CASA E CITTA’: MILANO VERSUS EUROPA, IERI E OGGI

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Oggetto di questo lavoro è una riflessione sulle recenti opere costruite a Milano, in particolare sui nuovi quartieri residenziali realizzati dalla metà degli anni novanta ad oggi. Si tratta di grandi comparti, spesso aree industriali dismesse, di rilevante consistenza, che sono state riconvertite alla città. La loro estensione ne fa oggetto di uno speciale interesse, per la ricchezza dei temi che avrebbe potuto suscitare, in contrasto con le soluzioni realizzate, spesso ripetitive e convenzionali. Quello che si vorrebbe mettere in evidenza, confrontando la nostra esperienza locale con altre realtà esterne all’Italia, è individuare una serie di temi su cui la città europea si sta interrogando, su cui sta lavorando con continuità, per valutarne l’impatto nelle recenti realizzazioni milanesi. Le variazioni sulla scala urbana, la conferma o la rottura della trama, il rapporto con la strada o il controllo dell’altezza non sono solo le strategie progettuali che le migliori esperienze europee attuali stanno mettendo in atto, ma in fondo sono sempre stati concetti su cui hanno lavorato anche i maestri milanesi della generazione del dopoguerra, il cui studio permette di scoprire ancora oggi molte interessanti soluzioni progettuali.

Gli elaborati grafici che accompagnano queste riflessioni sono stati redatti in occasione della pubblicazione, avvenuta nel 2009, del numero dedicato a Casa e città di QA24, la rivista del Dipartimento di Progettazione dell’Architettura, diretto allora da Massimo Fortis. Il tentativo intrapreso con il ridisegno dei nuovi quartieri, progettati e realizzati tra il 1997 e il 2007, non era solo quello di documentare in un’unica mappa tutti i recenti interventi, ma anche quello di rendere confrontabili, per realtà volumetrica, le planimetrie dei diversi comparti; una campagna fotografica, realizzata da Marco Introini, ne documentava inoltre la loro realtà fisica e costruttiva.

A una prima lettura era apparso subito evidente che vi erano numerosi tratti comuni tra i diversi interventi, quali ad esempio l’uso ripetuto del tipo della corte aperta o la serialità dell’edificio in altezza, piuttosto che un’indifferenza alle variazioni dei piani in altezza o all’altezza di gronda dell’edificio, che trasformavano ogni singolo intervento in un’occasione persa rispetto alla potenziale complessità che ogni contesto avrebbe potuto sollecitare. Ma una lettura più precisa oggi non può fare a meno di valutare questi interventi in un tempo più lungo, in una storia europea più complessa, dove la formalizzazione di alcune idee della modernità, la sperimentazione sul campo e la declinazione nei contesti, si è rivelata spesso molto feconda. Così come il razionalismo aveva trovato in terra lombarda un proprio carattere, così la città della contemporaneità europea è sicuramente stata un riferimento per le opere recenti.

Innanzitutto è utile chiarire l’attualità di quel felice momento della storia architettonica milanese che, a cavallo della seconda guerra mondiale, ha saputo interpretare i principi della città razionalista nord europea, con una adesione più immediata nei primi quartieri modello progettati tra il 1938 e il 1940 e successivamente interpretati nella maniera lenta con cui si costruirà la città del dopoguerra. Una maniera in cui la nuova architettura si integra e si coniuga con un particolare carattere “urbano” della città, solido e severo, già formato con la controriforma, e poi consolidato con il Piermarini e i progetti della Commissione d’Ornato nel periodo neoclassico.

La ricerca sull’urbanità, nel caso di architetti lombardi come Muzio, Gardella, Asnago e Vender, o Caccia Dominioni, era già una tradizione di lavoro quasi inconsapevole, con cui hanno ricostruito con naturalità la nuova città, dominando un ricco repertorio di strumenti compositivi, appresi in continuità con l’esperienza storica e rivisitati con gli occhi della modernità.

Un mondo, e soprattutto una professione, in gran parte scomparsa negli anni successivi, in cui le estremizzazioni della teoria e della politica ne hanno minato le basi. I discutibili esiti dei grandi interventi residenziali della Milano attuale non possono che essere riletti in questa prospettiva, ben consapevoli che il progetto della residenza in Europa è oggi il risultato di un’idea di città dove l’eredità del moderno ha trovato nella continuità del lavoro una sua lenta integrazione nella pratica professionale. Penso sicuramente alla Svizzera e alla Germania, ma anche ai paesi scandinavi e alla loro influenza sulla recente architettura iberica. Finiti i tempi delle sperimentazioni più ardite, la professione si è concentrata, nel caso della residenza in Europa, alla costruzione della reale architettura della città.

L’architettura della città[2] scritta da Aldo Rossi, si occupava in gran parte della definizione teorica e storica del valore della città, sapendo inserire il moderno nella continuità della storia urbana, ma proponeva poi solo architetture iconiche, oggetti ready made che difficilmente sapevano declinarsi, soprattutto sul tema dell’abitare collettivo, nei caratteri del contingente e del contemporaneo: la scelta dell’immagine dell’archetipo per la sua coerenza urbana sembrava sufficiente a risolvere la città e si poteva dimenticare la ricchezza della parola linguaggio. Il collage in fondo aveva proprio questo significato: l’intercambiabilità dell’oggetto architettonico, non la sua integrazione, declinazione, variazione, compromissione con l’ambiente, come proponeva invece negli stessi anni Maurice Cerasi[3].

La città italiana sta ancora pagando l’approccio troppo raffinato, afasico ed elitario di Rossi, come ben sottolinea Bernardo Secchi: «vorrei sottolineare il rapporto tra oggetto architettonico e architettura della città. Io parto dal presupposto che la seconda parte del secolo scorso è stata colpita da una grave forma di miopia critica; non ci si è resi conto che ciò che stava progressivamente venendo a mancare, era soprattutto l’architettura della città, che si costruivano nella città degli oggetti architettonici, e che l’affermare sempre più la loro individualità avrebbe cancellato il loro significato; essi si perdevano, come i quattromila grattacieli di Shanghai, nel camouflage collettivo dei metronomi [del Poème symphonique] di Ligeti. Si disponeva delle parole, ma non si riusciva a organizzare il discorso. »[4]

Forse possiamo azzardare l’ipotesi che la distanza degli esiti progettuali milanesi dai felici recenti interventi europei, dipenda da questa interruzione in una ricerca lunga sul linguaggio e sulle forme dell’urbanità. L’architetto torinese Carlo Mollino aveva già intuito questo rischio nel rapporto con la tradizione dell’architettura italiana quando ci ammoniva: «La decadenza dell’architettura comincia dal giorno in cui si volle parere anziché essere, in cui si volle evadere verso l’espressione orecchiata di un mondo che non era più il nostro, quando con astratta e presuntuosa cultura, a differenza di quanto era nel cuore del Rinascimento, si volle risalire una tradizione. Da quel giorno l’architettura non ebbe più un volto; incapace di interpretare il suo tempo, incapace di far rivivere trasfigurati da un attuale sentimento quelli con tanta sicumera invocati.»[5]

Mollino scrive queste parole nel 1946, negli stessi anni in cui Luigi Moretti dirigeva i pochi e fondativi numeri della rivista Spazio, e in cui sperimentava, come vedremo, sul corpo della città nuove spazialità. Carlo Mollino e Luigi Moretti, nei loro scritti, ci hanno lasciato le parole per capire l’evoluzione, le variazioni e le integrazioni di un’idea d’architettura vista sempre in continuità con la storia, fatta dall’interno, dal suo essere nell’attuale: un tempo pieno di attualità, diceva W. Benjamin. Tutti i migliori progetti realizzati a Milano in quegli anni hanno questo forte carattere sperimentale, in cui la tradizione e il moderno non cercano di differenziarsi, bensì si declinano nei caratteri dell’urbanità del proprio tempo.

Il vocabolario descrive il termine urbanità come «Modo di comportarsi civile e cortese nei normali rapporti con altre persone», mentre l’urbanista tedesco Sieverts ci spiega che il concetto di urbanità si fonda «su un’immagine idealizzata della città borghese europea, nella sua articolazione dei secoli XVIII e XIX. […] nelle città abitate da borghesia illuminata. »[6] E ancora, forse più precisa sui caratteri architettonici, è la definizione di Françoise Choay, «urbanità è l’adeguamento reciproco di una forma di città costruita, e della sua configurazione spaziale, e di una forma di convivialità».[7]

Nel caso della città di Milano e dell’architettura del Novecento, questa urbanità è sicuramente voluta in alcuni importanti esempi, come il fuori scala dell’isolato urbano della Ca’ Brutta di Giovanni Muzio, in cui il grande blocco del condominio residenziale si spacca ad accogliere un tratto di strada interna, uno dei primi esempi in cui l’edificio stesso si fa città.

Ma forse l’esempio più chiaro dell’integrazione dell’architettura del razionalismo nella tradizione è rappresentato dall’opera di Giuseppe Terragni; quando costruisce Casa Rustici in Corso Sempione a Milano nel 1936 si trova a confrontare due idee di città: da una parte l’idea della città razionalista tedesca, cui si devono i due corpi di fabbrica paralleli, che seguono le prescrizioni dell’asse eliotermico, dall’altra la città tradizionale, che vedeva il fronte principale, il basamento e il cortile come i temi urbani imposti dal regolamento edilizio: la disposizione dei corpi di fabbrica, perpendicolari al grande boulevard urbano, sembra rispondere con decisione ai principi dell’orientamento, ma la rotazione dei due corpi si stempera poi nella ricerca di un’unità, di una compattezza si direbbe oggi, che l’orizzontalità delle terrazze tiene insieme e ricompone.

Prima della guerra la cultura razionalista di Casabella si esprime nel disegno dei grandi quartieri satellite delle case popolari, ripresi in seguito nei progetti manifesto della Milano Verde o della Città Orizzontale di Diotallevi e Marescotti. Nel dopoguerra questa esperienza apparentemente astratta si articola invece sull’intera città, ricostruendo i grandi brani distrutti dalla guerra: proprio questi progetti dei maestri milanesi, la cui coralità non fa che consolidare l’immagine severa della città operosa, possono essere letti come una serie di temi architettonici che interpretano l’urbanità dell’abitare in città, primo fra tutti il tema dell’altezza, strumento di controllo del contesto tramite la scala urbana.

Basti pensare al Quartiere Harar, alla variazione di scala tra il tessuto omogeneo delle case a patio e alla contrapposizione degli edifici in linea che si sviluppano in altezza: in questo progetto è presente quella sensibilità per i rapporti spaziali, quella modulazione, come la chiamava lo scultore Fausto Melotti, che sembra invece mancare alle sistemazioni più recenti.

Modulazione e articolazione spaziale: ci ricorda nuovamente Thomas Sieverts che vi sono tre tipi di densità: quella edilizia, che indica il rapporto tra suolo ed edificato, la densità sociale, e la densità apparente, che misura il grado di apertura visuale dello spazio.[8]

La ricerca di nuove spazialità caratterizza proprio gli studi di Luigi Moretti, e si realizza al meglio nell’edificio di Corso Italia, costruito nel 1955 a Milano, architettura tutta risolta nel gesto espressivo del rifiuto della strada del corpo alto in contrapposizione al basamento su cui appoggia, che invece ne ribadiva la continuità.

La soluzione morfologica trova anche nel linguaggio architettonico, che ci piace confrontare con gli sfalsamenti e le rotazioni dei migliori progetti di Asnago e Vender a Milano, una sua adeguata risposta.

E il pensiero non può non correre ai fotogrammi del cinema di Antonioni, girati proprio in queste architetture moderne milanesi, di cui usava la bellezza per parlarci della modernità e del disagio, della nostra impossibilità di sfuggire al fascino di quell’urbanità non voluta, in un’accettazione rassegnata della nuova scala urbana. Così come fecero Asnago e Vender accettando la densità della città del dopoguerra e realizzando nell’edificio di via Lanzone il confronto tra la scala della città antica su strada e la libertà del corpo del moderno verso il giardino.

Ognuno di questi architetti ha dato una risposta precisa a questa idea di città che si andava configurando, ognuno ne ha dato una declinazione particolare, scegliendo di lavorare sui temi dell’urbanità come revisione del moderno dall’interno, fino ad articolare una lingua elegante e raffinata, urbana e domestica allo stesso tempo, vivibile dal cittadino e dall’abitante. Hanno cioè saputo tenere insieme due poli apparentemente così uniti, ma anche così diversi, se analizzati nei loro statuti. La città, con le sue crude realtà economiche e funzionali, e l’architettura, con il suo carattere, i suoi materiali, il suo linguaggio.

L’hanno saputo fare in molti modi, con quella naturalità costruttiva che li pone in continuità con il carattere severo ed efficace che questa città possiede, ma sempre sapendo confrontarsi con le nuove strade indicate dalle sperimentazioni loro contemporanee.

Tutti questi esempi ormai famosi ci permettono di affinare lo sguardo con cui osservare le sperimentazioni più recenti, in cui anche il tema della strada, e tutte le sue variazioni fino alla soglia, è divenuta occasione per rompere i limiti dell’edificato, per stabilire nuove relazioni tra interno ed esterno.

Non si può dire, infatti, che gli architetti che hanno progettato e costruito i comparti residenziali che s’insediano nelle antiche aree industriali non abbiano ripreso alcuni temi che fanno parte del dibattito internazionale contemporaneo: primo fra tutti l’esigenza di un ritorno a un’idea di struttura urbana su cui tessere la trama della residenza. Anche la grande dimensione dell’impianto, il suo preciso disegno spesso integrato con spazi pubblici o parchi urbani, consolidano un positivo carattere di riconoscibilità rispetto alla dispersione morfologica con cui si confrontano. La densità notevole dei nuovi interventi trova la sua espressione architettonica nel ritorno all’isolato urbano come una struttura consolidata, salvo poi tentare timidi ammiccamenti nella rottura della cortina sul quarto lato.

Gli anni recenti, la dismissione di grandi comparti industriali ha riportato all’attualità non solo i concetti di trama, isolato, maglia stradale, dimensione del lotto, ma anche la loro definizione architettonica e i loro caratteri, approfondendo i temi della cortina stradale, dello spazio interno a corte, e riconfermando spesso quella divisione tra interno ed esterno, che la città moderna aveva cercato di smantellare.

C’è una serie di esempi che hanno tracciato una genealogia della stato attuale: esperienze interessanti ed articolate, come l’obbligo del recupero dell’isolato ottocentesco a Berlino o, in anni più recenti, l’îlot ouvert di Portzamparc o il progetto delle città olandesi di “nuova fondazione”. Pensiamo alle grandi isole intorno a Rotterdam o Amsterdam, come Ijburg, che si è rivelata una ottima occasione per una verifica operativa: con la scelta consapevole di una scala e di una trama urbana e della sua applicazione al progetto si è infatti saputo alludere ad un’idea di città da cui questa deriva, in una sorta di sineddoche particolarmente esplicita per il cittadino e l’abitante.

In un momento in cui l’urgenza della densità ci obbliga alla compattezza, queste sperimentazioni, così come il fondamentale ruolo del contrasto di scala di cui abbiamo parlato, permettono di ricavare le giuste “misure” su cui il progetto doveva essere impostato, e di suggerirne le sue possibili declinazioni e variazioni.

Recentemente anche la città di Milano ha affrontato questo tema in maniera esplicita: la nuova Commissione per il Paesaggio ha redatto in una breve cartella alcune sensate norme, utili appunto a “fare più città”[9]; tra queste possiamo vedere enunciato e auspicato il ricorso all’idea dell’isolato, dello spazio interno, nel riconoscimento dei caratteri positivi che questa morfologia necessariamente richiede ed evoca.

Certamente tutte queste esperienze sono indagini sui caratteri di una nuova urbanità, decisamente più consapevole rispetto alla frammentazione che ha prodotto una delle città diffuse più ampie d’Europa, realizzata senza controllo e in sordina negli anni settanta e ottanta; tuttavia gli esiti architettonici dei nuovi quartieri residenziali non ci restituiscono una loro interpretazione nel linguaggio architettonico.

Non è il caso di infierire sulla limitatezza degli strumenti messi in atto nell’esperienza dei Piani di Recupero Urbano (PRU) milanesi, si è voluto piuttosto cercare di inquadrare le domande che sarebbe stato bene che fossero poste, per individuarne alcune risposte operative da un lato nelle parallele esperienze delle grandi città d’Europa, dall’altro in un recente passato che vede concretizzarsi nelle figure dei maestri degli anni cinquanta di Milano un ventaglio di esperienze molto ricche e articolate, che meritano ancora di essere riconosciute.

I migliori esempi europei si offrono all’abitante come evocazioni di idee di città, invarianti urbane verificate nelle variazioni della contemporaneità, tramite l’affinamento di strumenti progettuali ben chiari. Scala, trama, strada, altezza, caratteri del domestico sono mischiati e rintracciabili nell’intera storia della casa e possiamo riconoscere come ogni periodo ha preferito utilizzarli. La specificità del contemporaneo, forse, è quella di sapere accettare più di una visione, di preferire l’approfondimento di un ventaglio di soluzioni per operare scelte da adattare al contesto e alla situazione, come dimostrano gli esiti certamente più interessanti di una nuova urbanistica, che ha trovato espressione nella realizzazione dei concorsi Abitare a Milano o nel recente lavoro sulla Strategia d’Intervento Locale del PGT.


[1] Dipartimento di Progettazione dell’Architettura del Politecnico di Milano.

[2] Aldo Rossi, L’architettura della città, Marsilio, Padova, 1966.

[3] Nel testo di Cerasi erano contenuti alcuni passaggi sul rapporto tra lo spazio, i vuoti e i suoi caratteri architettonici: alcuni concetti, come ad esempio l’unità stilistica, cromatica e percettiva, la tensione e il movimento, si offrivano come strumenti progettuali operativi, che sapevano articolare l’oggetto architettonico nel suo contesto, nel suo ambiente urbano.  Maurice Cerasi, La lettura dell’ambiente, CLUP, Milano, 1966.

[4] Bernardo Secchi, Villes sans objet: La forme de la ville contemporaine, Conférence Mellon CCA, 4 settembre 2008, p.2.

[5] Carlo Mollino, “Vedere l’architettura”, in «Agorà», settembre – novembre 1946, ora in L’architettura di parole. Scritti 1933-1965, Bollati Boringhieri, Torino, 2007, p. 284.

[6] «… designava più una forma di vita sociale e culturale, che la qualità di una struttura urbana o spaziale ben definita. L’urbanità sta a segnalare il comportamento aperto e tollerante dei cittadini, sia tra di loro che nei confronti degli stranieri. […] Invariabilmente contrapposta al provincialismo, l’urbanità evoca la conoscenza del mondo, l’apertura dello spirito e la tolleranza, l’acutezza intellettuale e la curiosità. » Thomas Sieverts, Entre-ville, une lecture de la Zwischenstadt, Editions Parenthèses, Marsiglia, 2004, p. 35-37.

[7] Françoise Choay, Le règne de l’urbain et la mort de la ville, in AAVV, La ville, art et architecture en Europe 1870-1993, Centre Pompidou, Parigi, 1994.

[8] Thomas Sieverts, Op. Cit., p. 44.

[9] “Edifici: Un’attenzione speciale è riservata alle soluzioni dei piani terra e dell’attacco al suolo, sia per gli aspetti formali che per le attività ospitate. Si vuole favorire il mantenimento e la rivitalizzazione dello spazio stradale, il progetto degli spazi a verde quando presente, la relazione eventuale con le costruzioni contigue in un rapporto non necessariamente mimetico. I processi in corso di sostituzione edilizia obbligano anche in questo caso a un’interpretazione dei contesti e alla consapevolezza che ogni singolo edificio concorre a determinare le componenti del paesaggio pubblico della città. Complessi di più edifici: Anche in questo caso si vuole indurre a fare ‘più città’ cercando quanto possibile di costituire spazi stradali pubblici, isolati, giardini, ecc. caratterizzati da permeabilità e interconnessioni con i quartieri circostanti. Verranno apprezzate le proposte che propongono i valori di prossimità, convivenza, coesistenza nel contesto di un’architettura urbana.” Pierluigi Nicolin, Manifesto degli indirizzi e delle linee guida della Commissione per il Paesaggio del Comune di Milano, verbale della seduta del 4 febbraio 2010.