana si affaccia sulla strada ed invita all’attraversamento di un sistema urbano complesso, fatto di corti, giardini e aranceti.
Appena arrivata a Barcellona ho abitato in una stradina dietro a Calle Princesa, nel cuore della città antica, vicino alla chiesa di Santa Maria del Mar, uno degli spazi pubblici più emozionanti della città, un immenso luogo urbano coperto. La finestra della camera da letto affacciava su una piazzetta lunga e stretta: una strana forma, pensavo. Ho poi studiato che era uno dei molti frutti di una politica di riqualificazione del tessuto del centro storico che la municipalità stava sperimentando, il risultato della distruzione di un isolato della città gotica, operazione chirurgica di svuotamento, finalizzata alla diminuzione di una densità malsana e all’inserimento nel tessuto compatto della città antica di nuovi luoghi pubblici.
Quando lasciai quell’appartamento mi trasferii finalmente nel cuore dell’ensanche, in un piso molto particolare: si trattava di uno dei primi isolati costruiti sul Plan Cerdà, e l’appartamento, contrariamente a tutte le case delle manzane, non si sviluppava in profondità, ma si snocciolava in un corridoio infinito lungo il chaflán. Un’infilata di camere e porte che prospettava sul giardino tra l’università e il seminario, due dei primi edifici civili costruiti dentro le misure della manzana.
Un bel periodo l’ho poi trascorso a Gracia, dove ho sperimentato il disegno urbano degli squares londinesi che strutturano il quartiere, il cambio di scala rispetto all’ensanche e il sistema delle nuove piazze pubbliche realizzate di recente. In questi anni, negli spostamenti tra calle Asturies e calle Verdi, ho avuto la fortuna di seguire il cantiere della biblioteche pubbliche che Llinás stava costruendo a Gracia.
Questi i luoghi dell’abitare.
I luoghi della ricerca, oltre ai lunghi marciapiedi percorsi da sola o in compagnia della stessa città, erano invece sostanzialmente due, opposti e lontanissimi. Il primo: la ciudad universitaria con la Scuola di Architettura di Coderch – impossibile dimenticare sgabelli e corrimano – costruita tra gli interessanti edifici delle nuove facoltà degli anni cinquanta. Il baricentro tra il primo e l’ultimo luogo è rappresentato dallo studio di Carlos Martí sulla Gran Via, sua seconda casa in città e tavolo di verifica sempre attento e curioso. L’ultima tappa non può che essere in quel luogo condiviso da un gruppetto, già sparuto e ormai disperso per il mondo, di eterni studenti di architettura che passavano le loro giornate nella biblioteca del Collegio degli Architetti.
Vorrei ricordare gli amici spagnoli, quelli ancora vicini e quelli ormai lontani, soprattutto per ringraziarli di avermi insegnato molto. Sto parlando ovviamente degli amici di Barcellona, primo fra tutti Carlos, poi Pep, Queralt, l’ormai catalano Max, Antonio, Manuel, Gillermo, Pepe, Jaume, Ricardo, Roger e il Luca passeggiatore, ma anche i madrileni, Jose Manuel, Carmen, Javier, Monica, Luis, Josè Julio, e Luis, che ha pubblicato su «Circo» un paio di questi scritti.
Un pensiero particolare a mio padre, che mi ha sempre accompagnato con le sue provocazioni e le sue critiche, ma soprattutto le sue pressanti domande, mai scontate; a lui infatti attribuisco nelle mie passeggiate l’ansia della scoperta dell’urbano barcellonese, punzecchiata dalla curiosità di andare sempre oltre l’apparenza delle cose; a mia madre, per aver tollerato una fuga mai ben compresa, e a Bibi e Pepe, che con la loro nascita in quel periodo, scandivano un nuovo tempo. Un grazie agli amici che hanno ascoltato e condiviso racconti ed entusiasmi spagnoli, in particolare a Massimo Fortis, Annalisa, Carlo, Marco, Laura e Ilaria che mi hanno aiutato a mettere insieme e rivedere questi testi oggi.
[1] “lo que hay en el aire y entre las cosas.” lo chiama Juan Navarro Baldeweg
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