UNA BELLA IDEA DI SPAZIO

un’altra storia operante

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Padiglione Italia, Innesti.

Nella sala buia, ottanta tasselli compongono il mosaico del nuovo Paesaggio Contemporaneo italiano: uno di questi proietta la fotografia di un palazzo in vetro opalino, i cui compatti fronti scultorei si aprono ad accogliere un vestibolo a cielo aperto.

L’immagine speranzosa del paesaggio inventato da Cino Zucchi, quasi a voler riportare di colpo l’Italia all’interno di un dibattito sul linguaggio internazionale dopo anni di latitanza, è composta da progetti diversi, accomunati da un certo gusto contemporaneo, quasi tutti edifici singoli, se non addirittura frammenti. Se l’immagine di architettura che li tiene insieme è chiara, è invece meno evidente se esista un’idea di città che sottostà a questi progetti.

È però possibile intuire una possibile linea di ricerca urbana nell’edificio opalino, il palazzo per uffici che lo studio giussaniarch (Roberto Giussani e Andrea Balestrero) ha recentemente terminato a Milano, zona Lambrate, in un contesto privo di ogni adeguamento a coordinate morfologiche comuni, scomposto nei fili di gronda, negli allineamenti stradali e nella varietà dei fronti. L’immagine di queste periferie recenti è nota, un’affannosa sommatoria di personaggi che si risolve in confusione e disordine, dove persino gli spazi aperti, nel rispondere a questa logica frammentata, non diventano mai veri spazi pubblici.

Il progetto ricompone l’intero isolato con astrazione e silenzio: la continuità dei fronti si adatta alla linea spezzata del lotto, per poi ripiegarsi in una internità, nel punto di incrocio delle tre strade su cui prospetta.

Un unico materiale, la cui omogeneità accentua il tema del vuoto, chiude la strada e apre la corte; un unico dettaglio costruttivo, la cui semplicità apparente si contrappone alla complessità degli strumenti progettuali messi in atto per ottenere un percorso che gradualmente ci porta dalla strada pubblica all’interno dell’isolato, risolvendosi in un continuum spaziale segnato da un’alternanza di soglie e di aperture.

La spaccatura verticale nell’intero del corpo edilizio si completa con il taglio orizzontale del piano terra, ottenendo una rotazione e uno sbalzo nella manica che apre l’atrio urbano verso l’esterno; pochi altri elementi vengono messi in gioco: la figura poligonale lasciata intuire dai segmenti interpretati dalle panchine e la forza del disegno della pavimentazione, che si arrampica sino al primo orizzontamento.

La contrapposizione tra l’uniformità e materialità di corpi e piani e la complessità del sistema spaziale si chiarisce ulteriormente nel successivo salone d’ingresso dove i due volumi autonomi dei corpi scala accompagnano verso l’apertura della corte interna a giardino.

Il difficile equilibrio tra la delimitazione del vuoto e la necessaria volontà di forma sembra essere raggiunto dal controllo scultoreo dei volumi e dall’inserimento delle sole forme, decise, dei corpi scala, ottenendo compressioni e dilatazioni che ci fanno percepire un primo abbraccio dei fronti che si apre nel respiro dello spazio centrale e una seconda compressione verso il verde interno. Un mantice, potremmo dire.

Lo spazio della corte è come quello di un mantice, si annulla nel moto e nel pathos delle pareti.
Roberto Giussani cita spesso con ammirazione il progetto di Pellegrini per il concorso di San Lorenzo a Milano che non a caso troviamo nella stanza attigua. Il curatore del padiglione Italia sceglie di incuneare la piccola nicchia che contiene i delicati disegni a matita dura su cartoncino di Cesare Pellegrini nella sala Milano, Laboratorio del Moderno, tra le più ampie cappelle dedicate alle belle fotografie dei nobili e noti esempi realizzati della modernità “anomala” degli anni cinquanta (Asnago&Vender, Caccia Dominioni, Gardella, ma anche Portaluppi) e la dura realtà della Città che Sale del contemporaneo.

Il progetto per lo spazio antistante la chiesa tardoantica di San Lorenzo, del 1986, assume così il ruolo di unico rappresentante, nella sequenza delle dodici tappe storiche milanesi, dell’intero periodo che ci separa dal sessantotto, cui siamo soliti associare la tradizione degli studi sulla tipologia edilizia e la morfologia urbana.

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Le quattro tavole, attraverso l’ausilio di una sola pianta e della verifica tridimensionale delle molte assonometrie, mostrano una serie di frammenti urbani molto particolari: un muro attiguo alle colonne romane, un basamento di cortina stradale che si scompone all’interno in gradonate leonardesche, basamenti e percorsi museali segnati dalle quattro torri con copertura a crociera, prese in prestito dall’antico impianto della chiesa, la lama di un fondale teatrale ed infine, nascosta nel suolo, una sala di loosiana memoria che riconduce alla quota della città romana; emergono alcune controllate concessioni, tutte dedicate alla preziosità dei dettagli e della materia, tra cui risaltano gli inserti in bronzo e i piani di marmo nero.

Questi elementi, queste forme così riconoscibili e allusive, non ritrovano unità in un solo oggetto architettonico, bensì trovano senso nel loro stare insieme a costruire uno spazio, un respiro che si comprime e si dilata come gli interni della spazialità antica, spesso compressi nel tessuto minore residenziale. Nel manoscritto possiamo leggere: lo spazio della corte è come quello di un mantice, si annulla nel moto e nel pathos delle pareti.

La proposta di museo archeologico, ipotizzato nel frammentato spazio antistante le colonne e la chiesa di San Lorenzo, incastonato tra il tessuto bombardato della città antica e la nuova edilizia residuale, riscatta il luogo dall’assurda “liberazione”, avvenuta negli anni trenta, dei volumi della chiesa dalla stretta delle case circostanti e, nello stesso tempo, interpreta il rifiuto della mimesi tipologica[2] della trama residenziale mercantile, lavorando sulla spazialità complessa del monumento tardoantico e svolgendolo nell’intero sostrato morfologico del quartiere.

Il risultato è una pianta provocatoriamente sgraziata, avversa all’estetica dell’oggetto isolato, plasmata a ricomporre i differenti brandelli urbani per disegnare il solo vuoto interno, svincolando la scelta delle forme che lo compongono, liberamente prese da Leonardo a Brancusi, o da Bramantino ad Adolf Loos, dall’obbligo della storia bum bum.[3]

 

Se è pur vero che si tratta di due progetti diversi, le analogie tra i due progetti sono evidenti; non ci interessa qui indagare ulteriormente i molti riferimenti simbolici utilizzati da Cesare Pellegrini per interpretare in chiave moderna un contesto antico[4], né la evidente attualità compositiva di giussaniarch. Non ci interessa sottolineare ancora le differenze tra l’esito tragico della lama nera che sprofonda lo spazio nel cuore della città antica o l’esito vivace dei nuovi spazi per una periferia altrimenti senza luoghi.

 

Questioni locali, si potrebbe dire, circoscritte ad un vecchio dibattito, ma in realtà si è voluto rintracciare questa microstoria milanese all’interno delle risposte dell’attuale Biennale d’Architettura, dove le domande poste toccavano il tema del confronto con la storia moderna.

Ci interessa capirne il valore all’interno di una Biennale diretta da Rem Koolhaas e di un padiglione curato da Cino Zucchi. Fundamentals avrebbe dovuto leggere gli Elementi nella loro declinazione dei tanti moderni nazionali. Innesti è il confronto con gli stati precedenti, da interpretare e incorporare; vuole essere cioè una ricerca sul senso delle forme nella storia che ha permesso al curatore di ricondurre la modernità milanese fino ai tempi della costruzione del Duomo e della Cà Granda.

 

I progetti di cui ho scelto di parlare raccontano la sapienza antica conosciuta attraverso la storia urbana, una lettura dell’ambiente[5] attenta maggiormente alla relazione tra le parti piuttosto che all’autonomia dell’oggetto architettonico, una riflessione sulle forme urbane liberate dalla coincidenza con la scelta tipologica, che permette oggi una interpretazione della morfologia del luogo attraverso i materiali del nostro tempo.

Ma il loro carattere d’attualità e di interesse rispetto ai temi posti dalla Biennale riguarda anche una idea di città che pone al centro l’architettura e la sua ricerca sugli utensili necessari a costruire spazialità, così strettamente legati al senso delle forme, alla lezione sulla modellazione, articolazione e compressione del vuoto, all’importanza dell’orizzontalità, verticalità, continuità e fluidità dei corpi urbani.

Sono progetti utili a capire, una volta di più, come il montaggio degli Elementi sia più importante degli elementi stessi, soprattutto quando si cerca, per la città, una bella idea di spazio[6].

 

 

 

 

 

 

 

 

[2] “La rispondenza tipologica, o un’unità solo schematica, sono ossature che non bastano a fare del nuovo forza civile di continuare la città; se per tal via ci si garantisce stabilità, si rinuncia a dare alvei in cui inseguire e riunire l’imprevedibile della vita. […] E’ insomma necessario, in questa età troppo ben disposta alle separatezze ed abituata alla riproduzione del visibile, tentare di aprire varchi nel bagaglio consolidato delle forme tipiche, poco adatte a rispondere alle domande del presente.” Cesare Pellegrini, Riconoscere e somigliare: quasi una spiegazione a tentativi di far fabbrica, in QA14, ottobre 1992, p.33.

[3] cfr. la verità bum bum di Heinrich Tessenow, in Osservazioni Elementari sul Costruire, Milano, 1976.

[4] “Ci ha da essere una conoscenza della storia specifica delle forme di organizzazione spaziale della città, capace di riconoscere individualità e contraddizioni aperte entro ogni insediamento attraverso lo studio della vicenda della sua costruzione; su questa base si può far sintesi, ordinando in priorità morfologiche rispetto all’insediamento le decisioni da prendere.” Cesare Pellegrini, in La formazione di una scuola di architettura, Milano, 2000.

[5] cfr. Maurice Cerasi, La lettura dell’ambiente, CLUP, Milano, 1973.

[6] Da una commento di Roberto Giussani sul progetto per San Lorenzo di Cesare Pellegrini.